don Alessandro Dehò – Commento al Vangelo del 18 Ottobre 2020

DI CHI SONO?

Ventottesima domenica Tempo Ordinario anno A

“Questa immagine e l’iscrizione di chi sono?”. La domanda rimane sospesa in un intreccio di sguardi, rimane in attesa, per poco, sopra il palmo aperto di una mano, sopra il cerchio perfetto di una moneta, sopra l’immagine di un imperatore, sopra l’iscrizione. Di Cesare. La risposta non può lasciarsi attendere, perché è la cosa più esplicita del racconto, la più elementare: quella moneta rimanda senza esitazioni al padrone. La moneta è sincera, esplicita se stessa con una fedeltà quasi commovente. Nel perimetro di quella moneta il mondo è chiaro, spietato forse, ingiusto magari, eppure chiaro. E io credo che Gesù usi la moneta solo per questo, per quella immediatezza tra ciò che rappresenta e il profilo di uomo a cui rimanda. Solo per questo. Per cui questa non è una pagina che giustifichi la separazione tra interessi temporali e spirituali, nessuna riflessione sul mondo economico, sull’utilizzo dei soldi, nessuna distinzione tra Cesare e Dio… questa non è una pagina che parla di monete ma, ancora una volta, di Verità. E lo fa a partire da una moneta, perché, piaccia o no, la moneta è l’unica cosa ad essere esplicitamente vera in questa pagina evangelica. La moneta è chiara, rimanda senza dubbio a Cesare. Il problema vero è l’ipocrisia e la falsità di tutto il resto.

Molto più complesso svelare “di chi sono” le parole che i discepoli ricamano con imbarazzante complicità davanti agli occhi di Gesù. Di chi sono quelle parole che parlano di verità e franchezza? Di chi sono quelle parole che dicono di riconoscere un maestro e di amarne la libertà? Non sono di chi le pronuncia. Questo è il dramma. Perché a dare voce sono discepoli di farisei che rimangono nell’ombra, che non si espongono, che non si giocano nella relazione. Vero è tutto ciò che si espone, nudo, e crocifisso, e ha il coraggio di portare le ferite del rifiuto. Vera è solo una parola che si incarna.

Io immagino questi giovani discepoli convinti di essere portavoce di sapienze furbe che, a mano aperta, devono riconoscere che quella moneta è più vera dei loro maestri. Io immagino quei giovani discepoli guardare quella moneta e comprendere, con dolore, di essere stati usati dalle persone che stimavano. Io immagino la vergogna di quei discepoli e l’umiliazione guardando quella moneta che mostrava di essere di una coerenza spaventosa.

E anche Cesare, questo costava ammetterlo, era più sincero dei capi religiosi di cui avevano tanta stima. Quante volte le parole apparentemente devote di alcuni ambienti ecclesiastici nascondono ipocriti interessi… meglio Cesare, che ci mette la faccia.  

Questa non è pagina sulla suddivisione dei poteri ma sulla verità e sulla fatica di reggerne il peso. Le parole che i discepoli dei farisei utilizzano sono splendide, perfette, esatte. Ma non sono vere. Tratteggiano un profilo di Gesù che nessuno dei suoi discepoli avrebbe saputo scrivere con tanta esattezza: “Maestro sappiamo che sei veritiero e insegni la via secondo verità. Tu non hai soggezione di alcuno, perché non guardi in faccia a nessuno…” traiettoria di pensiero perfetta, dogmaticamente ineccepibile ma non vera. Perché chi pronuncia quelle parole, o meglio, chi ha messo in bocca a quei ragazzi quelle parole, non cerca nemmeno di vivere ciò che proclama. Non è questione di coerenza ma di fede. Fede è ammettere che io non sono ciò che dico, che il Vangelo che proclamo è molto più di da me ma poter giurare davanti a chiunque di credere fino in fondo a ciò che dico.

E di non aver mai usato deliberatamente la seduzione del Vangelo per interessi personali. Questa è ciò che possiamo chiamare verità.

Nel Vangelo di oggi molto più sinceri dei farisei e dei loro discepoli è quella moneta che rimanda senza esitazioni a Cesare, perché la verità è un legame, è un’appartenenza, la verità non è un contenuto ma un volto. Una traiettoria che esplicita di chi siamo figli. Gesù è la Verità non solo perché dice cose vere ma, soprattutto, perché il suo vivere nel mondo è stato un costante riferimento al Padre. Perché credeva in quello che diceva. Perché è vissuto ed è morto in nome di quelle parole.

“Di chi sono?”, sono del Padre che ha coniato il mondo a sua immagine e somiglianza, sono del Padre perché ogni cosa che vedo mi parla di lui, ogni cosa ha la sua immagine e iscrizione, soprattutto l’uomo, così complesso e affascinante.

Lasciate pure che la moneta rimandi a Cesare e racconti di un mondo che si può vendere e comprare, ma non dimenticate mai che anche Cesare è di Dio. E che quella moneta è fusa di metalli che in origine narravano del Creatore.

Non dimenticate mai di interrogare la vita e di lasciarla parlare. Il volto di Dio emergerà dove l’appartenenza si scioglie in gesti di cura. Dove il “di chi sono?” diventa ricerca di essere amati da qualcuno, diventa preghiera che esplicita le nostre fami d’amore.

“Di chi sono io?”, di chi porto iscrizione di chi sono immagine?

“Di chi sono io?” pianto quando non mi sento amato da nessuno.

“Di chi sono?” le persone che muoiono da sole? Di chi sono queste lacrime, queste bare senza nome? Di chi sono questi tramonti che tolgono il fiato? Di chi sono i sogni e le sconfitte? Di chi sono le risate e di chi sono le lacrime? Di chi sono le parole? Di chi sono queste vite che nascondo, amano, muoiono, sperano?

Di chi sono e in chi sono le persone morte che mi mancano tanto?

Non è una pagina sulla separazione dei poteri ma, al contrario, sull’unificazione del reale. Sul bisogno che abbiamo di essere di qualcuno, perché infreno non sono le fiamme, non è qualcosa che sarà ma è già qui quando non abbiamo nessuno a cui affidarci.

Di chi sono io?  Ma anche… chi sono io per le persone che si fidano di me?

Sento che sono davvero povero? Che di mio non ho nulla ma che posso provare, ogni giorno, a vivere fino in fondo questa durissima povertà che come vuoto rimanda all’Unico che ci attende?

Noi non abbiamo niente perché se comprendiamo di essere suoi … siamo Tutto.


AUTORE: don Alessandro Dehò
FONTE: Sito personale
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