don Alessandro Dehò – Commento al Vangelo del 11 Ottobre 2020

Credere al vestito che si indossa

Pur sapendo che le parole del Vangelo di oggi parlano di un popolo che non ha saputo cogliere il profilo del Signore nei tratti del Nazareno.

Pur sapendo bene che quel finale di sangue e fuoco non è previsione ma ricordo di un Tempio incendiato sotto il cielo di Gerusalemme.

Pur sapendo tutto questo mi infilo tra le pieghe della parabola come un povero, smarrito mendicante, come chi ha creduto, e anche predicato, che la vita non fosse altro che un invito a nozze, che profumasse di festa l’aria del vivere quotidiano. Che si potesse vivere sempre da innamorati. Che anche morire, pure drammatico inciampo del respiro, non fosse altro che una nascita. Addirittura definitiva.

Mi incammino da mendicante raccogliendo la fatica di chi vuole condividere, dei traditi dalla vita, degli incagliati nel dolore, degli sconfitti, di chi ha visto morire, di chi continua a veder morire, di chi ormai crede che la felicitĂ  si da cercare solo nei capitoli giĂ  scritti. Accolgo senza giudizio alcuno chi non riesce a credere in banchetti celesti, chi non ha piĂą fame o, peggio, chi non ha piĂą nessuno con cui condividere il pane.

Ci si arrangia come si può, come naufraghi in balia del reale ci si aggrappa ai propri campi, ai propri affari. O al massimo si prova a non curarsene più di tutta quella Speranza che rischia di non far cicatrizzare le ferite. A volte, quando la rabbia chiude le palpebre ma non si ha abbastanza coraggio di piangere si attacca uccidendo con rancore chi osa ancora parlare di vita.

Chissà forse dare alle fiamme una città che non aiuta più a guardare il Cielo può essere utile. Per poter ricominciare serve un rogo. Come un roveto davanti a cui togliersi i sandali. Come un Parola infuocata per ricominciare. Come incendi a volerci riversare tutti per strada, con la rinnovata voglia di sopravvivere.

Che sia la strada lo spazio della vocazione? Che siano i percorsi esposti, i tentativi maldestri di raggiungere una qualsivoglia meta? Che siano gli incroci del vivere con la loro complessità gli spazi per scoprire davvero chi siamo? Gli incroci, dove si decide dove voler andare, dove si nasce, dove si cresce, dove si ama, dove si muore. In fondo nessuno ha mai detto che lo Sposo avrebbe cancellato il dolore. Forse è solo questione di come si cammina, e con chi si cammina. Forse la fede non è contrapporre la gioia del banchetto ai dolori della vita, forse fede è sentire che stavamo credendo a un Dio inesistente e ora, finalmente, è tempo di camminare. Forse aver fede non è un vivere semplificato ma comprendere che ogni momento può diventare lo spazio per non sentirsi soli, per fare esperienza della muta vicinanza di un Signore che non annulla le fratture del vivere me le abita. E dice che no, non finisce tutto qui.

Forse avere fede è credere in questo poco che promette di dilatarsi fino all’Infinito.

Forse la fede è sentirsi chiamati per nome, abbandonando la distinzione patetica e clericale tra i buoni e i cattivi, vivere non è “comportarsi bene” ma rispondere, nel senso più profondo del termine, sentire che la vita chiama sempre e comunque a prendere posizione e che non esistono affari propri, che nulla è proprio e che tutto è appello.

Forse la fede è tornare a guardare ogni uomo come un “commensale”, un affamato, un povero cristo che ha bisogno di essere invitato.

Eppure non basta. Non poteva finire così. Se tutta questa storia dei servi e delle strade, della chiamata al banchetto di buoni e cattivi non fosse altro che una nuova illusione?

Non poteva finire così.

E infatti non finisce così.

In gioco c’è un abito da scegliere per poter stare dentro la festa. In qualche modo l’abito fa il monaco. Perché l’abito dice una cosa fondamentale: che siamo chiamati a diventare consapevoli di chi siamo. Questo cambia davvero le cose. Che stavolta possiamo scegliere l’abito. Che le delusioni della vita, i dolori, le umiliazioni possono sì farci ripregare per sempre accartocciandoci attorno ai nostri dolori ma possono anche costringerci a decidere di noi.

Quel vestito è il simbolo esteriore di una scelta.

Forse fede è scegliere di vivere. Ancora. Nonostante tutto.

E di farlo con consapevolezza. Decidere di stare dentro questa vita e cercare, a volte con cocciutaggine, tutto quello che parla di vita, di amore, di cura, di gratuità. Sarà qualcosa di piccolo ma io devo vestirmi da invitato alle nozze cioè devo predispormi all’incontro.

SarĂ  qualcosa di piccolo, un segno, un simbolo, come un vestito, qualcosa che rimanda ad Altro. Qualcosa che dura il tempo di un attimo, eppure fondamentale.

Andare agli incroci delle strade per provare a riconoscere tracce di un Amore innamorato di noi, invito a un’Alleanza.

Prego per chi fa fatica a indossare quel vestito.

Prego per chi non se lo sente addosso.

Prego per chi si cuce abiti a lutto, scudi, corazze, tombe.

Prego per chi ogni mattina si veste da persona amata e poi vive, con pazienza, cercando di creder sempre di piĂą ai vestiti che indossa.


AUTORE: don Alessandro Dehò
FONTE: Sito personale
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