Commento alle letture di domenica 22 Dicembre 2019 – Carlo Miglietta

Il commento alle letture di domenica 22 dicembre 2019 a cura di Carlo Miglietta, biblista; il suo sito è “Buona Bibbia a tutti“.

GIUSEPPE NEI VANGELI DELL’INFANZIA

La sorpresa di Giuseppe

Matteo è concorde con Luca nell’affermare la nascita verginale e la residenza di Gesù a Nazaret durante la sua infanzia.

Scrive Mons. Ravasi: “Noi tutti abbiamo in mente la scena dell’annunciazione coi colori teneri ed estatici del Beato Angelico nel Convento di san Marco a Firenze. Nell’ultimo dei suoi Canti spirituali Novalis confessava: “In mille immagini, Maria, ti vedo / amabilmente ritratta / Ma nessuna di esse può fissarti / come ti vede la mia anima”. L’annunzio dell’angelo a Maria è uno dei soggetti spirituali capitali nella memoria dell’Occidente: solo per citare un esempio a noi vicino, pensiamo a L’Annunzio fatto a Maria di Paul Claudel (1912). Già san Bernardo di fronte all’esitazione e allo sconcerto di Maria – che alla fine però si dichiara “serva del Signore”, un titolo biblico di onore e di consapevolezza di un’alta missione – dichiarava: “L’angelo aspetta la tua risposta, o Maria! Stiamo aspettando anche noi, o Signora, questo tuo dono, che è dono di Dio. Sta nelle tue mani il prezzo del nostro riscatto. Rispondi presto, o Vergine! Pronunzia, o Signora, la parola che terra e inferi e persino il cielo aspettano… Alzati, corri, apri!”.

L’improvvisa e sorprendente maternità di Maria crea, però, sconcerto in un’altra persona evangelica, il promesso sposo Giuseppe. E’ probabile che Maria abbia detto a Giuseppe di essere incinta, anche se i testi non lo dicono, spiegandogli le modalità, ed egli non avendo motivo di dubitare dell’onestà della fidanzata, cerca un modo per tirarsi indietro di fronte ad un progetto che lo supera. Lo scopo dei vangeli non è agiografico o storico, ma «kerigmatico» cioè catechetico: è un annuncio di Dio non una storia di Dio per soddisfare le nostre curiosità.

Il fidanzamento in Israele

Vediamo quale processo può essere avvenuto cronologicamente. Giuseppe è fidanzato con una ragazza di nome Miriam/Maria. Il fidanzamento al tempo di Giuseppe era diverso da quello dei nostri giorni. Il matrimonio era prerogativa dei genitori che sceglievano la sposa o lo sposo secondo la convenienza generale della famiglia o del clan (cf Gen 21,21; 24,2-4.50.51.67; 34,1-7). Raramente un giovane si sposava contro la volontà dei genitori (cf Gen 26,34-35). A volte il fidanzamento era contrattato da mediatori che restavano a digiuno fino alla conclusione degli accordi (cf Gen 24,33; 2 Cor 5,20). Il fidanzamento si divideva in due tempi: la promessa di fidanzamento, che poteva avvenire anche molti anni prima dal fidanzamento vero e proprio e il momento della ufficializzazione che diventava vincolante e aveva quasi gli stessi diritti e obblighi del matrimonio: era infatti accompagnato da un documento-contratto scritto o verbale (cf Gen 29,18). I fidanzati venivano riconosciuti come marito e moglie e avevano l’obbligo della fedeltà (cf Mt 1,18-20) come è evidente dal vangelo nel tentativo di Giuseppe di non accusare Maria di adulterio, condannandola alla lapidazione. I due promessi restavano nelle rispettive case e non avevano rapporti sessuali (cf Gen 29,21). L’età del fidanzamento era intorno ai 13-14 anni per lei e 18-24 per lui e durava circa un anno, durante il quale il fidanzato preparava la casa e la sposa l’abito nuziale e le celebrazioni nuziale a carica della famiglia della sposa. Non era consentito il matrimonio con donne cananee, moabite ed ammonite (Es 34,11-12,16; Dt 23,3-4), ma era lecito quello con una schiava straniera o con una prigioniera di guerra (cf Dt 21,1-11).

