Commento al Vangelo di domenica 11 Febbraio 2018 – ElleDiCi

IL LEBBROSO E I LEBBROSI

Domenica scorsa la parola di Dio ci ha invitati a riflettere, nella luce della fede, sulla malattia e sui malati. Il tema ritorna oggi, in riferimento a una malattia diffusa ai tempi di Gesù (e ancora oggi in molti paesi), la lebbra, e a un lebbroso che il Signore guarisce.

“Se vuoi… lo voglio”

Come la gente guardasse al lebbroso si può vedere dalla 1ª lettura. Naturalmente, l’ordine dato dal Signore a Mosè e ad Aronne non va visto con l’occhio del medico di oggi. Il timore della lebbra, malattia ritenuta allora non solo contagiosa ma inguaribile, induceva a isolare il lebbroso con misure che suonano disumane, obbligandolo a portare “vesti strappate e il capo scoperto”, ad abitare “fuori dell’accampamento”, a gridare, quando s’avvicinava gente, “Immondo! Immondo!”. Possiamo dunque immaginare in quale stato d’animo il nostro lebbroso “venne a Gesù”. Ma non c’è, nei suoi gesti e nelle sue parole, espressione di rivolta né di scoraggiamento per il rifiuto. Piuttosto lo vediamo animato da un sentimento di umiltà e di fiducia: “Lo supplicava in ginocchio e gli diceva: “Se vuoi, puoi guarirmi””.

È con questo animo che siamo invitati ad avvicinarci a Gesù, consapevoli d’essere anche noi affetti da quella lebbra dello spirito che è il peccato, chiedendo a lui che, “mosso a compassione”, voglia guarirci, cioè darci il perdono e la grazia della sincera conversione.

I lebbrosi

“Mosso a compassione”. Se queste parole c’ispirano fiducia nel ricorrere al Medico divino per ottenere la guarigione, debbono nello stesso tempo suonare come ammonimento ad avere compassione dei tanti che anche oggi sono affetti da questo male e hanno estremo bisogno di aiuto. Rara nei nostri paesi, la lebbra è una piaga che affligge dolorosamente i paesi poveri, in proporzioni che non possono non destare allarme, provocare il rimorso e impegnare all’azione chiunque non intenda chiudersi nel guscio del proprio egoismo.

osi che ho potuto avvicinare nel Kenya e nel Brasile mi richiamavano le moltitudini di malati che affollano i lebbrosari di altri paesi: 20 milioni secondo recenti informazioni giornalistiche. Molti preferiscono ignorare questa, come tante altre piaghe sociali. Il cappellano di un lebbrosario del Brasile, un religioso olandese di 75 anni che condivide da decenni la vita dei suoi “parrocchiani”, denunciava con dolore l’indifferenza di molti parenti che li hanno completamente abbandonati.

D’altra parte non sono pochi – è confortante costatarlo – coloro che come Gesù sentono compassione dei lebbrosi e traducono questo sentimento in un’azione pronta, generosa, spesso eroica per aiutarli a guarire e per alleviare le loro sofferenze fisiche e spirituali. Sacerdoti, religiose, laici hanno chiesto come un privilegio di poterli servire con dedizione di fratelli. Moltissimi altri, in tutti i paesi, si fanno un dovere di provvedere i mezzi economici necessari per l’assistenza e la cura dei lebbrosi.

Con queste offerte è possibile dare un aiuto a diversi lebbrosari di varie nazioni dell’Africa, dell’Asia e dell’America Latina. Soprattutto, queste somme sono una dimostrazione di amicizia, come ha ben capito chi scriveva da un lebbrosario: “Siamo felici di sapere che abbiamo degli amici. La vostra amicizia è il più bel dono che potete darci: anche noi vogliamo dividere con voi il pane dell’amicizia”. Ho fiducia che questa prova non sarà meno convincente anche in futuro.

