Commento al Vangelo di domenica 8 Luglio 2018 – don Marino Gobbin

L’UOMO “RISPONDE” A DIO

Dio chiama

Non c’è pagina della Bibbia ove non risuoni, in qualche modo, una chiamata di Dio, poiché tutta la Bibbia è parola di lui. Ma oggi, nella 1ª lettura e nel Vangelo, la chiamata di Dio si fa sentire nella maniera più esplicita, attraverso il profeta Ezechiele e per la voce di Gesù, il Figlio nel quale Dio, dopo aver parlato in molti modi per mezzo dei profeti, ha parlato agli uomini negli ultimi tempi (cf Eb 1,1).

Gli Israeliti devono sapere che è Dio che li chiama. Perciò Ezechiele ci dice d’uno spirito che è entrato in lui, lo fa alzare in piedi, parla mentre il profeta ascolta e riporta l’affermazione pronunciata da Dio due volte: “Io ti mando”, e le parole che Dio stesso gli mette sulle labbra: “Dice il Signore Dio”. Quanto a Gesù, s. Marco riferisce che “insegnava”. Insegnava, leggiamo, “come uno che ha autorità” (Mc 1,22). Perché è il Padre che l’ha mandato (cf Gv 20,21), perché non solo lo chiamano maestro e signore, ma lo è veramente (cf Gv 13,13). Altri, meglio disposti che la gente di Nazaret, lo riconoscerà e proclamerà profeta: “Un grande profeta è sorto tra noi e Dio ha visitato il suo popolo” (Lc 7,16).

Dio chiama tutti e chiama ciascuno. Quando, come in ogni Messa, fa sentire la sua parola, proclamata nelle letture; quando, seguendo l’invito del Concilio, non solo i sacerdoti, i diaconi e i catechisti, impegnati nel ministero della parola, attendono alla lettura assidua e allo studio accurato della Bibbia, ma tutti i fedeli cercano di apprendervi “la sublime scienza di Gesù Cristo” (Fil 3,8; Dei Verbum, 25). Dio chiama attraverso la parola dei vescovi e dei sacerdoti, che partecipano a un titolo speciale, in virtù del sacramento dell’ordine, all’ufficio di Cristo profeta e sono gli “araldi della fede… i dottori autentici” (Lumen Gentium, 25), “consacrati a predicare il Vangelo” (Lumen Gentium, 28).

“Figli testardi e dal cuore indurito”

Parlando a Ezechiele, Dio non ricorre a mezzi termini per stigmatizzare l’ostinazione degli Israeliti che hanno rifiutato e rifiutano di ascoltare la sua voce: “Popolo di ribelli… figli testardi e dal cuore indurito… genìa di ribelli”. Quello che avviene a Nazaret rassomiglia anche troppo al comportamento che Dio rimprovera ai figli d’Israele. Invece di rallegrarsi della “sapienza” data a un loro concittadino, dei “prodigi compiuti dalle sue mani”, la gente di Nazaret rifiuta di credere e si “scandalizza”, cioè Gesù diventa per loro pietra d’inciampo nel cammino che dovrebbe avvicinarli a Dio: “Venne fra la sua gente, ma i suoi non l’hanno accolto” (Gv 1,11). “Egli è qui”, aveva predetto il vecchio Simeone, “per la rovina e la risurrezione di molti in Israele, segno di contraddizione” (Lc 2,34).
Solo allora? Quanti, anche oggi, non l’ascoltano! Talvolta, anche fra i più vicini, quelli che da sempre l’hanno sentito parlare attraverso la Bibbia, la fede della comunità, l’insegnamento dei pastori. È di moda dar la colpa alla Chiesa, specialmente a questi ultimi: “Non sanno parlare il linguaggio della gente, non s’investono dei nostri problemi, non si rendono credibili perché i fatti non corrispondono alle parole”. Che ci meritiamo spesso questi rimproveri, siamo i primi a riconoscerlo; sappiamo di doverne rendere conto al Signore e lo preghiamo, come quando ci apprestiamo a leggere il Vangelo nella Messa: “Purifica il mio cuore e le mie labbra, o Dio onnipotente, perché possa annunziare degnamente il tuo Vangelo”.

