Commento alle letture di domenica 29 Dicembre 2019 – don Jesús GARCÍA Manuel

Prima lettura: Siracide 3,3-7.14-17a

Il Signore ha glorificato il padre al di sopra dei figli e ha stabilito il diritto della madre sulla prole. Chi onora il padre espia i peccati e li eviterà  e la sua preghiera quotidiana sarà esaudita. Chi onora sua madre è come chi accumula tesori. Chi onora il padre avrà gioia dai propri figli e sarà esaudito nel giorno della sua preghiera. Chi glorifica il padre vivrà a lungo, chi obbedisce al Signore darà consolazione alla madre.

Figlio, soccorri tuo padre nella vecchiaia, non contristarlo durante la sua vita. Sii indulgente, anche se perde il senno, e non disprezzarlo, mentre tu sei nel pieno vigore. L’opera buona verso il padre non sarà dimenticata, otterrà il perdono dei peccati, rinnoverà la tua casa.

Il libro del Siracide, espressione della pietà ebraica del periodo ellenistico, in questi versetti fa come un commento al quarto comandamento, quello che prescrive di onorare il padre e la madre. Allo stesso modo dei sapienti dell’epoca, l’autore si rivolge a un giovane, a un allievo che dev’essere orientato nella scelta dei valori e dei comportamenti moralmente giusti. Durante l’era ellenistica non era raro il conflitto generazionale tra i padri, custodi della tradizione, e i figli, spesso recettori di nuove mentalità. D’altronde, non possiamo immaginare che, quanto si verifica oggi all’interno delle nostre famiglie, non accadesse anche, sebbene forse in maniera meno clamorosa, nelle famiglie antiche.

Ecco, allora, il tono solenne e insieme esortativo delle parole dell’autore: «Il Signore ha glorificato il padre al di sopra dei figli e ha stabilito il diritto della madre sulla prole. Chi onora il padre espia i peccati e li eviterà  e la sua preghiera quotidiana sarà esaudita. Chi onora sua madre è come chi accumula tesori. Chi onora il padre avrà gioia dai propri figli e sarà esaudito nel giorno della sua preghiera. Chi glorifica il padre vivrà a lungo, chi obbedisce al Signore darà consolazione alla madre» (3,3-7). Secondo lo stile tipico della letteratura sapienziale, per il buon comportamento è prevista una gratificante ricompensa: l’onore che i figli riservano ai propri genitori è fonte di benevolenza da parte di Dio. L’autore, dunque, fa appello al figlio che, in linea di massima, è portato a svalutare il valore della famiglia, considerandola un peso per la sua affermazione, un intralcio per i suoi propositi, un luogo dove tutto è superato, perché i tempi cambiano e i genitori non sembrano saper essere al passo con il nuovo.

Non meno importanti sono i consigli riguardo a quella che oggi chiameremmo “solidarietà generazionale”: «Figlio, soccorri tuo padre nella vecchiaia, non contristarlo durante la sua vita. Sii indulgente, anche se perde il senno, e non disprezzarlo, mentre tu sei nel pieno vigore. L’opera buona verso il padre non sarà dimenticata, otterrà il perdono dei peccati, rinnoverà la tua casa» (3,14-17). In realtà, come dimenticare che il figlio rimane debitore verso i propri genitori per tutto quello che essi hanno dato e sofferto durante la sua infanzia e adolescenza? Come trascurare il carico di affanni e di preoccupazioni per le sue malattie e i suoi insuccessi? Perciò, il sapiente si sente in dovere di richiamare i figli all’impegno di farsi carico dei bisogni dei propri genitori, affinché non abbiano a mancare del giusto sostentamento. All’assistenza non ci si può sottrarre, a maggior ragione nel caso in cui un genitore non fosse più in grado di badare a se stesso.

Probabilmente, avremmo desiderato che il libro del Siracide rivolgesse parole d’esortazione anche ai genitori, invece di mantenersi su una linea così tradizionale, ma questo non è l’unico luogo in cui egli si occupa di tali temi. Non pochi problemi dei figli, come ben sappiamo, derivano dall’inconsistenza personale di genitori, poco o nulla consci del ruolo fondamentale che ricoprono. Di questo è al corrente l’autore, che invita i padri a esercitare verso i figli la severità con moderazione, e a essere attenti scrutatori delle inclinazioni di coloro che hanno generato. Tuttavia, non è meno vero che, pur avendo ricevuto un’educazione buona, non raramente i figli si mostrano irriconoscenti rinnegandola, per prestare ascolto a falsi maestri che indicano percorsi di “liberazione” che si tramutano in disastri rovinosi.

