Commento al Vangelo di domenica 8 Marzo 2020 – Comunità di Pulsano

La quaresima è il tempo nel quale la chiesa prepara i catecumeni al battesimo e aiuta i battezzati ad approfondire il senso del sacramento che li ha innestati nel mistero della morte e risurrezione di Cristo.

Chi accoglie la fede deve rendersi conto che essere credente non significa solo conoscere alcune nozioni su Dio e su Gesù Cristo, ma significa aderire alla persona di Gesù vivendo la sua stessa esperienza. Egli, infatti, vive in noi e ci associa al mistero della sua morte e risurrezione, perché anche noi passiamo da questo mondo al Padre nella gioia della pasqua eterna, dopo essere passati attraverso l’esperienza della passione e della morte nella vita presente.

La quaresima è un momento forte di questa vita con Cristo. Per questo, domenica scorsa, la chiesa ci ha condotti nel deserto a condividere la tentazione e la lotta di Cristo; oggi ci conduce al monte della trasfigurazione. Gesù passa attraverso la sofferenza e la morte, ma per essere glorificato.

Come per gli apostoli, così anche per noi, è difficile capire questa croce che dà la salvezza. Occorre tutta una paziente e lunga educazione. Per questo il Signore non solo si limita a dare l’annuncio della sua gloriosa passione, ma introduce gli apostoli e anche noi, mediante la celebrazione liturgica, nella esperienza viva del contatto con il mistero della sua persona.

La trasfigurazione è una esperienza pasquale anticipata per aiutare i discepoli ad accettare con una visione di fede lo scandalo della croce. Attraverso questo evento, Gesù «indicò agli apostoli che solo attraverso la passione, possiamo giungere a lui, al trionfo della risurrezione» (cfr Prefazio).

L’eucaristia è il momento nel quale la nostra assemblea rende grazie al Padre per averci introdotto nell’intelligenza vitale del mistero della trasfigurazione di Cristo, e nello stesso tempo è il momento nel quale questo mistero opera in noi una profonda trasformazione, ravvivando la grazia del battesimo. Il contatto con il corpo glorificato del Signore nell’eucaristia alla quale partecipiamo, infatti, è il pegno che anche il nostro corpo di miseria sarà trasfigurato e reso conforme al suo corpo di gloria (cf. Fil 3,20-21).

Oggi si compie, dunque, un’altra tappa del nostro cammino quaresimale verso la pasqua. È un cammino di purificazione e di ascesi. Non si giunge alla gloria del mattino pasquale senza condividere la passione del Signore morendo all’egoismo, fonte dei nostri peccati.

L’ascetica cristiana, però, non è un conquistare la gloria del Cristo con le nostre opere, ma un vivere la potenza della Risurrezione del Signore operante in noi mediante il suo Spirito.

Così il cristiano è uno che continuamente muore a se stesso, ma per vivere per colui che è morto ed è risorto per lui. La sua vita si esprime pertanto in continui gesti di donazione nell’esercizio dell’amore fraterno. È questa la vita trasfigurata dalla luce del Cristo.

Dall’eucologia:

Antifona d’Ingresso Sal 26, 8-9 (SFI)

Di te dice il mio cuore: «Cercate il suo volto».
Il tuo volto io cerco, o Signore.
Non nascondermi il tuo volto.

Dal suo cuore, il centro della sua anima, il salmista fedele innalza la sua preghiera. Essa tende a «cercare il Volto» del Signore. Il volto è il principale simbolo della persona, la sua presenza concreta. L’occhio vuole sempre vedere il volto, come l’orecchio vuole sempre ascoltare la voce. Questo è del Signore stesso che si rivolge alla sua Sposa: «Mostra a Me il volto tuo, fa’ che io ascolti la voce tua!» (Ct 2,14, ma anche 8,13). L’Orante vuole sempre godere della visione trasformante del Volto Presenza, Volto d’amore e di bontà (v. 8a). Per lui è un richiamo costante (Sal 23,6; 104,4), l’impegno della sua vita, che viene dalla promessa del Signore di farsi trovare se sarà cercato (Dt 4,29). L’Orante è teso al conseguimento di questa promessa (v. 8b). Né egli si dimentica che il Volto divino indica anche l’aspetto nuziale: la Sposa desidera con ogni sua forza di vedere il Volto dello Sposo, preludio dell’unione nuziale consumante. Perciò l’Orante innalza la sua epiclesi ansiosa, in forma negativa, affinché mai il Signore cessi di mostrare il Volto suo (v. 9a). Infatti se il Signore distoglie la sua Presenza e la sua cura benevola, la povera realtà umana resta immersa nella tristezza del peccato (Sal 50,13), dell’abbandono di morte (Sal 21,2; 68,18; 101,3; 142,7; Ger 7,15). L’Orante invece desidera solo vivere alla luce di questo Volto.

Canto all’Evangelo Cf Mc 9,7

Lode e onore a te, Signore Gesù!
Dalla nube luminosa, si udì la voce del Padre:
«Questi è il mio Figlio diletto: ascoltatelo».
Lode e onore a te, Signore Gesù.

È la Voce del Padre nella Trasfigurazione. Il testo orienta la lettura che segue, e va riletto nel contesto. L’imperativo del Padre ai fedeli è che diano ascolto totale al Figlio.

Ritroviamo adattato anche nell’antif. di comunione «Questo è il mio Figlio prediletto nel quale mi sono compiaciuto. Ascoltatelo» è la rivelazione permanente che lo Spirito del Padre dona anche «oggi qui» per l’eccesso sovrabbondante della divina Bontà. E la confermazione perenne per i fedeli, come lo fu per il Signore, come lo fu per la fede di Pietro e dei discepoli di allora. E «oggi qui» i fedeli ascoltano il Signore in questa divina Parola, in questa divina Mensa dei Misteri, in questa divina Sposa che è la Chiesa Madre unica. E ascoltando obbediscono e seguono il Signore Risorto dovunque vada, a partire dalla triplice comunione alla sua Parola, alla sua Mensa, alla sua Sposa, donata dallo Spirito Santo. Solo così sono «figli del Padre», i «diletti del Padre», l’oggetto del Compiacimento del Padre. E i catecumeni presenti ascoltano le realtà inimmaginabili che essi stessi si apprestano a ricevere e a vivere, anzi, a essere.

