Commento al Vangelo per domenica 10 Maggio 2020 – p. Raniero Cantalamessa

La risposta cristiana alla morte

Commento del 2008

Nel libro della Genesi si legge che dopo il peccato Dio disse all’uomo: “Con il sudore del tuo volto mangerai il pane; finché tornerai alla terra, perché da essa sei stato tratto: polvere tu sei e in polvere ritornerai” (Gen 3, 19). Ogni anno, nel mercoledì della ceneri, la liturgia ci ripete questo severo ammonimento: “Ricordati che sei polvere e in polvere ritornerai”. Se dipendesse da me, io farei sparire immediatamente questa formula dalla liturgia. Giustamente ora la Chiesa permette di sostituirla con l’altra: “Convertitevi e credete al vangelo”. Prese alla lettera, senza le dovute spiegazioni, quelle parole sono infatti l’espressione perfetta dell’ateismo scientifico moderno: l’uomo non è che una polvere di atomi che si risolverà, alla fine, in una polvere di atomi.

Il Qoelet, un libro della Bibbia scritto in un’epoca di crisi delle certezze religiose in Israele, sembra confermare questa interpretazione atea quando scrive: “Tutti sono diretti verso la medesima dimora; tutto è venuto dalla polvere e tutto ritorna nella polvere. Chi sa se il soffio vitale dell’uomo salga in alto e se quello della bestia scenda in basso nella terra?” (Qo 3, 20-21). Alla fine del libro, quest’ultimo terribile dubbio (chissà se c’è una differenza tra la sorte finale dell’uomo e quella dell’animale) sembra risolto positivamente, perché l’autore dice che “il corpo ritorna alla polvere, ma lo spirito torna a Dio che lo ha dato” (cf. Qo 12,7). Negli ultimi scritti dell’Antico Testamento comincia, è vero a farsi strada, l’idea di una ricompensa dei giusti dopo morte e perfino quella di una risurrezione dei corpi, ma è una credenza ancora assai vaga nel contenuto e non condivisa da tutti, per esempio dai Sadducei.

Su questo sfondo, possiamo valutare la novità delle parole con cui inizia il vangelo di questa domenica: “Non sia turbato il vostro cuore. Abbiate fede in Dio e abbiate fede anche in me. Nella casa del Padre mio vi sono molti posti. Se no, ve l’avrei detto. Io vado a prepararvi un posto; quando sarò andato e vi avrò preparato un posto, ritornerò e vi prenderò con me, perché siate anche voi dove sono io”. Esse contengono la risposta cristiana alla più inquietante delle domande umane. Morire non è – come era agli inizi della Bibbia e presso il mondo pagano – uno scendere nello Sheol o nell’Ade per condurvi una vita da larve o di ombre; non è – come per certi biologi atei – un restituire alla natura il proprio materiale organico per un ulteriore uso da parte di altri viventi; non è neppure – come in certe forme di religiosità attuali che si ispirano a dottrine orientali (spesso mal comprese) – un dissolversi come persona nel gran mare della coscienza universale, nel Tutto o, a seconda dei casi, nel Nulla…È invece un andare a stare con Cristo nel seno del Padre, un essere dove lui è.

Il velo del mistero non è tolto perché non può essere tolto. Come non si può descrivere cos’è il colore a un cieco dalla nascita o il suono a un sordo, così non si può spiegare cos’è una vita fuori del tempo e dello spazio a chi è ancora nel tempo e nello spazio. Non è Dio che ha voluto tenerci all’oscuro…Ci è detto però l’essenziale: la vita eterna sarà una comunione piena, anima e corpo, con Cristo risorto, un condividere la sua gloria e la sua gioia.

Papa Benedetto XVI, nella sua recente enciclica sulla Speranza (Spe salvi) riflette sulla natura della vita eterna da un punto di vista anche esistenziale. Comincia con il prendere atto che ci sono persone che non desiderano affatto una vita eterna, ne hanno anzi paura. A che scopo, si chiedono, prolungare una esistenza che si è rivelata piena di problemi e di sofferenze?

La ragione di questa paura, spiega il Papa, è che non si riesce a pensare alla vita se non nei modi che conosciamo quaggiù; mentre si tratta sì di vita, ma senza tutte quelle limitazioni che sperimentiamo al presente. “La vita eterna, dice l’enciclica, sarà un immergerci nell’oceano dell’infinito amore nel quale il tempo – il prima e il dopo – non esiste più. Non sarà un continuo susseguirsi di giorni del calendario, ma il momento colmo di appagamento, in cui la totalità ci abbraccia e noi abbracciamo la totalità”.

Con queste parole il Papa allude forse, tacitamente, all’opera di un suo famoso conterraneo. L’ideale del Faust di Goethe è infatti proprio quello di raggiungere una tale pienezza di vita e un tale appagamento da fargli esclamare: “Férmati, istante: sei troppo bello!”. Credo che questa sia l’idea meno inadeguata che possiamo farci della vita eterna: un istante che vorremmo non finisse mai e che -a differenza di tutti gli istanti di felicità di quaggiù – non finirà mai! Mi tornano in mente le parole di uno dei canti più amati dai cristiani di lingua inglese: “Amazing grace”. Dice: “E quando saremo stati lì diecimila anni – splendenti più del sole -, il tempo che ci resta per lodare Dio – non sarà diminuito di un minuto – rispetto a quando il tutto cominciò” (When we’ve been there ten thousand years, / Bright shining as the sun, / We’ve no less days to sing God’s praise / Than when we’ve first begun.)

Fonte: il sito di p. Raniero


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