Seconda lettura: Colossesi 3,12-21

Fratelli, scelti da Dio, santi e amati, rivestitevi di sentimenti di tenerezza, di bontà, di umiltà, di mansuetudine, di magnanimità, sopportandovi a vicenda e perdonandovi gli uni gli altri, se qualcuno avesse di che lamentarsi nei riguardi di un altro.  Come il Signore vi ha perdonato, così fate anche voi. Ma sopra tutte queste cose rivestitevi della carità, che le unisce in modo perfetto. E la pace di Cristo regni nei vostri cuori, perché ad essa siete stati chiamati in un solo corpo. E rendete grazie!

La parola di Cristo abiti tra voi nella sua ricchezza. Con ogni sapienza istruitevi e ammonitevi a vicenda con salmi, inni e canti ispirati, con gratitudine, cantando a Dio nei vostri cuori. E qualunque cosa facciate, in parole e in opere, tutto avvenga nel nome del Signore Gesù, rendendo per mezzo di lui grazie a Dio Padre. Voi, mogli, state sottomesse ai mariti, come conviene nel Signore. Voi, mariti, amate le vostre mogli e non trattatele con durezza. Voi, figli, obbedite ai genitori in tutto; ciò è gradito al Signore. Voi, padri, non esasperate i vostri figli, perché non si scoraggino.

Il brano paolino, nell’ambito di un’esortazione rivolta a ogni membro della comunità cristiana, coglie l’occasione per dire una parola circa i rapporti intrafamiliari: «Voi, mogli, state sottomesse ai mariti, come conviene nel Signore. Voi, mariti, amate le vostre mogli e non trattatele con durezza. Voi, figli, obbedite ai genitori in tutto; ciò è gradito al Signore. Voi, padri, non esasperate i vostri figli, perché non si scoraggino» (3,18-21 ). Il senso di queste parole, da mettere in relazione ad altri testi in cui Paolo tratta di questi argomenti, non può prescindere da quanto viene detto poco prima, quando si fa appello al cambiamento che deriva dall’essere divenuti una nuova creatura, perché trasformati dall’azione dello Spirito.

Infatti, può mai essere possibile che un cristiano — incoraggiato a vestirsi «di sentimenti di tenerezza, di bontà, di umiltà, di mansuetudine, di magnanimità » (3,12), a perdonare, a pregare e a fare della Parola di Dio il centro della sua vita (cf. 3,13-17) — nutra verso i propri familiari quei pregiudizi tipici dell’epoca, secondo i quali la moglie doveva essere sottomessa al pater familias e non essere considerata da lui uguale? Per non parlare, poi, del rapporto padri-figli, basato sull’autoritarismo della famiglia patriarcale. Perciò, i concetti di “sottomissione” della moglie al marito e di “obbedienza” dei figli verso il padre vanno intesi in rapporto alla reciprocità che il marito e padre deve esercitare nei confronti di coloro che gli sono affidati. In altri termini, ogni esercizio di autorità da parte del marito in relazione alla propria moglie, come da parte del padre in relazione ai propri figli, va compiuto non come affermazione, ma come offerta di sé. Tutto questo si basa su di un modello molto preciso di relazioni: quello che intercorre tra Gesù e la Chiesa sua sposa, e tra Dio Padre e noi, che ne siamo i figli.

Vangelo: Matteo 2,13-15.19-23

I Magi erano appena partiti, quando un angelo del Signore apparve in sogno a Giuseppe e gli disse: «Alzati, prendi con te il bambino e sua madre, fuggi in Egitto e resta là finché non ti avvertirò: Erode infatti vuole cercare il bambino per ucciderlo». Egli si alzò, nella notte, prese il bambino e sua madre e si rifugiò in Egitto, dove rimase fino alla morte di Erode, perché si compisse ciò che era stato detto dal Signore per mezzo del profeta: «Dall’Egitto ho chiamato mio figlio».  Morto Erode, ecco, un angelo del Signore apparve in sogno a Giuseppe in Egitto e gli disse: «Alzati, prendi con te il bambino e sua madre e va’ nella terra d’Israele; sono morti  infatti quelli che cercavano di uccidere il bambino». Egli si alzò, prese il bambino e sua madre ed entrò nella terra d’Israele. Ma, quando venne a sapere che nella Giudea regnava Archelao al posto di suo padre Erode, ebbe paura di andarvi. Avvertito poi in sogno, si ritirò nella regione della Galilea e andò ad abitare in una città chiamata Nàzaret, perché si compisse ciò che era stato detto per mezzo dei profeti: «Sarà chiamato Nazareno».