La santa Trasfigurazione che questa II Dom. di quaresima viene contemplata riveste di fatto un’importanza eccezionale nella vita e nella spiritualità della Chiesa, come di fatto lo riflette la stessa Liturgia. L’Evento della Montagna santa nel complesso unitario e nei particolari contiene infinite risonanze non sempre da noi colte tutte, né a sufficienza. È quasi ovvio il tema della Luce-Gloria e perciò della Divinità che rifulge dall’Umanità del Signore, dell’eternità che irrompe nel tempo creato. Della Teofania trinitaria, l’aspetto più propriamente dossologico è condensato nel grande tema del Fuoco, attinente e identico alla Luce, che viene a distruggere finalmente i peccati degli uomini.

Nel contesto della quaresima, le letture di questa Dom. hanno lo scopo di incoraggiare il nostro impegno di vita cristiana, in vista del rinnovo delle promesse battesimali, nella notte santa.

Gesù battezzato per la missione salvatrice, superata la tentazione (I Dom.) che intendeva attraversargli la strada, è trasfigurato ed è confermato dalla nube luminosa dello spirito e dalla voce del Padre in vista del sacrificio pasquale di morte e risurrezione.

La Trasfigurazione è un evento importante; trattato a fondo dai Padri, le Chiese orientali ne fanno il cardine capitale della loro spiritualità, ricavandone tesori di dottrina, alla luce della Croce e della Resurrezione, e rileggendovi l’A. T.

Nell’ora dell’Ascolto monastica la lettura patristica dell’anno A, tratta dai «Discorsi[1]» di S. Leone Magno, Papa, ci segnala tre aspetti fondamentali da rilevare nel commento dell’episodio:

  1. rimuovere dall’animo dei discepoli lo scandalo della croce.
  2. dare un fondamento solido alla speranza della Chiesa.
  3. la conferma della fede di tutti nella redenzione di Cristo.

La Trasfigurazione è una esperienza pasquale anticipata per aiutare i discepoli ad accettare con una visione di fede lo scandalo della croce.

Attraverso questo evento, Gesù «indicò agli apostoli che solo attraverso la passione, possiamo giungere a lui, al trionfo della risurrezione» (cfr. Prefazio[2]) ed «entrare nella gloria del suo regno» (cfr. Nuova Colletta[3]).

Nei Sinottici la Trasfigurazione ha un’inquadratura mirata, che ne fa come il centro fisico della narrazione evangelica, una vera “cerniera” decisiva che permette di contemplare l’intera composizione: quanto precede e quanto segue. Ancora i Sinottici mostrano qui l’identica organizzazione narrativa, che rivela non una struttura artificiosa, ma uno schema obbligante, che proviene come è dall’unica Tradizione sui “detti e fatti” del Signore, all’epoca da tutti conosciuta e controllabile nella sua veridicità.

Nel racconto dei Sinottici nella prima parte della sua Vita pubblica il Signore opera una catechesi appropriata che è una progressiva preparazione ad un Evento annunciato, grave e decisivo, ma ancora da verificarsi. Tale catechesi è riassumibile in tre momenti successivi:

  1. il Battezzato e la sua prima missione (Mt 4,12-16,2): il Signore secondo il Dono dello Spirito Santo battesimale opera le Parole del Padre che lo testimoniano al Giordano. Ossia nello Spirito Santo svolge la “Liturgia trinitaria” (= l’opera per il popolo) che consiste nell’Evangelo, nelle opere del Regno e nel culto nuovo al Padre. È significativo che il Battesimo in rapporto alla Trasfigurazione sia richiamato proprio dalla Voce del Padre che ripete sostanzialmente le parole del Giordano aggiungendovi però un imperativo che è obbedienza massima [che è poi la Croce, presa ogni giorno (Lc 9,32)].
  2. il Trasfigurato e la “cerniera” (Mt 16,13-17,23): pur nella “crisi” del ministero messianico di Colui che fu inviato per essere l’Alleanza del popolo suo e la Luce delle nazioni (cf. Mt 16,13ss “La gente chi dice che sia il Figlio dell’uomo?” e anche Pietro dopo il 1° annuncio di passione “Dio te ne scampi, Signore; questo non ti accadrà mai”) il Disegno divino non può arrestarsi. Per proseguire verso il Fine assegnato, la Croce e la Resurrezione e la Pentecoste ha tuttavia necessità degli uomini, poiché ad essi solo può affidare a suo tempo la sua missione che deve giungere al mondo. La Trasfigurazione si pone dunque come Luce che vuole dissipare quelle tenebre che impediscono agli stessi discepoli di comprendere la Resurrezione.
  3. il Crocifìsso, culmine della catechesi. Agli occhi del mondo la crocifissione è lo spettacolo dell’estrema umiliazione” e la tragica conseguenza di una follia ma invece è il punto culminante della catechesi del Signore ai discepoli scossi, terrorizzati, demoralizzati, fuggiaschi. Lo “svuotarsi della Divinità” (Fil 2,6-8) la Follia divina come irrimediabile Debolezza divina (1 Cor 1,17-2,16) è la Rivelazione plenaria dell’eccessiva Carità” del Padre verso tutti gli uomini immeritevoli, da Adamo all’ultimo di essi. In misura maggiore con l’Evangelo di Giovanni la Croce è il luogo e il momento dello Spirito Santo, del Sangue e dell’Acqua come Economia pentecostale nuova. La catechesi del Signore Battezzato Trasfigurato Crocifisso è completata: è l’Icona santa, anche se deve essere contemplata e comunque da amministrare (Lc 24,39-40; Gv 20,20 e 27; Ap 5,6).

