Commento al Vangelo di domenica 31 Gennaio 2021 – Comunità di Pulsano

DOMENICA «della guarigione dell’indemoniato»

La pericope evangelica propone alla nostra riflessione un aspetto della vita profetica di Cristo: insegnava come uno che ha autorità. Gesù è profeta perché proclama davanti al mondo la parola di Dio; egli stesso è la parola di Dio, nel suo essere filiale, nella sua disponibilità oblazionale, nella sua testimonianza profetica. Più che profeta, egli è il mediatore che rende presente il Dio che annuncia; Dio egli stesso.

La sua personalità profetica si esprime nel suo insegnamento, come pure nelle sue opere. La sua funzione profetica si prolunga in qualche modo nella liturgia, L’assemblea eucaristica, che si raccoglie ogni domenica, è un’assemblea di ascolto: in essa Gesù profeta ci parla e ci ammaestra. Se fossimo più disponibili a questo ascolto, ci accorgeremmo quanto la parola di Cristo sia illuminante anche oggi; dovremmo far lievitare questa parola nel nostro spirito, per diventare a nostra volta sale della terra e luce del mondo.

Dall’eucologia:

Antifona d’Ingresso Sal 105,47

Salvaci, Signore Dio nostro,

e raccoglici da tutti i popoli,

perché proclamiamo il tuo santo nome

e ci gloriamo della tua lode.

Il salmo richiama storicamente la situazione di dispersione e di esilio del popolo d’Israele per cui l’orante chiede, supplica il Signore, a nome di tutto il popolo che lo salvi e lo raduni (cf Dt 30,3; Sal 106,2); fatto che il Signore ha promesso se il suo popolo si converte. Anche noi se ci convertiamo siamo salvati e radunati da Lui e possiamo nella pace celebrare il Nome divino e trovare la sua unica gloria nella continua lode divina.

Canto all’Evangelo Mt 4,16

Alleluia, alleluia.

Il popolo che abitava nelle tenebre vide una grande luce,

per quelli che abitavano in regione e ombra di morte una luce è sorta.

Alleluia.

La proclamazione dell’Evangelo di oggi è orientata da un testo profetico che è posto in modo significativo al principio del ministero di Cristo Signore, che parte dalla Galilea «delle nazioni», dove sembra che la lontananza dal Signore, anche per la mescolanza con i pagani, fosse vicina alla rovina. Ora si realizza finalmente la profezia di Is 9,1-2. Questo povero popolo che giaceva nelle tenebre dell’abbandono e del peccato finalmente ha visto la grande Luce della Vita e della salvezza, mentre ancora stava in prossimità della morte il Signore ha fatto brillare la sua Luce. La predicazione del Signore ha prodotto il prodigio, che si verifica ancora oggi qui per noi.

I Lettura: Dt 18,15-22

Il libro del Deuteronomio ci presenta Mosè che, alla vigilia dell’ingresso nella terra promessa, detta al popolo radunato una lunga serie di leggi. Nei grandi suoi discorsi nelle steppe di Moab, in preparazione all’ingresso nella terra, Mosè tiene la sua mistagogia a Israele, illustrando le conseguenze dell’evento fondante che è l’esodo dall’Egitto. Il Signore si è finora manifestato ricco di misericordia verso un popolo ancora immaturo e poco recettivo della grande grazia ricevuta. Qui Mosè tiene il suo secondo discorso (Dt 4,44 – 28,69), e presenta la futura organizzazione interna del popolo, che sarà retto da giudici (Dt 17,8-13), dal nasî, il capo (Dt 17,14-20), da sacerdoti (Dt 18,1-9), e finalmente da un profeta promesso (Dt 18,9-21).

Il brano completo si compone di tre parti che si succedono come segue:

1.          vv. 9-14 (assoluta proibizione di esercitare le pratiche magiche e divinatorie, fiorenti presso i popoli di quelle terre);

2.          vv. 15-18 (promessa della presenza di un profeta in mezzo al popolo);

3.          vv, 19-22 (minacce per chi non ascolti la parola del profeta, per il profeta stesso che osi spacciare come voce di Dio la sua propria voce, ed infine criterio di riconoscimento del vero profeta).