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Ma sono solo questi i lebbrosi di cui ci dobbiamo preoccupare? Se il lebbroso è un impuro, perciò un escluso, che deve abitare “fuori dell’accampamento”, lontano dal consorzio degli uomini, sarà giusto vedere dei lebbrosi d’oggi in tanti fratelli che, in vari modi e per varie ragioni, sono isolati, dimenticati, emarginati, tenuti lontano da quelli che stanno bene e preferiscono non essere disturbati dalla vista della miseria e della sofferenza. Il dovere fondamentalmente umano di considerare e trattare ogni uomo come fratello s’impone con forza nuova al cristiano, impegnato ad amare il prossimo come se stesso, anzi come ci ha amato Gesù. Di qui l’ammonimento del Concilio: “Dovunque c’è chi manca di cibo e bevanda, di vestito, di casa, di medicine, di lavoro, di istruzione, dei mezzi necessari per condurre una vita veramente umana, chi è afflitto da tribolazioni e da malferma salute, chi soffre l’esilio o il carcere, ivi la carità cristiana deve cercarli e trovarli, consolarli con premurosa cura e sollevarli porgendo aiuto” (Apostolicam actuositatem, 8).

Ma l’impegno del cristiano non può fermarsi qui, ma deve mirare, soggiunge il Concilio, a eliminare “non solo gli effetti, ma anche le cause dei mali; l’aiuto sia regolato in modo tale che coloro i quali lo ricevono vengano, a poco a poco, liberati dalla dipendenza altrui e divengano autosufficienti”.

Per questo il cristiano deve tenere gli occhi aperti sulla realtà sociale, individuarne le carenze di comportamento e di strutture, lavorare e lottare con tutti gli uomini di buona volontà per renderla più umana.
Il campo di lavoro è immenso; lo spirito è quello di Gesù, che si muove a compassione di chi soffre; è quello di Paolo, che si sforza di piacere a tutti in tutto, senza cercare l’utile suo, “ma quello di molti, perché giungano alla salvezza”. Non solo alla guarigione del corpo, non solo alla liberazione dall’oppressione e dall’ingiustizia, ma alla salvezza totale, in questa vita e nell’altra. Per questo Gesù ha operato pregato sofferto, per questo è morto sulla croce.

Paolo conchiude con un’esortazione che racchiude tutto un programma di vita: “Fatevi miei imitatori, come io lo sono di Cristo”. S. Giovanni Crisostomo rileva opportunamente come l’apostolo prenda lo spunto dall’argomento particolare (se sia lecito mangiare le carni immolate agli idoli), d’importanza limitata, di cui sta trattando, per proporre una norma di condotta universale e bellissima: dare in tutto gloria a Dio. E commenta: “Questa è la regola del cristiano veramente perfetto, è la sua precisa definizione, è la vetta più alta a cui dobbiamo tendere… E ciò che più di tutto ci fa diventare imitatori di Cristo è prenderci cura del prossimo”.

“Tutto per la gloria di Dio”

Perché, ci ricorda il nostro s. Massimo, “colui che vuol essere fedele cristiano sempre, deve rendere lode al Padre e Signore suo e tutto fare per la sua gloria”; e citando le parole di Paolo che abbiamo ascoltato, esorta a compiere “tutte le nostre azioni in compagnia e alla presenza di Cristo”, e soprattutto a pregare assiduamente al mattino e alla sera. Perché pregare è certamente chiedere qualcosa al Signore, come ha fatto il lebbroso; ma è anche, lo ricorda pure s. Massimo, rendere grazie a lui, è riconoscerlo potente e buono, è dimostrargli amore filiale.

 Fonte

Tratto da “Omelie per un anno 1 e 2 – Anno A” – a cura di M. Gobbin – LDC

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LEGGI IL BRANO DEL VANGELO
della VI Domenica del Tempo Ordinario – Anno B

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Mc 1, 40-45
Dal Vangelo secondo Marco
40Venne da lui un lebbroso, che lo supplicava in ginocchio e gli diceva: «Se vuoi, puoi purificarmi!». 41Ne ebbe compassione, tese la mano, lo toccò e gli disse: «Lo voglio, sii purificato!». 42E subito la lebbra scomparve da lui ed egli fu purificato. 43E, ammonendolo severamente, lo cacciò via subito 44e gli disse: «Guarda di non dire niente a nessuno; va’, invece, a mostrarti al sacerdote e offri per la tua purificazione quello che Mosé ha prescritto, come testimonianza per loro». 45Ma quello si allontanò e si mise a proclamare e a divulgare il fatto, tanto che Gesù non poteva più entrare pubblicamente in una città, ma rimaneva fuori, in luoghi deserti; e venivano a lui da ogni parte.

C: Parola del Signore.
A: Lode a Te o Cristo.

  • 11- 17 Febbraio 2018 2018
  • Tempo Ordinario VI
  • Colore Verde
  • Lezionario: Ciclo B
  • Anno: II
  • Salterio: sett. 2

Fonte: LaSacraBibbia.net

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