La parola e l’Icona a cui dobbiamo ascolto, venerazione, contemplazione ci marchiano e modellano sempre più via via che ci apriamo e ci esponiamo al loro volto matricizzante. L’icona creata dal Cristo è infatti una matrice destinata ad essere utilizzata a sua volta come un conio monetario o un sigillo. L’Icona non è infatti una porta o una finestra, i santi Padri non hanno mai utilizzato questa metafora, ma una matrice spirituale: quando ci esponiamo alla luce dell’icona, avvicinando il nostro volto al ritratto per eccellenza, questa esposizione e questa venerazione ci matricizzano spiritualmente, cioè restituiscono alla nostra immagine ottenebrata dalla caduta la somiglianza originale, secondo cui siamo stati creati.

Dopo che i discepoli hanno sperimentato l’Evento non annullabile della vita del Signore, fino alla Croce, prima, e alla Resurrezione dopo ad essi lo stesso Risorto impartisce la sua santa Mistagogia, che è insistere e rimandare di continuo e far approfondire l’Evento che diventa così esistenza vissuta. Tale Mistagogia che è rivolta ai mystai, gli iniziati o “illuminati” o battezzati si distingue radicalmente dalla “catechesi” per i “catecumeni” da battezzare. La Chiesa, opportunamente, ha sempre operato questa distinzione, che non si riferisce solo alla terminologia o alle tecniche. La radicalità tra i due insegnamenti è proprio nel fatto concreto che tra essi si interpone: l’Evento storico e l’esperienza storica della Morte-Resurrezione-Ascensione-Pentecoste del Signore. L’iniziazione battesimale incide, per sempre, su chi la riceve, poiché lo muta; Paolo esprime questo con la nota formula: «Prima eravate tenebre… adesso siete luce» (cf. Ef 2,13).

La Mistagogia consiste nel far comprendere che come avevano preannunciato le Sante Scritture dell’A. T., la Sofferenza era divinamente intesa come necessaria per conseguire la Gloria; è l’Evento realizzato perché preannunciato dalle Sante Scritture. La via verso Emmaus è l’inizio della Mistagogia (Lc 24,26-27); è cuore ardente (24,32) per le Scritture; porta il Pane spezzato con la Benedizione (24,30); è apertura degli occhi (24,31) e prosegue con i discepoli nel cenacolo (24,36-49).

Anche se questo percorso sembrerà allontanare dalla celebrazione odierna, al contrario occorre tenerlo ben vivo perché ci aiuterà non solo al presente ma per tutto il cammino che Dio vorrà concederci. Non solo l’Evangelo di oggi può essere affrontato con più meditata contemplazione ma tutta la nostra vita di fede può trarre più ricchezza e più devozione adorante.

Per completezza richiamiamo in sintesi le accentuazioni specifiche dei tre racconti sinottici.

Matteo, il cui evangelo è composto da cinque grandi discorsi come cinque sono i libri della Torah, i sacri libri della Bibbia che rappresentano il cuore del giudaismo, vede nel Tabor il nuovo monte Sinai e in Gesù il nuovo Mose che dà la Legge, cioè il Discorso della Montagna.

Marco, diversamente, legge nella Trasfigurazione semplicemente una epifania gloriosa del Messia nascosto, per mettere in luce il tema centrale della sua narrazione che è il paradosso di Gesù inviato di Dio e umiliato, incompreso, respinto dagli uomini.

Luca invece coglie nell’evento del Tabor primariamente un’esperienza della preghiera di Gesù, preghiera profonda, ardente, trasformante.

Aggiungiamo anche una quarta testimonianza, quella della 2 Pt 1,12-21, che vede nell’episodio un momento storico della glorificazione di Cristo in opposizione alle speculazioni gnostiche che prevedevano chissà quali apparizioni future. Il tema sottolineato non è la Trasfigurazione, bensì la voce risuonata sul monte santo e nella Scrittura il monte santo è il Sinai, oppure Sion, Gerusalemme.

Nel confronto sinottico notiamo ancora come la narrazione di Matteo in 17,2 abbia aggiunto “uno splendore come quello del sole” sul volto di Gesù dove Marco parla dello splendore delle vesti, ma ha omesso l’allusione di Marco al lavandaio. In 17,4 ha omesso il riferimento di Marco all’ignoranza di Pietro e alla paura dei discepoli; ma in 17,6-7 egli ha aggiunto un concetto più profondo di paura e di adorazione e ci presenta Gesù che invita personalmente i discepoli ad alzarsi. L’effetto di queste modificazioni è di accentuare la maestosità e la dimensione misteriosa dell’esperienza e di eliminare qualsiasi dubbio che i discepoli non abbiano compreso ciò che stava succedendo. La trasfigurazione sta dunque in uno schema preciso, con le sue anticipazioni e le sue riprese, come si può vedere ponendo a confronto Marco e Matteo. In estrema sintesi il primo ed il secondo annuncio della Passione e Resurrezione è il contesto, la cornice dove posizionare l’evento della Trasfigurazione. Allargando il cerchio abbiamo immediatamente il racconto della confessione di Pietro di Gesù come «il Cristo, il Figlio del Dio vivente» (16,13-20); dopo il 1° annunzio di passione la tentazione dello stesso Pietro: «Dio te ne scampi, Signore; questo non ti accadrà mai» (16,21-23); la dura risposta di Gesù: «Dietro a Me, Satana! Perché mi sei d’inciampo…»; ecco quindi l’invito a seguire solo Lui rivolto non solo a Pietro ma a tutti i «suoi discepoli» con le dure condizioni: rinnegare se stessi e prendere la propria croce.

Da questo momento gli eventi precipitano verso la passione; sembra addirittura che nella Chiesa antica si fosse pensato che l’evento del Tabor precedesse di quaranta giorni la passione. Non a caso la festa liturgica della Trasfigurazione si celebra il 6 agosto fin dal sec. VII del calendario bizantino e questa data è stata sempre mantenuta da tutta la Chiesa. Anzi, è una delle poche feste che cadono nello stesso tempo sia per l’Oriente che per l’Occidente. Notiamo che ci sono quaranta giorni dal 6 agosto al 14 settembre, data della Esaltazione della Croce, quasi a significare che la Trasfigurazione prepara la proclamazione di Gesù crocifisso.

