Commento al Vangelo per domenica 17 Maggio 2020 – p. Raniero Cantalamessa

Farsi paracliti

Nel Vangelo Gesù parla dello Spirito Santo ai discepoli con il termine di Paraclito che significa ora consolatore, ora difensore, ora le due cose insieme. Nell’Antico Testamento, Dio è il grande consolatore del suo popolo. Questo “Dio della consolazione” (Rom 15, 4), si è “incarnato” in Gesù Cristo che si definisce infatti il primo consolatore o Paraclito (Gv 14, 15).

Lo Spirito Santo, essendo colui che continua l’opera di Cristo e che porta a compimento le opere comuni della Trinità, non poteva non definirsi, anche lui, Consolatore, “il Consolatore che rimarrà con voi per sempre”, come lo definisce Gesù. La Chiesa intera, dopo la Pasqua, ha fatto un’esperienza viva e forte dello Spirito come consolatore, difensore, alleato, nelle difficoltà esterne ed interne, nelle persecuzioni, nei processi, nella vita di ogni giorno. Negli Atti leggiamo: “La Chiesa cresceva e camminava nel timore del Signore, colma della consolazione (paraclesis!) dello Spirito Santo” (At 9, 31).

Dobbiamo ora tirare da ciò una conseguenza pratica per la vita. Bisogna diventare noi stessi dei paracliti! Se è vero che il cristiano deve essere “un altro Cristo”, è altrettanto vero che deve essere un “altro Paraclito”. Lo Spirito Santo non solo ci consola, ma ci rende anche capaci di consolare a nostra volta gli altri. La consolazione vera viene da Dio che è il “Padre di ogni consolazione”. Viene su chi è nell’afflizione; ma non si arresta in lui; il suo scopo ultimo è raggiunto quando chi ha sperimentato la consolazione se ne serve per consolare sua volta, il prossimo, con la consolazione stessa con cui lui è stato consolato da Dio.

Non contentandosi, cioè, di ripetere sterili parole di circostanza che lasciano il terreno che trovano (“coraggio, non avvilirti; vedrai che tutto si risolverà per il meglio”!), ma trasmettendo l’autentica “consolazione che viene dalle Scritture”, capace di “tener viva la speranza” (cfr. Rom 15,4). Così si spiegano i miracoli che una semplice parola o un gesto, posti in clima di preghiera, sono capaci di operare accanto al capezzale di un ammalato. È Dio che sta consolando quella persona attraverso di te!

In un certo senso, lo Spirito Santo ha bisogno di noi, per essere Paraclito. Egli vuole consolare, difendere, esortare; ma non ha bocca, mani, occhi per “dare corpo” alla sua consolazione. O meglio, ha le nostre mani, i nostri occhi, la nostra bocca. La frase dell’Apostolo ai cristiani di Tessalonica: “Consolatevi a vicenda” (1 Tess 5,11), stando alla lettera, si dovrebbe tradurre: “siate dei paracliti gli uni per gli altri. Se la consolazione che riceviamo dallo Spirito non passa da noi ad altri, se vogliamo trattenerla egoisticamente solo per noi, essa ben presto si corrompe. Ecco perché una bella preghiera, attribuita a san Francesco d’Assisi, dice: “Che io non cerchi tanto di essere consolato, quanto di consolare; di essere compreso, quanto di comprendere, di essere amato, quanto di amare…”.

Alla luce di quello che ho detto, non è difficile scoprire chi sono oggi, intorno a noi, i paracliti. Sono quelli che si chinano sui malati terminali, sui malati di AIDS, che si preoccupano di alleviare la solitudine degli anziani, i volontari che dedicano il loro tempo alle visite negli ospedali. Quelli che si dedicano ai bambini vittime di abusi di ogni genere, dentro e fuori casa. Terminiamo questa riflessione, con i primi versi della Sequenza di Pentecoste, dove lo Spirito Santo è invocato come il “consolatore perfetto”:

“Vieni, padre dei poveri, vieni datore dei doni, vieni luce dei cuori.
Consolatore perfetto; ospite dolce dell’anima, dolcissimo sollievo.
Nella fatica, riposo, nella calura, riparo, nel pianto conforto”.


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