Ma si vorrà dire che Ezechiele non fosse credibile? Che non fosse credibile Gesù? Perciò, mentre il vescovo, il sacerdote deve riconoscere, con s. Paolo, la propria debolezza, gli uditori della parola debbono interrogarsi seriamente sulle loro disposizioni e mettere tutta la buona volontà. È di questa che ciascuno dovrà rendere conto a Dio, che legge nei cuori.

Debole e forte

Le confidenze che fa Paolo scrivendo ai Corinzi valgono per tutti i cristiani. Nessuno può negare d’essere in se stesso debole e bisognoso della forza che viene da Dio. Qualunque sia la “spina nella carne” (per Paolo, molto probabilmente, una malattia non meglio conosciuta), ognuno è chiamato ad affrontare prove e sofferenze, nel corpo e nello spirito. L’apostolo vedeva in questa “spina” un aiuto per evitare il pericolo di montare in superbia a causa della grandezza delle rivelazioni di cui era favorito dal Signore e di cui ha informato i suoi lettori. Anche per noi le sofferenze, le contraddizioni, le debolezze morali, i difetti di carattere, sono un invito ad essere umili, a riconoscerci piccoli, a non crederci, con orgogliosa presunzione, autosufficienti. Sono un invito a pregare. Come nel salmo responsoriale: “A te levo i miei occhi, a te che abiti nei cieli… Pietà di noi, Signore, pietà di noi”. La risposta di Dio non è sempre di liberazione dalla croce che ci pesa, ma è sempre un dono di grazia, un aiuto a portare la croce con fede, nella speranza, per amore. In questo senso s. Massimo ha potuto dire: “La debolezza del cristiano è forza”.

Ma vale la pena di prolungare il pensiero espresso qui da Paolo, tenendo presente quanto egli stesso dice altrove, quando ricorda “il dovere di sopportare l’infermità dei deboli” (Rm 15,1). Allorché sperimentiamo nella nostra carne la sofferenza della malattia, costatiamo l’impossibilità di farci valere di fronte a chi ci tratta ingiustamente, sentiamo l’angoscia della solitudine, non dobbiamo chiuderci in noi stessi, ma ricordarci dei fratelli che soffrono come noi e forse più di noi. Dobbiamo, continua Paolo, “avere gli uni verso gli altri gli stessi sentimenti ad esempio di Gesù Cristo”, accoglierci gli uni gli altri come Cristo accolse noi, per la gloria di Dio (Rm 15,5.7).
Dobbiamo, ricordando che Dio con l’umiliazione del suo Figlio ha sollevato l’umanità dalla sua caduta, pregarlo che ci conceda “una rinnovata gioia pasquale, perché, liberati dall’oppressione della colpa, possiamo partecipare alla felicità eterna” (colletta).

Fonte

Tratto da “Omelie per un anno 1 e 2 – Anno A” – a cura di M. Gobbin – LDC

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Un profeta non è disprezzato se non nella sua patria.

Dal Vangelo secondo Marco
Mc 6,1-6

In quel tempo, Gesù venne nella sua patria e i suoi discepoli lo seguirono.

Giunto il sabato, si mise a insegnare nella sinagoga. E molti, ascoltando, rimanevano stupiti e dicevano: «Da dove gli vengono queste cose? E che sapienza è quella che gli è stata data? E i prodigi come quelli compiuti dalle sue mani? Non è costui il falegname, il figlio di Maria, il fratello di Giacomo, di Ioses, di Giuda e di Simone? E le sue sorelle, non stanno qui da noi?». Ed era per loro motivo di scandalo.
Ma Gesù disse loro: «Un profeta non è disprezzato se non nella sua patria, tra i suoi parenti e in casa sua». E lì non poteva compiere nessun prodigio, ma solo impose le mani a pochi malati e li guarì. E si meravigliava della loro incredulità.
Gesù percorreva i villaggi d’intorno, insegnando.

Parola del Signore

Fonte: LaSacraBibbia.net

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