I lettura: Gen 12,l-4a

Il battesimo è il punto di partenza, il segno più evidente dell’amore di Dio per noi; mentre la trasfigurazione è la piena realizzazione di questa chiamata, il punto d’arrivo del difficile cammino nella fede, già percorso da Abramo, da Gesù, dagli apostoli, e che ora viene proposto a ciascuno di noi.

La prima lettura ci mostra l’esempio di Abramo, obbediente alla parola del Signore, che l’invita a lasciare tutto. E Abramo si fida di Dio, crede alle sue promesse, anche se non vede chiaramente dove lo porteranno quelle decisioni che è indotto a prendere.

È evidente che la scelta liturgica di questo brano vuol mettere in rilievo il senso della vocazione di Gesù e di ogni battezzato, con le conseguenze che derivano dalla risposta obbediente della fede.

È un invito a riflettere alle reazioni interiori di Abramo, di fronte a quella vocazione. Essa è origine e modello di tutte le chiamate: «In te, saranno benedette tutte le genti». Abramo è il modello di ogni vita di fede.

La tentazione a cui Adamo soggiace provoca negli uomini suoi discendenti catastrofi a catena, da Caino e Lamek, dalla perdita dello Spirito del Signore al diluvio, fino alla torre di Babele (Gen 4,1-15; 4,19-24; 6,1-3; 6,4-7; 6,8-9.17; 11,1-9). Di fronte a tanta rovina, il Disegno di Dio, che sembra impedito, in realtà opera sapientemente, e “riassume” la realtà, per condurla al fine predecretato, in forza della legge biblica della «selezione regressiva», o concentrazione su un “resto”. Tra tutti, è scelti uno. Dopo Caino, il Signore sceglie Set. Poi Noè. Poi Abramo. Questo “uno”, lo scelto, sarà lo strumento intelligente della salvezza per gli altri. È la teologia del «resto santo».

Con il suo resto scelto infatti il Signore opera la «riassunzione universale» degli uomini, raggiunti tutti dalla grazia divina concentrata sul resto, affinché sia donata a tutti quelli che tale resto vorranno accettare. Solo così si comprende la concentrazione finale sul Figlio di Dio, dichiarata nelle Genealogie (Domenica IV d’Avvento). Lo Spirito Vivificante all’ultimo dei tempi è portato infatti agli uomini solo dal Figlio Risorto.

La lunga Preparazione assume un’importanza nodale con Abramo. In Gen 10 con la «tavola dei popoli» (vv. 1-5) è elencata come una meraviglia, poiché il Signore crea tante stirpi e culture e storie e volti, tutti all’unica «immagine e somiglianza» sua. Ma ai vv. 6-20 comincia una prima approssimazione concentrazionale, con la genealogia di Cam; la quale è seguita da quella più vicina ad Abramo, la genealogia di Sem (vv. 21-31), dove l’universalità è dichiarata al v. 32: tutti discendono da Noè, come tutti discendevano da Adamo, e tutti debbono discendere da Abramo. Non solo, la torre di Babele (11,1-9) con la sua catastrofe universale, la dispersione «delle lingue» per il peccato di superbia autoidololatra, porta solo una frattura. Ai vv. 10-26 torna più da vicino la genealogia di Sem, la quale finalmente ai vv. 27-32 si concentra in quella di Terah (Tare), il padre d’Abramo.

È il momento divino. Il Signore chiama Abramo, con un imperativo duro e irreversibile: «Va’ via dalla terra tua» (v. 1). E ribadisce: «e dalla parentela tua», di più: «e dalla casa del padre tuo». È lo strappo dalla patria e dalla cultura, dal gruppo parentale largo, che come una madre è la protezione per ogni uomo, dalla famiglia più stretta, padre e fratelli, con cui si vive il medesimo destino e la medesima speranza. Una lacerazione che traversa l’esistenza. Tanto più che la chiamata è completata da una meta singolare perché ignota: «verso la terra che Io ti farò vedere». Questo urta l’anima e porta al ripiegamento su se stesso. Ma chi era Abramo? Un idololatra: «Così parla il Signore: I padri vostri, Tare padre di Abramo e di Nahor, abitavano al principio oltre il Fiume, e servivano gli dèi stranieri» (Gios 24,2). La dichiarazione di Giosuè a Sichem, prima della separazione delle tribù per occupare la terra assegnata, è brutale. Tuttavia essa è temperata dal seguito: «Tuttavia, Io presi Abramo padre vostro di là dal Fiume, e lo guidai per tutta la terra di Canaan, e moltiplicai la sua discendenza, e gli donai Isacco» (Gios 24,3).

Significa che il Signore opera la sua Bontà. Per formarsi il resto, intorno a esso deve schiantare tutto, come farà per il Re messianico (Is 11,1; Dom. II d’Avvento). Una chirurgia dolorosa, ma a lungo andare benefica. Il Padre è il divino Contadino, che sa usare divinamente l’arte della potatura, affinché i rami residui producano molto frutto (Gv 15,1-2).

La potatura dolorosa chiede ancora di più: la fede cieca, immediata e incerta. Il Signore non comunica ad Abramo se non le linee del suo Disegno: una terra che dopo, quando sarà il tempo, gli mostrerà. Così la fede chiede l’abbandono del vecchio, e l’abbandono nel Signore.

La dote con cui il Signore accompagna il suo Abramo è tuttavia di inaudita abbondanza, contrassegnata da 4 linee confluenti:

  • la terra; il «luogo» normale dove il futuro popolo d’Abramo vive con il Signore;
  • Abramo stesso, reso «benedizione» dalla divina benedizione. E qui risalta il significato di questo atto supremo: «la benedizione torna sempre sul benedicente e unisce a lui il benedetto». Vedi la prima realizzazione, la benedizione di Melchisedec (Gen 14,18-20); poi il seguito, con Isacco e la prosperità (Gen 24,1.35; 27,9; quindi Num 24,9; Dt 26,5; 1 Re 3,8). È la prosecuzione in crescendo della benedizione originante della creazione (Gen 1,28 e 2,3). In forza di essa, il nome d’Abramo sarà magnificato tra gli uomini, e davanti al Signore;
  • la discendenza, «un popolo grande», che deriverà da Abramo (v. 2);
  • la «benedizione di fraternità»: in Abramo si benediranno si riconosceranno benedette dal Signore tutte le stirpi della terra. E l’aspetto universale, che il Signore ricostituisce nell’uomo che ha prescelto. E questo avverrà così, che le stirpi si benediranno per riconoscersi sotto la discendenza d’Abramo, e allora saranno benedette dal Signore. Le benedizioni, atti di comunione, si incrociano indissolubilmente. Ma il Signore pone come centro e mediatore universale solo Abramo. Per questo dà una sanzione severa: quanti non benediranno Abramo, lo malediranno, ossia si separeranno da lui, e il Signore li maledirà, ossia li rigetterà, si separerà da loro (v. 3; Es 23,22).