La lettura liturgica sceglie soltanto la parte centrale che è anche la più importante: «Queste nazioni di cui stai per impossessarti hanno seguito pronosticatori e indovini, ma a te il Signore tuo Dio non ha dato queste cose. Egli susciterà per te un profeta come me» (vv. 14-15). È questo il senso della promessa: il profeta sarà per Israele il grande mezzo di mediazione con il suo Dio, in opposizione ai surrogati ricordati nei vv. 9-11, Le pratiche magiche sono un «abominio davanti al Signore»; sono un tentativo dell’uomo di controllare e soggiogare in qualche modo la divinità: questo comportamento non si può conciliare con l’alleanza, l’amicizia stabilita fra Dio e il «suo» popolo.

Tutto il cap. 18 del Deuteronomio è dunque dedicato all’eventuale apostasia del popolo, provocata da un “profeta”, che nella falsità della sua dottrina lo allontani dal Signore. Quel falso profeta deve essere disatteso dal popolo, e tolto dal suo mezzo. Adesso Mosè riprende l’argomento in positivo. La situazione è l’ingresso nella terra, e l’avvertenza è di non seguire l’abominazione dell’idolatria che Israele vi troverà (Dt 18,9). Così non si consacreranno i bambini con il rito del passaggio attraverso il fuoco, non si ascolteranno le falsità di indovini, di scrutatori di segni nella natura, di lettori del volo di uccelli, di fattucchieri di magia (v. 10), né di chi fa incantesimi, né di chi consulta gli spiriti vaganti per il mondo, né di indovini del futuro, né di chi consulta i morti con lo spiritismo (v. 11). Tutta questa sovrabbondanza di umanità decaduta nel peccato è abominata dal Signore, che a causa di essa dalla terra promessa caccia via le nazioni pagane davanti ad Israele (v. 12). Il Signore chiama il suo popolo a stare davanti a Lui nella sanità spirituale nuova (v. 13). Le nazioni pagane sono state portate alla rovina spirituale dell’idololatria da chi scruta il futuro e da indovini, che il Signore esclude per il suo popolo (v. 14).

Al contrario, il Signore fa adesso la sua grande promessa. Egli farà sorgere per Israele dal suo stesso seno «un Profeta come Mosè». Il profeta è colui che, scelto dal Signore, farà da mediatore della Parola del Signore al suo popolo, e della parola del popolo al suo Signore, e farà anche da intercessore per il suo popolo. La sua Parola non è sua, è del Signore, e perciò sarà efficace sempre, ma anche la sua intercessione sarà potente presso il Signore. Per questo Israele dovrà ascoltare solo lui, ossia dovrà obbedire solo a lui (v. 15). Infatti, ascoltare la voce del Signore in modo diretto, questo Fuoco tremendo, come avvenne sul Monte Horeb, prima dell’alleanza (Es 19), è terrificante per il popolo, che allora chiese di non assistere più a tanto spettacolo per non morire (Es 33,20; Lv 16,2), e il Signore lo esaudì (v. 16). Il Signore acconsentì a questo desiderio (v. 17). E adesso invierà a Israele un Profeta come Mosè, scelto tra i fratelli, e porrà le sue parole sulla sua bocca, ed egli farà da mediatore della Volontà del Signore tra il popolo (v. 18). Ma chi non lo ascolterà, renderà conto al Signore stesso (v. 19).

E al contrario, se uno per malizia e inganno, si atteggia a profeta, e vorrà parlare fatti non comandati dal Signore, e quindi parlerà in nome di idoli falsi, dovrà essere tolto via dal popolo santo (v. 20). Non si capisce perché il testo sia stato tagliato proprio qui. Infatti il seguito è determinante per la comprensione di quanto precede. In realtà, di certo il popolo si dovrà chiedere come conoscerà che uno è profeta di parola estranea al Signore (v. 21). E il Signore allora assegna il criterio della veridicità del suo profeta: se la parola pur detta nel Nome del Signore non si verifica, essa non fu pronunciata dal Signore. Fu invenzione del falso profeta, e il popolo non deve seguirlo né temerlo (v. 22)

Come si è realizzata storicamente questa promessa? Certo nella successione dei profeti in Israele, nel profetismo comunitario del popolo stesso, ma soprattutto in Cristo che ha realizzato sovrabbondantemente l’immagine che il Deuteronomio ci dà di Mosè: profeta che intercede, soffre come rappresentante del popolo e muore per esso. È sicuro comunque che la chiesa primitiva, sulla scia di Pietro che in un suo discorso (Atti 3,22) cita esplicitamente il nostro brano, ha visto in Gesù la realizzazione piena della promessa divina.

