Commento al Vangelo del 6 aprile 2014 – Paolo Curtaz

Quinta domenica di Quaresima
Ez 37,12-14/Rm 8,8-11/Gv 11,1-45

Vieni a vedere

È splendido, Dio.

Disseta l’anima, ridona luce alla nostra cecità.

La quaresima è il tempo in cui riscoprire l’essenziale della fede, entrando nel deserto delle nostre giornate ingombre di cose da fare. Un tempo per lasciare che l’anima ci raggiunga.

E oggi, alla fine di questo breve percorso, troviamo un vangelo da brividi, il racconto di un’amicizia travolta dalla morte e dalla disperazione.

È lì, a Betania, il piccolo villaggio che sorge sul monte degli ulivi, nel declivio opposto a quello che sovrasta Gerusalemme, che Gesù volentieri si rifugia, in casa di questi tre suoi coetanei, Lazzaro, Marta e Maria, per ritrovare un po’ del clima famigliare di casa.

Per fuggire dalla Gerusalemme che uccide i profeti.

Che bello pensare che anche Dio ha bisogno di una famiglia.

Che bello fare della nostra vita una piccola Betania!

E in questo contesto che avviene il dramma: Lazzaro si ammala e muore, e Gesù non c’è.

Come succede anche a noi, a volte, e davanti alla malattia e alla morte di una persona che amiamo, scopriamo che Gesù è distante.

Tragedie

La resurrezione di Lazzaro è posta poco prima della Passione di Gesù.

È l’ultimo e il più clamoroso dei segni, quello che determina la decisione, da parte del Sinedrio, della pericolosità di Gesù e la necessità di un suo immediato arresto, senza indugiare ulteriormente.

Come se Giovanni volesse dirci che la vita di Lazzaro determina la morte di Gesù.

Immagine di uno scambio che, da lì a poco, sarà per ogni uomo.

La vicenda di Lazzaro, allora, è la vicenda di ognuno di noi.

Gesù ci disseta.

Gesù ci dona luce.

Gesù dona la sua vita per me.

Strazio

Nello straordinario e complesso racconto giovanneo, esiste un passaggio che voglio sottolineare.

Quando Marta e Maria, sorelle di Lazzaro, abituate ad accogliere il Signore nella loro casa a Betania, sanno della presenza di Gesù, escono di casa, disperate, si affidano all’amico e Maestro.

Il racconto è un crescendo di emozioni, di testimonianze di fede delle sorelle, ma anche di umanissimo sconforto e pena.

Quando Gesù vede la disperazione delle sorelle e della folla, resta turbato, e scoppia in pianto.

All’inizio del vangelo a Giovanni e Andrea, discepoli del Battista, che, su indicazione del profeta, lo avevano seguito e gli chiedevano dove abitasse, Gesù aveva risposto “venite e vedrete” (Gv 1,39).

Ora è Gesù che si fa discepolo, che è invitato ad andare.

Come se, fino ad allora, non avesse visto fino in fondo quanto dolore provoca la morte.

Come se fino ad allora Dio non avesse ancora capito quanto male ci fa la morte, quanto sconforto porta con sé il lutto.

Come se Dio non sapesse.

Come se Dio imparasse cos’è il dolore.

Dio piange, davvero.

E quel pianto ci lascia interdetti.

Turbamenti

Quel pianto ci sconcerta, ci scuote, ci smuove.

Dio, ora, sa cos’è il dolore.

Fra poche ore andrà fino in fondo, portando su di sé tutto il dolore del mondo.

Dio e il dolore si incontrano. Non è bastato che Dio diventasse uomo per condividere con noi la vita. Ha voluto imparare a soffrire, per redimere ogni pena.

Ci basta?

Non lo so.

Davanti ad un Dio che condivide, non sempre il nostro cuore si convince, si converte.

Come coloro che vedono il pianto di Gesù.

Alcuni notano l’amore di Gesù per Lazzaro, la sua compassione.

Altri, cinicamente, obiettano: Lui, che ha aperto gli occhi al cieco, non poteva anche far sì che costui non morisse?.

In queste parole abbiamo tutta la contraddizione dell’essere umano.

Preferiamo un Dio che condivide il nostro dolore o un Dio che ci evita il dolore?

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