Già in Gen 18,18; 22,18 comincia la ratifica di questa benedizione universale. L’elogio sarà cantato in Sir 44,21. Il N. T. richiamerà con insistenza Abramo e la sua storia che termina in crescendo nella sua Discendenza, Gesù Cristo (Gal 3,8.16.18). In Rom 4 tutto il capitolo, centrato inizialmente su Abramo, termina poi con la benedizione abramitica realizzata, Cristo Risorto, il Figlio della Promessa (Gal 3,6), già presente in Abramo nell’episodio delle decime di Melkisedeq (Gen 14,20b, citato in Eb 7,1-10), è perciò il Sommo Sacerdote perfetto e unico (Eb 7,11-28), che dalla maledizione del Legno della Croce ottiene la Benedizione e la Promessa di Abramo, che sono lo Spirito Santo (Gal 3,13-14).

Infatti, questa Promessa immutabile e fedele è destinata attraverso l’Israele di Dio anche a tutti gli uomini. È gratuitamente «donata ai credenti per la fede di Gesù Cristo» (Gal 3,22). Poiché «quanti provengono dalla fede sono benedetti con Abramo che ebbe fede» (Gal 3,9), così che «se voi siete di Cristo, allora siete discendenza d’Abramo, perciò voi siete eredi secondo la Promessa» (Gal 3,29). A opera esclusiva dello «Spirito del Figlio» di Dio effuso nei cuori (Rom 5,5), «il quale grida Abbà’.Padre!» (Gal 4,6; Rom 8,15). Insomma, «fratelli, voi siete figli della Promessa, come Isacco» (Gal 4,28).

Immensa teologia della storia, che investe tutti i fedeli, e sta per investire anche i catecumeni, chiamati «di là dal Fiume», dalle loro patrie e lingue e culture e parentele, a formare l’unica Famiglia di Dio.

Questo è possibile solo per un gesto decisivo di Abramo, narrato con la totale semplicità biblica: «Allora, andò Abramo» (v. 4a). È l’accettazione non contrattata, ma incondizionata. Totale e silenziosa. Umile e fidente. L’epistola agli Ebrei ne farà l’elogio, quando parlerà così: «Per la fede, chiamato, Abramo obbedì per uscire verso il luogo che stava per ricevere in eredità, e uscì non sapendo dove va. Per la fede abitò nella terra della promessa come straniera, in tende avendo abitato, insieme con Isacco e Giacobbe, i coeredi della promessa medesima» (Ebr 11,8-9). La spiegazione splendida segue subito: «Si aspettava infatti la Città avente le fondamenta, della quale Artefice e Creatore è Dio» (v. 9).

La fede senza luce d’Abramo, sarà poi provata e tentata con la richiesta del sacrificio dell’unico figlio, Isacco, «il diletto» suo. La Notte della Resurrezione questa sarà una Lettura risonante.

Il Salmo responsoriale 32,4-5.18-19.20 e 22, I

Il Versetto responsorio: «Donaci, Signore, la tua grazia: in te speriamo» (v. 22) è un’epiclesi che funge da splendido ritornello.

I vv. 6 e 9 cantano il Signore che opera con la Parola e con lo Spirito, e perciò su questo Salmo i Padri hanno esercitato profonde riflessioni. L’esordio, vv. 1-3, è un seguito di «imperativi innici» a esultare, lodare, celebrare, inneggiare, cantare al Signore il «cantico nuovo», quello di vittoria e d’esultanza d’Israele al Mar Rosso (Es 15,1-18), antico e sempre nuovo, ossia ultimo. Di questo il v. 4 dà la motivazione, che prosegue per tutto il corpo del Salmo.

L’Orante celebra il Signore perché la Parola sua è retta, giusta. Essa proclama solo la Bontà divina, l’intervento soccorritore provocato dalla Fedeltà divina che non deflette (v. 4a). La Fedeltà divina indicibile produce opere perfette (v. 4b; Dt 32,4; Dn 4,34; Ap 15,3)- Infatti, per il bene degli uomini che ama, il Signore può essere fedele solo a se stesso, alla Parola della promessa che esce dal Cuore suo, Parola creante e operante, Parola trasformante. Egli non può essere affatto «fedele all’uomo», con tutti i suoi peccati e apostasie e ripensamenti e capricci e viltà. Solo i simili sono fedeli ai simili.

I motivi per glorificare il Signore proseguono al v. 5a. Il Salmista grato acclama al Signore che ama solo «giustizia e giudizio», due termini sempre connessi che indicano la sua carità e l’intervento per ristabilirla in specie a favore dei poveri e degli oppressi a causa del Nome suo. Questo è un tratto biblico, che parte dal desiderio originale del Signore, che Abramo abbia un popolo riconosciuto tra le nazioni perché è l’unico che segue le Vie del Signore, ossia pratica «giustizia e giudizio» (Gen 18,19). Tema poi costante (Sal 10,8; 36,28; 44, 8; 98,4; 145,9; e Mt 23,23), che sarà trasmesso con lo Spirito del Signore al Re messianico (Is 61,1; vedi la Messa crismale). Ma del Signore la misura di questo agire non può essere data, bensì solo dichiarata, poiché l’immensa la Misericordia divina, che è la «morale dell’alleanza» rigorosamente attuata dal Signore, riempie la terra (Sal 103,24; 118,64), e consiste d’altra parte nella sua Gloria (Is 6,3). Anche questa trasmetterà al Re messianico (Is 11,9; vedi Domenica II d’Avvento). E la Misericordia perenne, l’istanza ultima e prima di ogni salvezza (Ab 3,3). È motivo grande della lode al Signore (v. 5b).