Cristo Signore, battezzato dal Padre con lo Spirito Santo per il suo ministero profetico, regale, sacerdotale e nuziale (Mc 1,9-11), vinte le tentazioni sataniche (Mc 1,12-13), comincia la predicazione profetica, annunciando alle folle i tempi compiuti e la venuta del Regno, chiamando alla conversione del cuore e alla fede nell’Evangelo adesso annunciato (Mc 1,14-15). Poi chiamati i primi discepoli che debbono seguirlo e poi proseguire nel mondo la sua missione salvifica (Mc 1,16-20). Adesso prosegue la sua missione profetica, e dà inizio anche all’aspetto regale, quello delle opere della Carità del Regno.

Con il racconto della guarigione dell’uomo «posseduto da uno spirito immondo» (cfr. anche Lc 4,31-37), l’evangelista Marco dà inizio all’ampia sezione del suo Evangelo nella quale sono narrati i miracoli di Gesù (cc. 1-8).

Infatti i 16 capitoli di cui si compone questo evangelo hanno il loro punto centrale nel c. 8°, nel quale è collocata la professione di fede che Pietro fa nei confronti di Gesù: «Tu sei il Cristo» (8,29). Nei capitoli precedenti Marco descrive i miracoli di Gesù per facilitare al catecumeno (e a noi che leggiamo) la ricerca e la scoperta della vera identità di Gesù («Messia» e «Figlio di Dio»).

I suoi contemporanei, tuttavia, non hanno saputo comprendere così la vita, le parole e i miracoli di Gesù; si sono limitati allo «stupore» e alla «meraviglia» o ad una interrogazione superficiale: «Chi sarà costui?», «Da dove gli viene tanta autorità?» o al rifiuto: «E se avesse un demonio?». L’omogeneità del testo è chiaramente visibile, oltre che nell’unità di luogo e di tempo, nella successione cronologica degli avvenimenti, disposti nell’arco di ventiquattro ore.

I diversi episodi narrati vanno sotto il nome di «il ministero di una giornata a Cafarnao» (cfr. vv. 21.29.32-33.35); probabilmente non è da escludere che Marco abbia voluto così darci un quadro tipico dell’attività di Gesù, così come si svolgeva tutti i sabati o più genericamente in ognuna delle sue giornate: predicazione, vita con i discepoli, incontro con le folle, azioni prodigiose, momenti di solitudine, preghiera. Da tenere nella giusta considerazione anche la probabile influenza della catechesi di Pietro, la cui presenza e lo spirito di osservazione si rivelano soprattutto negli elementi descrittivi.

L’Evangelo non è cronaca giornalistica sulla vita di Gesù; ma nel trasmettere la fede in lui Figlio di Dio e Salvatore, ne riporta le parole, i gesti e ci consente di cogliere nel nucleo essenziale la verità del suo agire e l’identità del suo essere.

«Il Signore tuo Dio susciterà per te, in mezzo a te, fra i tuoi fratelli, un profeta pari a me; a lui darete ascolto» (la lett.).

Nella storia dell’interpetazione biblica queste parole – racchiuse nel brano della prima lettura – sono state riferite al Messia Gesù : «Un grande profeta è sorto tra noi e Dio ha visitato il suo popolo» (Lc 7,16).

Ecco, ora, Gesù di Nazaret profeta e più che profeta; nuovo Mosè e più che Mosè.

Gesù si rivela man mano, con discrezione, quasi con riluttanza: la gente che ascolta tuttavia coglie subito l’originalità del suo insegnamento (cfr. v. 22).

Le loro orecchie odono una “dottrina nuova”; i loro occhi vedono un “rabbi” diverso dai loro scribi e dai loro maestri; ma non sembrano cogliere fino in fondo la sorpresa di Dio. Qualcuno però si rende conto di quella straordinaria presenza; un uomo, presente nella sinagoga, «posseduto da uno spirito immondo», si mise a gridare: «Io so chi tu sei: il santo di Dio». Gesù lo fa tacere con una parola dura (lo sgridò) e guarisce quell’uomo dalla possessione: la parola si traduce in azione.

Esaminiamo il brano

v.21 – «Cafarnao»: dall’ebraico, «villaggio di Naum» è identificata comunemente con Tell-Hùn, sul lago di Tiberiade, a circa 5 Km a occidente del luogo ove il Giordano sfocia nel medesimo lago.