Nell’anno di fidanzamento ufficiale, Maria scopre di essere incinta e lei sa che il modo è inusuale, aperto al mistero di Dio. Giuseppe e Maria dovevano trovarsi nell’anno ufficiale del fidanzamento, se Giuseppe vuole rilasciarla in segreto, quando viene a sapere che Maria fa parte di un piano di Dio più grande di lui. Se Giuseppe avesse ripudiato la fidanzata incinta non di lui, lei sarebbe stata colpevole di adulterio e sottoposta alla lapidazione. Giuseppe si trova di fronte ad una scelta drammatica. Il libro della legge biblica, il Deuteronomio, è chiaro: “Se la donna fidanzata non verrà trovata vergine, la si farà uscire sulla soglia della casa paterna e la popolazione della sua città la lapiderà per farla morire, perché ha commesso un’infamia in Israele” (Dt 22, 20-21). Spesso si arriccia il naso sulla gravità della sanzione, cioè la pena di morte, poiché nella mentalità odierna l’adulterio è un dato «scontato» molto più diffuso di quanto non si possa immaginare ed è quindi considerato con benevolenza. Nella mentalità biblica, il matrimonio trasforma le due individualità  in una nuova personalità collettiva: l’io e il tu diventano il «noi» che viene così a costituire un organismo nuovo e unico che contiene l’immagine di Dio «incarnata» nella coppia e non nel maschio o nella femmina (cf Gen 1,27). La coppia è «una carne sola», cioè un essere vivente in sé: «Per questo l’uomo abbandonerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie e i due saranno una sola carne» (Gen2,24). L’adulterio è un attentato all’integrità della «persona-coppia» perché  uccide il «noi» squartandolo in due pezzi e cercando di sostituirne uno con una metà estranea che non potrà mai restituire la vita alla persona- coppia già uccisa. Per questo la legge punisce l’adulterio con l’omicidio (Lv 20,10), applicando la legge del taglione (Es 21,12.24).

Il giudaismo posteriore aveva attenuato la norma, imponendo però il ripudio: è ciò che deve fare anche Giuseppe.

Egli, però, da “uomo giusto”, cioè mite e buono, vuole scegliere la via segreta, quella di un atto senza clamore, senza denunzia legale e processo ma solo alla presenza di due testimoni, come gli consentiva la legge. Maria se ne sarebbe ritornata alla casa paterna per una vita emarginata e infelice.

L’annunciazione a Giuseppe

Giuseppe è la figura centrale e attiva in Matteo. Giuseppe riflette, medita, non si lascia guidare dagli impulsi: è il giusto riflessivo: “Mentre stava pensando a queste cose…”; e deve rimuginare così a lungo, nell’angoscia della scelta, che alla fine si addormenta sfinito: e in sogno gli appare l’Angelo di Dio che lo chiama a diventare il padre putativo del Figlio di Dio (Mt 1,20-21). L’angelo è per eccellenza il segno di una rivelazione divina, come lo è il sogno – se ne contano cinque nel Vangelo dell’infanzia di Gesù secondo Matteo – è il simbolo della comunicazione di un mistero. La “tardemah”, il sonno estatico e profondo, che spesso nella Bibbia è proprio il modo per esprimere un intervento soprannaturale (cfr Gen 2,21; 15,12; 20,3; 26,24; 28,10-22; 31,24; 1 Re 3,5; Gb 33,15; Mt 1,20; 2,12-13.19.22).

Matteo ci narra quindi un’”annunciazione a Giuseppe”. Leggiamone le battute fondamentali. “Maria, promessa sposa di Giuseppe, prima che andassero a vivere insieme, si trovò incinta per opera dello Spirito Santo. Giuseppe, suo sposo, che era giusto e non voleva ripudiarla, decise di licenziarla in segreto. Mentre stava pensando questo, ecco apparirgli in sogno un angelo che gli disse: Giuseppe, figlio di Davide, non temere di prendere con te Maria, tua sposa, perché quello che in lei è generato viene dallo Spirito Santo. Essa partorirà un figlio e tu lo chiamerai Gesù; egli, infatti, salverà il suo popolo dai suoi peccati” (Mt 1,18-21).

Tra i tanti modi di narrare e comunicare nella Bibbia esiste un genere particolare che riguarda gli annunci di nascita. In essi troviamo quasi sempre gli stessi elementi perché sono costruiti attorno ad un canovaccio: c’è un angelo che appare, un destinatario dell’annuncio (qui Giuseppe: ebr.: Yasàf – egli aggiunge/aumenta) che ha un titolo che ne specifica il ruolo (qui «figlio di Davide») che esprime la sua funzione di garante legale della discendenza davidica di Gesù; una difficoltà da superare (in genere la sterilità, qui «prendere con te Maria, tua sposa», non nonostante sia incinta, ma appunto perché incinta); un segno dato dall’angelo a garanzia delle sue parole (qui manca): e infine, una precisazione sul nome del nascituro (qui «Gesù» che in ebraico è Jeoshuà o Joshuà  e significa «Dio salva/è salvezza»).