Chi «teme il Signore», ossia vuole con tutto il cuore adempiere alla sua Volontà rivelata, adesso sa dall’Orante che ha il privilegio unico, meraviglioso, della perenne Presenza del Signore con lui. La metafora è bellissima, gli Occhi del Padre buono sono fissati con amore struggente sui piccoli figli bisognosi di tutto. Quel Volto divino si volge sempre e solo verso i figli (v. 18a), si preoccupa di essi, pronto a intervenire per esaudirli (Sal 33,16; 10,5; 140,8). Lo sa bene chi soffre (Giob 36,7). Lo ripete il sapiente ai giovani (Sir 15,20; 34,19; Sap 3,1). Lo canta tutta Sion, a questo invitata dall’Orante (Sal 146,11). E lo conferma la fede apostolica (1 Pt 3,12). Così chi spera solo nella divina Misericordia, si trova confermato (v. 18b).

II primo effetto di questi Occhi divini è l’intervento misericordioso. E anzitutto questo produce lo scampo dalla morte che sta sempre in agguato (v. 19a), poi si configura come il Convito divino, con il Cibo che salva dalla fame e porta alla vita (v. 19b; 38,10-11; 36,19.25; 110,5; Gb 5,20; Lc 1,53, il Magnificat).

La risposta del Salmista a nome della comunità orante si fa proclamazione dell’adesione volenterosa, di fede, al Signore (v. 20a), tante volte richiamata (Sal 24,3; 61,2; 105,13; 129,4), e ribadita con forza e con gioia dai Profeti (Is 8,17). E non può essere altrimenti, poiché solo nel Signore si trova l’Aiuto e il Protettore (v. 20b; 113,9-11), non esistendo negli uomini nessuna speranza, neppure nei capi dei popoli (145,2d; 117,9). Per la loro natura, dagli uomini non può partire mai la salvezza (117,8; Is 2,22). Così che, smentendo l’ottimismo pelagiano che si fonda «sull’uomo», Geremia dirà la parola più forte dell’A.T.: «maledetto l’uomo che confida nel geber», l’eroe umano (Ger 17,5).

Il Salmo termina con un’epiclesi: a quanto sperano gli uomini, corrisponda sempre la divina Misericordia (v. 22). Così è completato lo schema stupendo di questo inno, che a rileggerlo si presenta così: la Misericordia divina dell’alleanza opera:

I) con la Parola (v. 4);

II) con la Parola e lo Spirito del Signore (v. 6);

III) con la Parola creatrice (v. 9);

IV) attuando il Disegno eterno (v. 11);

V) con l’assiduo sorvegliare gli eventi umani (v. 13);

VI) con la Mente divina fissa sugli uomini amati (v. 15);

VII) con gli Occhi provvidenti (v. 18).

In tutto questo suona l’unica nota, l’Amore divino fedele, perenne, efficace.

Esaminiamo il brano

1 – Sei giorni dopo: è incerto se questa indicazione cronologica (una rarità nell’evangelo di Matteo, se si eccettua il racconto della Passione) debba riferirsi alla confessione di Pietro a Cesarea, oppure alla prima predizione della Passione. Si pensa anche che questo intervallo di tempo sia un richiamo a Es 24,16, ma il parallelo non è stretto; i temi dell’episodio, invece, richiamano indubbiamente il racconto del Sinai.

Pietro, Giacomo e Giovanni: gli esegeti annotano che per l’evento sulla montagna il Signore prende con sé i tre discepoli consueti, Pietro, Giacomo e Giovanni [la guarigione della suocera di Pietro (Mc 1,29-31); sono presenti già quando guarisce la figlia di Giairo, Mc 5,37 e Lc 9,51; sono gli stessi testimoni della risurrezione di Lc 8,51 e ancora al Getsemani, almeno per Mt 26,37 e Mc 14,33 mentre per Luca là dormono come gli altri (Lc 22,39 ss)].

Tre discepoli accompagnano il Signore, come testimoni (e si tratta sempre di morte e Resurrezione), secondo la legge antica (cfr. Dt 17,6; 19,15), sicché l’evento è vero, storico, testimoniabile da persone ben conosciute nella comunità, e di grande prestigio, non solo per allora, ma anche fino a noi ed oltre.

li condusse in disparte su un monte: il Signore li «conduce in alto» (anaphéró), sul monte elevato, «in privato».

I Padri qui hanno visto con acutezza che questo è l’inizio della «vita con Cristo», la vita mistica, essere innalzati a vivere solo con lui. Il monte nella Bibbia è il luogo della presenza e dell’incontro con Dio (cf Gen 22,14): -è il luogo dove Mose incontra Dio (Es. 3,1 monte Oreb, il roveto ardente):

  • dove riceve le tavole della legge (Es. 24,12-18);
  • dove Elia sconfigge i sacerdoti di Baal (1 Re 18,20-40 monte Carmelo);
  • dove poi trova rifugio e l’intimità con Dio (1 Re 19,8-18, il venticello dell’Oreb);
  • dove Salomone costruirà il tempio (Sion cfr. Sal 2,6);
  • un antico nome divino, dell’epoca patriarcale (solo nel pentateuco), è “El Shaddai “— Dio della montagna, tradotto in maniera errata con «onnipotente» (Vedi nota di Gen. 17,1 della Bibbia di Gerusalemme per altre citazioni).
  • facile il richiamo al monte degli Ulivi (Lc 19,29; 21,37; 22,39; At 1,12).
  1. 2 – «fu trasfigurato»: metamorphóó, mutare forma; in specie attraverso i segni di una teofania (= manifestazione):
  2. il Volto come il sole (cf Sal 35(36),10; Ap 1,14; 10,1);
  3. le vesti bianche come la luce (Sal 103(104),2);
  4. è il Figlio dell’uomo nella sua gloria (Dan 7,9).

