don Alessandro Dehò – Commento al Vangelo del 7 Giugno 2020

Pietre incandescenti

L’alba, un monte e tra le mani tavole di pietra. Che bruciano. Sono incandescenti, come le due tavole della legge frantumate con rabbia contro il tradimento del suo popolo. Sono incandescenti, di quel fuoco che abita il cuore delle cose quando disegnano grandi responsabilità. Sono incandescenti perché Mosè sente di portare il peso di tutta la gente che in qualche modo sta provando a fidarsi di lui. E anche a fidarsi di quel Dio con cui Mosè dice di parlare. Sono incandescenti quelle pietre perché Mosè lo intuisce, anche la nuova legge sarà infranta, sarà sempre così, ogni legge in qualche modo autorizza il tradimento.

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In fondo hanno ragione, pensa Mosè, come fai ad ubbidire a delle tavole di pietra? Come fai a essere fedele a un codice di regole?

Poi il Signore scende dalla nube, e Mosè non se l’aspettava. Nessuna nuova regola, il Signore scende e si ferma presso Mosè e gli consegna il suo nome. E Mosè lascia cadere le due tavole, e inizia a comprendere. Che le dieci parole non sono solo leggi da rispettare, sono le note di una sinfonia, sono l’inizio di una danza, sono porte che aprono a una consapevolezza nuova. Mosè, mentre vede il Signore scendere dalla nube e consegnarsi alla sua creatura, comprende che la verità non è una regola ma è il farsi prossimo ad ogni uomo, comprende, Mosè, in un attimo, il cuore di quelle dieci parole che, se lasciate sulla pietra, non servono a niente ma se lasciate libere di incarnarsi possono trasformare gli uomini da branco confuso a compagni di viaggio.

Dieci parole per inaugurare legami di amicizia, per permettere alle relazioni di trasformare la vita: e allora io non rubo nulla a chi amo e non perché è scritto in qualche codice ma perché ho affetto sincero per chi vive accanto a me. Perché quando qualcuno prende qualcosa di mio mi sento violentato. E perché mi sento legato a mio fratello, a ogni essere vivente, sento che siamo parte dello stesso destino. E se riesco a fermarmi in casa del fratello sarò ospite e non avrò interesse a ucciderlo, a tradirlo, a usarlo. E se consegno il mio nome a qualcuno vuol dire che saprò amare consegnando tutto di me. E questo basta, e non mi importa più se è scritto in qualche decalogo, non è più importante essere ubbidiente, è urgente e fondamentale provare a essere felice.

Mosè comprende che lui non crede nel Signore perché ha letto il decalogo ma perché si è sentito amato. E allora o la legge aiuta ad amare Dio, gli altri e perfino se stessi oppure la legge stessa sarà solo l’ennesimo idolo, la scusa per sentirsi giusti. Ma il Signore è sceso dalla nube e si è fatto vicino, questo conta, e vuole che anche noi iniziamo a danzare la possibilità della prossimità. E camminare leggeri negli occhi di un amico, come il Signore sta facendo con Mosè, e lasciare un profumo buono di misericordia e di pietà, di pazienza, di amore e di fedeltà.

Le mani di Mosè sono vuote, le tavole di pietra sono cadute, non servono più, hanno accompagnato fino a lì, fino a un incontro. Non si può comandare di amare, non è la legge che può dare felicità, il decalogo è indicazione di percorso, è il racconto della traiettoria che porta al Signore, a se stessi e ai fratelli. La verità è un incontro. Non saranno i dieci comandamenti imparati a memoria a convertire, non sarà la catechesi, nemmeno la messa, e tantomeno questa mia riflessione, tutto è segno, traiettoria, al cuore di tutto c’è un incontro. Mosè capisce che ai suoi fratelli non deve portare un documento divino ma un volto luminoso, il volto bello di un innamorato, gli occhi lucidi di chi ha fatto esperienza della danza sensuale di un Dio che, sceso dalla nuvola, si è messo a danzare per il suo amato.

Mosè porterà ancora le due tavole di pietra ma comprende che bisogna avvicinarsi tanto, tantissimo a quelle pietre, fisicamente, vicino, così vicino da leggere parola per parola, così vicino da leggere lettera per lettera, così vicino a ogni singola lettera da non riconoscerla più, vedere solo un solco nella pietra, come un sentiero, ed entrare in quel solco e camminare incontro al fuoco d’amore che ha inciso per sempre la Sua Fedeltà alla nostra libertà.

La veritĂ  chiede sempre il rischio di un incontro. Noi non ci fidiamo delle leggi, noi ci affidiamo solo alle persone che ci amano.

“Dio ha tanto amato il mondo da dare suo figlio”. Come se il Signore avesse inteso l’ambiguità della lettera. Basta regole, basta insegnamenti, basta spiegazioni. Ciò che è stato scritto e ciò che sarà scritto dovrà essere riletto alla luce della decisione divina di consegnarsi all’uomo. Ad ogni uomo. Gesù è Amore fatto carne, è il messaggio definitivo, l’uomo non è solo creatura tra le creature ma è lo spazio della consegna di Dio al mondo. La Scrittura ricorda la verità incisa nella carne.

“Chiunque crede in lui”. Credere in Lui non come atto di obbedienza a una dottrina ma come sconvolgente consapevolezza di essere la generazione presente di Dio, di essere lo spazio in cui il Signore incide la sua presenza nel mondo. Credere è sentire di essere il frammento di mondo che può generare la prossimità divina al creato. Se non ci credo sono già perduto, condannato dalla mia ottusa pretesa di credere in un Dio comprensibile fuori da me stesso. Se mi accolgo, se assumo la mia carne e il mio sangue come sacramento dell’Eterno, come sacro spazio in cui il Signore, dopo essere sceso dalla nuvola in cui l’avevo confinato, si ferma e mi consegna il suo nome, cioè entra nella mia carne, in quel momento io credo.

Credo in me, credo in un mondo da amare, credo in un Dio che non è da spiegare ma da respirare, credo di essere lo spazio prescelto dall’Amore per mettere casa nel mondo.

 


AUTORE: don Alessandro Dehò
FONTE: Sito personale
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