Il senso dell’annuncio a Giuseppe si può condensare in queste domande: qual è la funzione di Giuseppe nella nascita di Gesù? Quale sarà il suo compito nei confronti del bambino che non è suo, ma a cui egli deve garantire una appartenenza legale in quanto Giuseppe è del casato di Davide?

Giuseppe è invitato a perfezionare il matrimonio con Maria, superando ogni perplessità o sdegno, e ad assumere la paternità legale nei confronti del nascituro: l’imporre il nome – che viene spiegato etimologicamente come “salvatore” (“Gesù” deriva dalla radice ebraica jasha’, “salvare”) – era un atto tipico della patria potestà” (Ravasi).

Giuseppe il giusto

Giuseppe è “giusto” perché constatando una presenza di Dio, un’economia superiore, si ritira di fronte ad essa, senza pretese. Il testo però dice che Giuseppe «poiché era uomo giusto» (Mt 1,19), ma come può essere «giusto» se cerca di non osservare la giustizia che la legge impone, cioè l’accusa di adulterio e la conseguente condanna a morte per lapidazione? Evidentemente non si tratta di una «giustizia legale» che dà l’opportunità ad appellarsi alla legge per vedere soddisfatto un proprio diritto. Egli è «giusto» in quanto uomo timorato di Dio perché la sua giustizia è di ordine morale: se nella maternità di Maria c’è l’intervento di Dio, Giuseppe non vuole appropriarsi di diritti sul nascituro che non gli appartengono. Giuseppe è «giusto» perché è uomo «vero»: non è lui il padre del figlio che deve nascere e non sarà lui a presentarsi al mondo come il padre che non è. Se Dio ha un suo progetto, Dio troverà il modo di realizzarlo con i suoi mezzi, non sarà certamente Giuseppe a contrastarlo o ad appropriarsene. Giuseppe è l’uomo descritto dal Salmo: «Beato l’uomo che teme il Signore… la sua giustizia rimane per sempre. Spunta nelle tenebre come luce per i giusti, buono, misericordioso e giusto… il giusto sarà sempre ricordato (cf Sal 112/111, 1.3-4.6). Egli della stessa stirpe di Elisabetta e Zaccaria, genitori di Giovanni battista, che sono «giusti davanti a Dio» (Lc 1,6). La giustizia di Giuseppe non  risiede nel suo essere ligio alla legge materiale, rispettoso scrupoloso della norma giuridica, ma egli è giusto perché valuta gli eventi, ne comprende in parte il senso e sceglie il suo ruolo che è quello di non essere un ostacolo. La giustizia di Giuseppe è una partecipazione attiva agli eventi che vive. “Giusto” ha così il senso tipico di Matteo, cioè accettazione del piano di Dio anche là dove esso sconcerta il proprio. Tenendo presente questo senso che Matteo dà al termine “giusto”, possiamo forse affermare che l’annuncio dell’angelo non ha come oggetto il concepimento verginale, che Giuseppe già conosceva (e che costituiva appunto il motivo per cui pensava di ritirarsi nell’ombra). Ma l’oggetto è invece di fargli conoscere il compito che lo attendeva, cioè quello d’imporre il nome al bambino e assumerne la paternità legale.

Non siamo giusti quando siamo coerenti con la legge o abbiamo ragione o riconosciamo il dovuto, ma quando dimoriamo nella verità di noi stessi e nella verità della relazione con gli altri. Non la giustizia della legge, ma la giustizia come virtù, cioè come prospettiva di vita che guarda l’intimo degli eventi e delle persone, non il comportamento dell’apparire: è il motivo per cui è una delle quattro «virtù cardinali» con la prudenza, la fortezza e la temperanza (CCC 1805.1807). Essere giusti significa superare la legge e valutare le cose dal punto di vista della verità. L’angelo però interviene per dire a Giuseppe che proprio per questa sua attitudine alla giustizia è stato scelto per essere il «custode legale» del bambino che nascerà. E’ la prima adozione legale della storia o almeno la più famosa.


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