La veste bianca richiama la resurrezione di cui la trasfigurazione è un’anticipazione (cf Mt 28,3; e versioni sinottiche). Lo splendore di cui la persona di Gesù è circondata richiama lo splendore sul volto di Mose dopo la rivelazione sul monte Sinai (cf Es 34,29-35), a motivo del quale Mose dovette coprirsi la faccia con un velo.

3 – Mose ed Elia: II personaggio di Elia unisce tra loro i due episodi. Correggendo l’ordine in modo da avere «Mose ed Elia» al posto di «Elia con Mose» di Marco, Matteo ha fatto dei due personaggi i rappresentanti della Legge (Mose) e dei Profeti (Elia). La loro simbologia è chiara: essi rappresentano rispettivamente la Legge e i Profeti, cioè quello che noi chiamiamo l’Antico Testamento (cf Mt 5,17), la cui testimonianza al Cristo è fondamentale (cf 2 Pt 1,19).

Le spiegazioni sui due personaggi sono varie ed interessanti:

  1. ambedue avevano ricevuto la teofania divina sul Monte, il Sinai e l’Horeb;
  2. ambedue erano stati tratti in alto dal Signore, «in privato»;
  3. ambedue avevano ricevuto la Parola divina da portare al loro popolo;
  4. ambedue erano morti misteriosamente, di Mose non si conosceva il luogo della sepoltura, Elia era salito sul carro di fuoco;
  5. soprattutto, ambedue erano stati gelosi dei diritti del loro Signore, per cui avevano sofferto angosce mortali.

Mosè ed Elia rappresentano anche tutto il genere umano (i morti e i vivi) radunato con Gesù trasfigurato. Adesso i due parlano con Gesù; l’argomento di tale colloquio non è indicato, certo ha come contenuto la realizzazione della Promessa antica, ma sotto il «segno» terribile della Croce (esplicitato da Lc 9,31: l’esodo che Cristo deve fare a Gerusalemme).

4 – Entra come sempre per primo in azione Pietro, un pò per sua iniziativa sempre impetuosa, un poco a nome dei confratelli intimoriti; dice che è «bello», ossia buono restare lì, e si offre di drizzare tre tende; si tratta delle skènài, tende.

Signore: Anziché «Rabbi», Pietro chiama Gesù «Signore» (kyrie), secondo l’abitudine di Matteo di evitare di dare a Gesù il titolo di «Rabbi» che a quanto pare era un titolo importante per gli avversari (vedi Mt 23,8). Questo è infatti il titolo usato da Giuda al momento di tradire Gesù (vedi Mt 26,25).

Pietro si mostra inoltre più deferente («Se vuoi») in Matteo che non in Marco e si offre a costruire da solo le capanne («farò qui…»). Le capanne sono probabilmente un riferimento alla festa ebraica delle Capanne (vedi Lv 23,39-43). La grande festa delle Tende o Tabernacoli propriamente «delle capanne» (cf Es 23,16), la festa del raccolto finale d’autunno è la più solenne dell’anno, che un’aggiunta postesilica unisce ai ricordi del deserto (descrizione in Lv 23,33-43). Questa festa commemorava il soggiorno degli israeliti sul monte Sinai mentre ricevevano la rivelazione della Legge per mezzo di Mose. Ma questa non è la rivelazione di un’altra legge; viene qui manifestata una realtà ben più grande.

La tenda rievoca anche la sacra Tenda dell’antica Alleanza, simbolo della presenza divina in mezzo al suo popolo (cf nota Es 25,8), tenda in cui Dio parlava faccia a faccia con Mose (Es 33,7-11). Pietro vuole con ciò prolungare questa anticipazione della fine dei tempi. Matteo tralascia l’osservazione di Mc 9,6 («Non sapeva infatti che cosa dire, poiché erano stati presi dallo spavento»).

5 – La nube: (la Shekinah) come già la tenda, è segno della presenza di Dio, cf Es. 24,15-18; 40,34s, la nube che ricopre la cima del monte Sinai o che riempie la tenda. Richiama ancora l’esodo di Israele nel deserto, dove la nube è la guida del popolo verso la salvezza (cf. Sal 105,39); così è per i discepoli. Con la distruzione del tempio la ricomparsa della “nube” era attesa come segno del ritorno definitivo ed ultimo di Dio (2 Mac 2,7-8). Nel N.T. la “nube” è lo Spirito Santo (cf Lc 1,35); solo lo Spirito Santo può dare la forza di compiere la volontà del Padre. La voce è la stessa che si fece udire nel battesimo, Gesù è il Figlio, «il Diletto», l’Isacco nuovo (cf Gen 22,1-2).

Ed ecco una voce: Il messaggio della voce è identico a quello in occasione del battesimo di Gesù in Mt 3,17. E una combinazione di allusioni al Messia («il Figlio mio», vedi Sal 2,7), al «prediletto» (Isacco; vedi Gen 22,2) e al servo di Dio (Is 42,1; 44,2). L’aggiunta matteana «Ascoltatelo» potrebbe essere un’allusione al «profeta come Mose» di Dt 18,15 («a lui darete ascolto»). L’espressione più completa di quello che dice la voce è dunque di Matteo: «Ed ecco una voce che diceva : “Questi è il mio Figlio, il monogenito (o agapetòs), nel quale mi sono compiaciuto (eudokésa)[4]. Ascoltatelo”». Marco riporta le stesse parole, senza l’aggiunta: «nel quale mi sono compiaciuto» (9,7). In Luca si legge: «Questi è il Figlio mio, l’eletto (o eklelegménos), ascoltatelo» (9,35). E Pietro, dal canto suo, riporta l’insieme della frase senza l’esortazione «ascoltatelo» (cf 2 Pt 1,17-18). La voce del Battesimo e la voce della Trasfigurazione, qual è la differenza tra le due proclamazioni? Ambedue concordano nel sottolineare che Gesù è il Figlio, il Figlio amato, il Figlio in cui il Padre si compiace. L’aggiunta nuova della Trasfigurazione è: «ascoltatelo». A dire: lui sta veramente presentando al mondo l’immagine del Padre, «ascoltatelo» è la parola solenne del Padre!. Egli parla per bocca del Figlio; si realizza la profezia di Mose in Dt 18,15 (cf anche At 3,22ss). Ora, il gr. akoùó, l’ebr. shama’, indicano molto di più che l’ascolto materiale: ascoltare e obbedire, seguire, fare come. Il Figlio deve essere «ascoltato» dunque fino sulla Croce; e si sa che i discepoli tutti l’abbandoneranno (27,56b). La Luce, la Nube, la Voce sono dunque «visione e parola», le due componenti della Rivelazione biblica, qui prodottesi nella teofania.