Esegesi

Con questo racconto si chiude il Vangelo dell’infanzia secondo Matteo. Fedele al suo programma narrativo — già indicato con la genealogia, che aveva lo scopo di dimostrare che Gesù appartiene al popolo della promessa di Abramo e alla stirpe della promessa di Davide — l’evangelista ci presenta il ruolo fondamentale ricoperto da Giuseppe. Egli funge da vero custode della Sacra Famiglia, ponendo la propria esperienza e disponibilità al servizio del piano divino, che gli venne rivelato di volta in volta attraverso i sogni (2,13.19.22). Il brano di questa domenica, da cui mancano i versetti 16-18 relativi alla strage degli innocenti, non offre al nostro desiderio l’opportunità di conoscere molti particolari sulle vicende del piccolo Gesù: ciò che viene raccontato è soltanto l’ordine divino di fuggire in Egitto, finché non giungerà una nuova disposizione, al fine di preservare la vita del bambino da coloro che volevano ucciderlo. Alla morte di Erode, il sovrano persecutore, Giuseppe fece ritorno e, sempre sotto la guida divina, si stabilì a Nazareth evitando la Giudea. A noi interesserebbe sapere quanto tempo si è trattenuta la famiglia in Egitto, dove ha dimorato, da chi è stata aiutata… Niente di questo, purtroppo, ci viene riferito.

Matteo, al contrario, vuole che la nostra attenzione si polarizzi esclusivamente su Gesù, sul quale si “ripete”, in un certo qual modo, la storia stessa del popolo di cui egli fa parte. Infatti, quale evento rispecchia meglio degli altri il punto essenziale della storia d’Israele, se non la permanenza in Egitto e l’esodo: «Egli si alzò, nella notte, prese il bambino e sua madre e si rifugiò in Egitto, dove rimase fino alla morte di Erode, perché si compisse ciò che era stato detto dal Signore per mezzo del profeta: «Dall’Egitto ho chiamato mio figlio» (2,14-15). La citazione tratta da Osea 11,1, come le altre citazioni dall’AT presenti in Mt 1-2, intende confermare che la vicenda di Gesù si configura quale adempimento delle profezie. Anche il v. 23 recherebbe una profezia, di non facile interpretazione: «Si ritirò nella regione della Galilea e andò ad abitare in una città chiamata Nàzaret, perché si compisse ciò che era stato detto per mezzo dei profeti: “Sarà chiamato Nazareno”». Forse dietro quest’affermazione c’è soltanto una tematica profetica (peraltro poco chiara), dovuta a sottili e molteplici allusioni linguistiche: il termine “nazareno”, in greco nazoraios, potrebbe essere collegato a nazir, cioè a un personaggio che è un “santo di Dio”; oppure al verbo nasar, che vuol dire “proteggere”; infine, ci potrebbe anche essere un nesso con il termine nèser, usato da Is 11,1 per indicare il “germoglio” di Iesse, il virgulto.

Ad ogni modo, è innegabile che la liturgia proponga questo brano evangelico con lo scopo di far riflettere su una realtà importante nel mondo degli uomini: la famiglia. Seguendo la prospettiva di Matteo, bisogna, come abbiamo già notato, soffermarci particolarmente su Giuseppe, personaggio poco loquace, molto discreto, fornito di grande prudenza e di fede profonda, chiamato a svolgere un ruolo non marginale nella storia della salvezza. Egli è una guida sicura e saggia per una giovane famiglia certo inesperta di vita tra gente straniera, per di più con un bambino appena nato. Con sollecitudine, quindi, esegue i comandi divini e, su questa terra, “sostituisce” Dio Padre nell’educazione da impartire quotidianamente al Figlio di Dio. Egli è, a pieno titolo, custode di colui che dovrà cambiare il volto della storia, ma anche custode di quello che, almeno in quei momenti, doveva essere un segreto: il germoglio dell’opera di Dio, nel silenzio di una famiglia anonima e nella periferia del mondo e della stessa nazione d’Israele.

