Commento alle letture del Vangelo del 23 ottobre 2016 – Carla Sprinzeles

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[ads2]Oggi viene completata la riflessione di domenica scorsa sulla preghiera.
Domenica scorsa abbiamo visto la preghiera di domanda, quali sono i suoi meccanismi, qual è il suo significato.

Qual è l’atteggiamento adatto, giusto, per crescere come figli di Dio?
Essere consapevoli di essere creature bisognose dell’azione di Dio, della sua presenza, per cui noi per nostro conto non siamo nulla, se non ciò che Dio è diventato in noi e lo sta diventando istante per istante. Nella vita tutto ci viene continuamente donato e quindi ci appartiene solo quando lo accogliamo, consapevoli che non è una nostra qualità o merito, ma ci è offerto, consegnato.

L’atteggiamento di presunzione di coloro che si ritengono giusti, buoni e si giudicano superiori agli altri è contrario alla consapevolezza di essere creatura di Dio.
Dire che noi non siamo nulla, non vuol dire che la vita in noi non si esprima, ma la vita è prima, è più grande di noi, noi siamo centrati su noi stessi e poniamo noi al centro delle nostre azioni.

Quando ci raccogliamo in preghiera dovremmo riconoscere che tutto ciò che c’è in noi è dono, puramente dono, e che noi mettiamo dei limiti al dono ricevuto.

SIRACIDE 35, 15-17. 20-22
La prima lettura è tratta dal libro del Siracide, scritto nel II secolo a.C. quando in terra d’Israele dilagava il pensiero e i costumi ellenistici.
Mentre i fratelli Maccabei hanno risposto con una reazione armata, Ben Sira ha voluto sostenere il suo popolo muovendosi su un piano educativo, riproponendo la tradizione sapienziale d’Israele.

Il brano che leggiamo oggi è come un piccolo catechismo, dove Ben Sira presenta il tema della preghiera con tratti di grande umanità, ci invita ad apprezzare la preghiera dell’umile in stretta relazione con la parabola che leggeremo nel vangelo di oggi.
“Il Signore è giudice e per lui non c’è preferenza di persone”.

Il maestro di sapienza ammonisce i suoi lettori a non lasciarsi prendere da un certo ritualismo liturgico, quasi che l’offrire a Dio sacrifici più ricchi possa in qualche modo compensare uno scorretto comportamento sociale nei confronti dei poveri e degli oppressi.
Il “Dio del diritto” respingerà come tentativo di corruzione ogni offerta intesa a compensare le proprie ingiustizie.
L’espressione “preferenza di persone” rimanda a una prassi sociale nella quale, tra i giudici che sedevano alle porte della città per amministrare la giustizia, potevano insinuarsi simpatie personali o sentenze dietro compenso. Jahveh non è così.

“L’Altissimo si lascia raggiungere dai poveri che lo supplicano”.
Già in Esodo c’è scritto: “Se maltratti l’orfano, quando egli invocherà il mio aiuto, io ascolterò il suo grido”; in un salmo si dice che “Dio è il padre degli orfani e il difensore delle vedove”.

“La preghiera del povero è potente ed efficace”; l’ immagine di Ben Sira è che la forza di questa preghiera “giunge fino alle nubi” e che il soccorso tempestivo ed efficace di Dio si prende cura con benevolenza del povero.
Il cuore di Dio pulsa per gli oppressi da mali fisici e morali che sono l’oggetto privilegiato.

LUCA 18, 9-14

La parabola che ci viene proposta da Luca è quella del fariseo e del pubblicano.
Al tempo di Gesù il fariseo era la persona più onesta, più fedele alla legge, che c’era a quel tempo.
Il gruppo dei farisei era sorto 150 anni prima di Gesù ed era sorta proprio per affermare la fedeltà alla legge mosaica e tradizionale.

I farisei, oltre alla legge mosaica osservavano una legge orale, un complesso di dottrine che loro si trasmettevano.
Erano quelle “tradizioni di uomini” che non venivano da Dio.
Quindi il fariseo è giusto e dice cose vere, ma è presuntuoso.

Il “pubblicano” era il traditore di quel tempo, perché collaboravano con i romani e raccoglievano le tasse per loro conto.
Gesù ci parla di amore, perché l’amore perduri, perché sia amore, è necessario l’ammirazione reciproca.
Il disprezzo invece è incompatibile con la vera relazione.
Ma i sentimenti riproducono il vissuto personale.