6- I discepoli ascoltando la Voce cadono in terra; è la reazione umana alla teofania divina (cf Gen 17,3.17; Ez 1,28; Ap 1,17). Così sarà per le donne fedeli al sepolcro vuoto del Signore (Mt 28,9). «ascoltatelo» Att. imperativo presente (continuate ad ascoltare).

7 – Con grande benevolenza Gesù si accosta ai discepoli e li tocca per confortarli (cf Dn 8,18; 10,10.18), rivolgendo loro parole dense di significato: «Rialzatevi e non temete». Il primo verbo è egéiró che si usa per la resurrezione; è tradotto in gr. con un imperativo aoristo attivo che ordina di intraprendere un’azione nuova.

«non temere»: udendo queste parole l’uomo trasforma il proprio timore in adorazione e in una fiducia filiale che bandisce ogni paura (cf Mt 14,27; 28,5.10; Lc l,12s. 30; 2,9s; 5,10). Il timore è dunque rimosso, e lo dovrebbe essere per sempre, a causa della resurrezione, quando al battesimo riceviamo «lo Spirito della filiazione» (Rm 8,15; Gal 4,6). Il verbo è tradotto con un imperativo presente negativo che ordina di non continuare l’azione che si stava facendo.

8 – la teofania per ora è terminata con l’effetto voluto. Mose ed Elia sono scomparsi, la vecchia economia ha fatto il suo tempo, i discepoli non hanno bisogno di nessun altro, hanno con loro colui che dà la rivelazione di Dio.

«In nessun altro c’è salvezza…» afferma S. Pietro e anche: «Dove andremo..» (Gv 6,68).

9 – Adesso discendono dal Monte, per tornare alla missione del Signore che termina alla Croce. Il Signore raccomanda di non parlare della «visione» «finché il Figlio dell’uomo non risorga dai morti». I discepoli si faranno testimoni della Trasfigurazione quando saranno inviati a Israele e al mondo a testimoniare la sua Resurrezione (cf 24,46-48). Infatti la Resurrezione che altro è se non la Trasfigurazione resa eterna nell’umanità del Signore? E se a lui così anche a noi (Rm 8,11).

Non parlate a nessuno di questa visione: Inserendo il termine «visione» (hórama) Matteo indica la propria interpretazione della trasfigurazione. Matteo tralascia le perplessità dei discepoli circa il significato di «risuscitare dai morti» (vedi Mc 9,10).

10 prima deve venire Elia: Secondo MI 3,23-24 (= 4,5-6) il ritorno di Elia dovrà precedere la venuta del Giorno del Signore. Ma non è chiaro se Elia dovesse essere il precursore del Messia.

12non l’hanno riconosciuto: L’aggiunta che Matteo fa a Mc 9,13 rispecchia il suo interesse nella fede e nella comprensione. La sua omissione di «come di lui sta scritto» può essere attribuita all’assenza nell’AT di un testo di questo genere.

13 – che egli parlava loro di Giovanni il Battista: L’aggiunta di Matteo elimina qualsiasi dubbio o confusione riguardo all’identità della figura di Elia. Vedi Mt 11,14: «E, se volete comprendere, è lui quell’Elia che deve venire».

Anche se collocato ai loro occhi dentro un percorso di annunci e di storia degli interventi di Dio, è con il suo mistero personale che i discepoli devono principalmente fare i conti. Non possono pensare di capire e di poter annunciare ad altri qualcosa di lui, se non dopo che il suo percorso terreno sia compiuto. I sinottici ci consegnano in modo concorde questa preoccupazione di Gesù a non lasciar diffondere frammenti della testimonianza su di lui, prima di averne il quadro complessivo, che solo la Pasqua, cioè la sua morte e risurrezione, può offrire ai discepoli. È infatti troppo grande il pericolo di una presentazione secondo attese umane che trasformano e stravolgono quello che Gesù vuole essere per gli uomini.

 

 

I Colletta

O Padre, che ci chiami ad ascoltare il tuo amato Figlio,

nutri la nostra fede con la tua parola

e purifica gli occhi del nostro spirito

perché possiamo godere la visione della tua gloria.

Per il nostro Signore Gesù Cristo…

[1] Disc. 51,3-4.8 cfr Letture patristiche anno A 2010-11

[2] «Egli, dopo aver dato ai discepoli l’annunzio della sua morte, sul santo monte manifestò la sua gloria e chiamando a testimoni la legge e i profeti indicò agli apostoli che solo attraverso la passione possiamo giungere al trionfo della risurrezione» (Prefazio II Dom. di Quaresima)

[3] «O Dio, che chiamasti alla fede i nostri padri e hai dato a noi la grazia di camminare alla luce del Vangelo, aprici all’ascolto del tuo Figlio, perché accettando nella nostra vita il mistero della Croce, possiamo entrare nella gloria del tuo regno. Per il nostro Signore…» (Nuova colletta per la II Dom. di Quaresima).

[4] II verbo “compiacere” in greco eudokéō = essere lieto, soddisfatto è in greco tradotto con un indicativo aoristo complessivo (cf anche 3,17). L’aoristo è un tempo puntuale del passato ma può abbracciare anche un tempo molto lungo, purché venga considerato come un unico blocco (aoristo complessivo). Possiamo chiamarlo un “passato profetico” che indica il futuro. L’aoristo qui può rendere anche il semitico perfetto statico, che equivale al presente, il tempo immutabile di Dio. Come già nel Battesimo, il Padre, nel suo eterno presente (per necessità si esprime nella temporalità degli uomini) rivela qui il suo compiacimento divino perché vede già del tutto compiuta l’obbedienza e la missione del Figlio.

Fonte: Abbazia di Santa Maria a Pulsano

Read more

Local News