Giuseppe, sull’esempio del grande patriarca Abramo, custodisce il figlio della promessa, il figlio amatissimo, un figlio non suo, benché quest’esperienza lo renda a tutti gli effetti modello per la paternità umana, fatta di lavoro e di semplicità, di affetto e di dedizione, di rispetto e di silenzio, di fede e d’abbandono al Signore.

Meditazione

Un’ammonizione sapienziale che ricorda i doveri dei figli verso i genitori (I lettura); un’esortazione che ordina i rapporti tra genitori e figli e tra mariti e mogli (II lettura); una narrazione che apre uno squarcio sull’infanzia di Gesù all’interno della sua famiglia (vangelo): il tema della famiglia è l’elemento unificante  i testi biblici di questa festa. Che va colta all’interno della celebrazione del mistero dell’incarnazione, cioè del Dio che, facendosi uomo, entra anche nella umanissima realtà famigliare.

Per fuggire però le possibili cadute retoriche e devozionali connesse all’idealizzazione della famiglia e della «sacra» famiglia, è opportuno ricordare che, nell’economia cristiana, e per la parola stessa di Gesù, la realtà decisiva è la nuova famiglia di Gesù, quella dei suoi discepoli radunata attorno a lui dall’annuncio della Parola di Dio e che si fonda non su legami di sangue, ma sul «fare la volontà di Dio» (Mt 12,46-50).

Se si può paralare, come a volte avviene, di chiesa come «famiglia di Dio», questo non può significare la riduzione della comunità cristiana al modello famigliare fondato su rapporti di carne e sangue; e se si può parlare di famiglia come «chiesa domestica», questo non può significare altro che il necessario lasciar spazio alla fede all’interno delle dinamiche intrafamigliari. Come appare dai testi biblici della liturgia odierna che collegano la carità nei confronti del genitore alla remissione dei peccati e all’esaudimento della preghiera (I lettura), che sollecitano un equilibrio di amore e rispetto reciproco tra marito e moglie «nel Signore» (II lettura), che mostrano come attraverso le vicende della famiglia di Gesù sia passata la storia di salvezza di Dio (vangelo).

Il testo evangelico intende certamente mostrare che Gesù ripercorre il cammino di Israele, «il figlio di Dio» («Israele è il mio figlio primogenito»: Es 4,22), scendendo in Egitto e poi ritornando in terra d’Israele. Ma il testo presenta anche le difficoltà e la precarietà di un’infanzia: minacce di morte che provocano la fuga di una famiglia con un neonato, con il disagio di vivere da profughi in terra straniera. Giuseppe, che «prende con sé il bambino e sua madre» (Mt 2,13.14.20.21), svolge quel compito di presenza e di protezione essenziale al genitore e che permette di traversare le contraddizioni e le difficoltà dell’infanzia che potrebbero segnare in modo pesante il futuro di un bambino. La famiglia appare come spazio di trasmissione di fiducia, come luogo della fiducia basilare grazie alla presenza attenta dei genitori.

La storia della salvezza avviene attraverso storie particolari, famigliari, attraverso quel reticolo di relazioni quotidiane di cui è intessuta l’esistenza umana. E passa attraverso la salvezza di storie e relazioni quotidiane: salvando la propria famiglia dal pericolo incombente, Giuseppe salva anche la storia della salvezza di Dio con l’umanità tutta. Salvare una vita è salvare il mondo.

Il testo evangelico presenta una fuga: e la fuga non è sempre un atto disonorevole, ma può anche essere un atto di discernimento che legge la storia e ne coglie i pericoli che vi sono celati, e un atto di coraggio che osa la paura e prende la decisione possibile. E a volte, non è data altra possibilità che la fuga. La fuga può divenire un atto di umiltà (perché esprime la coscienza della propria limitatezza e impotenza) e un atto di resistenza (perché non si piega al male dominante). E nel caso specifico del nostro testo evangelico, è un atto di responsabilità con cui Giuseppe assicura un futuro a Maria e a Gesù.

Facendo fare a Gesù il percorso della discesa in Egitto e poi dell’esodo che fece a suo tempo il popolo d’Israele, i suoi genitori narrano il Dio salvatore e redentore al loro figlio. Lo narrano vivendo la loro esperienza di pericolo e di salvezza alla luce della fede e della parola di Dio. Ogni genitore e ogni famiglia credente ha il difficile compito di narrare, di far fare esperienza del Dio creatore e salvatore ai loro figli. E non con espedienti sofisticati, ma con la loro stessa vita, con le loro scelte e le loro decisioni illuminate dall’obbedienza della fede.

Commento a cura di don Jesús Manuel García

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