Centro fiorentissimo di commercio tra la Siria e la Palestina, vi passava la «via del mare» che, partendo da Damasco, raggiungeva Tolemaide (Acco) e poi attraverso la strada sorvegliata dalla città di Meghiddo si passava dalla valle di Izreèl alla pianura costiera sino a raggiungere Giaffa, Gaza e poi l’Egitto (cfr. cartina p. 63 e 146 dell’Atlante della Bibbia). Vi era anche un ufficio di dogana (cfr. chiamata di Levi Mc 2,14; Mt 9,9; Lc 5,27). Oggi è un cumulo di rovine, in mezzo alle quali spicca la bella sinagoga universalmente nota, anche se in base a studi recenti non si può dire che sia quella esistente al tempo di Cristo. L’evangelista Marco ne fa il centro abituale dell’attività di Gesù, ponendo come punto di riferimento la casa di Simon Pietro.

«di sabato»: era il giorno del riposo, della preghiera e dell’istruzione religiosa e Gesù ne approfittava volentieri per propagandare il suo pensiero, recandosi nelle sinagoghe come ogni buon giudeo e prendendo la parola quando gli si offriva l’opportunità.

Sebbene collegati alla narrativa che segue, i vv. 21-22 offrono un «riepilogo anticipatorio» sottolineando sia la prassi normale di Gesù che la reazione popolare ad essa. In greco «sabato» è al dativo plurale; anche se usato per un singolo giorno, può contenere anche l’idea di un’azione ripetitiva, implicita anche nell’uso del participio eiselthṑn («entrando») e dell’imperfetto incettivo edídasken («cominciava ad insegnare»).

«nella sinagoga»: Il termine «sinagoga» (dal greco synagōgḗ, «assemblea») può significare un raduno di gente oppure il luogo dove la gente si raduna. Come fabbricato era un luogo di studio della Legge e di istruzione religiosa. I raduni del sabato molto probabilmente consistevano in letture delle Scritture, in istruzioni sulla Legge e i profeti, in preghiere e benedizioni. Negli Evangeli Gesù insegna nelle sinagoghe, come pure fa Paolo in At 13,14-16. Nell’Evangelo di Marco Gesù comincia presto a frequentare le sinagoghe (1,21.23.39; 3,1; 6,2), ma non vi mette più piede dopo essere stato contestato nella sinagoga di Nazaret (6,2). Da quel momento la sinagoga simboleggia l’ostilità (12,39; 13,9) e Gesù insegna principalmente nelle case nelle quali impartisce istruzioni private ai discepoli (es.: 7,17; 9,28.33-50; 10,10-12). In tutto l’evangelo poi Gesù si mette a disposizione del pubblico e insegna all’aperto (es.: 2,13; 3,32; 4,1; 10,1). Questo potrebbe anche rispecchiare la prassi seguita dalla comunità di Marco: istruzione nelle «chiese-casa» per i membri della comunità e predicazione missionaria «all’aperto».

v. 22 «si stupivano»: il verbo greco ekplḗssō denota sbalordimento, ammirazione e stupore insieme (cfr. 6,2; 7,37; 10,26; 11,18).

La causa di questo stupore è subito precisata dallo stesso evangelista: «insegnava come uno che ha autorità (exousía) e non come gli scribi».

Gesù nel suo insegnamento non seguiva il metodo dei rabbini, i quali per lo più si limitavano a ripetere quanto avevano appreso dai loro maestri (la «tradizione degli antichi» di Mc 7,3). Tra il I secolo a.C. e l’inizio del III secolo d.C. la tradizione giudaica conta sei generazioni di Maestri detti tanna’im (= ripetitori), tra cui ricordiamo come principali: Hillel e Šammai (contemporanei sotto Erode il Grande ed Archelao); Gamaliele I (cfr. At 5,34; 22,3), nipote di Hillel e maestro di Paolo; ecc.

Le differenze principali tra Gesù di Nazaret e gli altri maestri sono:

1) egli non tanto accoglie discepoli spontanei quanto li chiama personalmente (cfr. evangelo Dom, scorsa);

2) non insegna solo ad una cerchia ristretta, ma pubblicamente alle folle (cfr. Mt 5,1 “Discorso della montagna”);

3) non si limita ad insistere sulla conversione dei peccatori, ma li cerca e li accoglie;

4) non è solo un ripetitore della Torah, ma osa correggerla e prende posizione contro le interpretazioni più accreditate della legge (cfr. Mt 5,21-22.27-28; e Mc 7,6-13);

5) il suo metodo d’insegnamento è prevalentemente haggadico (cfr. le parabole).