“Ama il tuo prossimo come te stesso”, dice la Bibbia, perché se non ami te stesso, sarai incapace di amare l’altro. Se disprezzi l’altro, in realtà disprezzi te, non hai fiducia in te stesso e provi il bisogno di svalutare il fratello perché non ti possa superare, almeno ai tuoi occhi.

La parabola ci presenta due persone che pregano: il fariseo, che è quello da compiangere, è un uomo insicuro che cerca disperatamente di convincersi del suo valore, ma che a sua insaputa confessa la sua inadeguatezza con le accuse che addossa agli altri.
E’ lui il ladro che ruba la dignità all’altro, l’ingiusto che non sa dare al suo simile il rispetto che gli deve, l’adultero che non è fedele all’amore.

Accusiamo sempre gli altri di ciò che ci pportiamo dentro, ma di cui rifiutiamo di prendere coscienza per la paura di essere biasimati, nel caso in cui il nostro difetto venisse alla luce.
Ai nostri occhi la critica sembra toglierci il diritto di esistere, come quando eravamo bambini e le sgridate dei genitori sembravano annullarci.

L’uomo libero si permette invece l’errore.
Se confessiamo il nostro peccato al Signore, ci fidiamo dell’amore di Dio, non abbiamo paura del Signore, siamo uomini liberi, che possiamo vederci così come siamo, senza nascondere le nostre miserie dietro scuse o accuse.
Il pubblicano è così, ha il coraggio di vedersi così com’è e di parlare con Dio.
Ci insegna il segreto della vera preghiera: il Signore non ha bisogno delle nostre belle elevazioni mentali, ma desidera che gli esponiamo le nostre fragilità.
Il fariseo ha paura di vedersi colpevole.

Il suo autocompiacimento rivela la sua profonda insoddisfazione, come il bambino che vanta alla mamma il poco che fa e che ha bisogno della sua approvazione per sussistere.
E’ insicuro, perché non si sente accettato né dagli altri, né da Dio, è come se dovesse darsi l’esistenza da solo.
Il pubblicano conosce Dio e si fida abbastanza per affidarsi totalmente a lui.

L’uno è sveglio, l’altro ancora addormentato.
Dio riempie il nostro vuoto, non siamo noi a riempirlo!
Occorre imparare a ringraziarlo, anche in situazioni negative, anche in circostanze limitate, noi cogliamo il dono di Dio e diciamo: “Grazie, Signore, per i fratelli che incontriamo.”
Cosa vuol dire:”Tornò a casa giustificato”? “In un giusto rapporto con Dio”!

Amici, la preghiera è autentica se ci mette in giusto rapporto con Dio.
Riconoscerci creature, che sbagliano, che peccano ma che accolgono la misericordia di Dio e sono solidali con i fratelli. Ognuno di noi tende ad essere presuntuoso, ma cerchiamo di accorgecene e a permettere a Dio di modificare questo atteggiamento sbagliato!

A cura di Carla Sprinzeles | via Qumran

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XXX Domenica del Tempo Ordinario – Anno C

Lc 18, 9-14
Dal Vangelo secondo Luca

 9Disse ancora questa parabola per alcuni che avevano l’intima presunzione di essere giusti e disprezzavano gli altri: 10«Due uomini salirono al tempio a pregare: uno era fariseo e l’altro pubblicano. 11Il fariseo, stando in piedi, pregava così tra sé: “O Dio, ti ringrazio perché non sono come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adùlteri, e neppure come questo pubblicano. 12Digiuno due volte alla settimana e pago le decime di tutto quello che possiedo”. 13Il pubblicano invece, fermatosi a distanza, non osava nemmeno alzare gli occhi al cielo, ma si batteva il petto dicendo: “O Dio, abbi pietà di me peccatore”. 14Io vi dico: questi, a differenza dell’altro, tornò a casa sua giustificato, perché chiunque si esalta sarà umiliato, chi invece si umilia sarà esaltato».

C: Parola del Signore.
A: Lode a Te o Cristo.

  • 23 – 29 Ottobre 2016
  • Tempo Ordinario XXX, Colore verde
  • Lezionario: Ciclo C | Anno II, Salterio: sett. 2

Fonte: LaSacraBibbia.net

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