L’autorità di Gesù si fondava in modo particolare nella sua consapevolezza di essere Figlio di Dio (cfr. 1,38; Lc 4,43; Gv 8,42; 13,3; 16,27-28). Il motivo della sorpresa, dello stupore, del timore e della paura è una caratteristica salienta dell’Evangelo di Marco, compare infatti oltre 34 volte. Tali reazioni abbracciano tutti gli aspetti del ministero di Gesù:

1)     in relazione al suo insegnamento (1,22; 6,2; 10,24.26; 11,18; 12,17);

2)     a conclusione degli episodi miracolosi (1,17; 2,12; 4,41; 5,15.20.33.42; 6,50.51; 7,37);

3)     nei racconti delle epifanie divine (4,41; 6,50-51; 9,6; 16,5; 16,8);

4)      osservazioni circa lo spavento dei discepoli davanti alle predizioni della passione (9,32; 10,33; cfr. 14,33, la paura e angoscia di Gesù);

5)      le reazioni degli avversari, sia prima che durante la passione di Gesù (11,18; 12,12; 15,5.44).

Anche se le reazioni di timore e di meraviglia sono un elemento formale dei fatti miracolosi, l’enfasi che Marco fa loro assumere stabilisce un rapporto con il lettore e diventa una reazione simbolica a tutto l’evangelo.

v. 23 Lo scontro tra Gesù e Satana, tra il bene ed il male è frequente nell’evangelo di Marco; Gesù è venuto per trionfare sul male (cfr. 1,34; 3,11-15; 5,1-20; 6,7; 7,25-30; 9,17-29).

«spirito immondo»: (pneúmati akathártōi) è una espressione ebraica per indicare il demonio; risuona tre volte nel testo evangelico odierno, ma per ben 12 volte in tutto l’evangelo e per altre 12 volte si parla di “demonio”.

Per comprendere il significato di “spirito immondo ” (o “impuro”) è necessario fare delle considerazioni):

a)     la malattia nell’AT è spesso considerata come punizione per un peccato; perciò è facile unire male fisico e morale in una “confusione” non del tutto corretta in molti casi lo “spirito immondo può essere un sinonimo di “malattia” psicofìsica.

b)    la Bibbia ha la convinzione dell’esistenza di un “principe di questo mondo” che spinge la libertà umana al male. É Satana, cioè l’Avversario, il diavolo, “il serpente antico”, il “drago”, la “bestia”, come ama ripetere l’Apocalisse. Il demonio domina e sollecita tutte le forze di odio, di male e di morte che confluiscono dalle azioni malvagie degli uomini.

c)     l’impurità è nella Bibbia segno di tutto ciò che si oppone al sacro, cioè all’area del tempio e di Dio. Si ha così uno scontro tra puro e impuro, tra ciò che è santo e ciò che è vano e idolatrico.

Nel nostro caso l’aggettivo “immondo” non va inteso in senso fisico e nemmeno in senso legale con riferimento alle leggi di purità dell’A.T., piuttosto qualcosa che si oppone a ciò che è «santo». Nell’AT il comandamento di essere «santi» come lo è Dio (Lv 11,44) implica vita, integrità e completezza (Lv 21,17-21), mentre «immondo» suggerisce un qualcosa che non dovrebbe esistere, qualcosa di fuori luogo (es.: la terra nel campo del contadino è produttiva, ma nella casa o in una stanza è «sporcizia»). L’opposto del regno del santo è il regno del demonio; di qui gli spiriti che sono «impuri». I difetti fisici e le aberrazioni psicologiche possono rendere una persona «impura» nel senso di incompleta, imperfetta o in disordine.

In senso morale, come qualità dell’animo dominato da una decisa volontà di operare il male. É appunto questo il male che, secondo l’insegnamento di Cristo, «contamina l’uomo e lo rende veramente “impuro”» (cfr. 7.15.20-23). Nella lotta tra Gesù e lo “spirito immondo” si riassumono tanti significati; Cristo trionfa, anche sulla sofferenza fìsica, ma è venuto soprattutto per combattere e vincere il male nelle sue radici più oscure, poste nel cuore dell’uomo e alimentate da Satana, l’Avversario del bene e della luce.

vv. 24-26 La presenza demoniaca è qui personificata nel colloquio che ha con Gesù (si noti come lo spirito parli ora al plurale e ora al singolare): è l’uomo posseduto che materialmente parla, anzi «grida» a gran voce, ma le parole sono dello spirito che è in lui e di lui si serve come di uno strumento privo di volontà, per esprimere i suoi pensieri (cfr. 5,1-20 l’indemoniato geraseno).

«Che vuoi da noi, Gesù Nazareno?»: Letteralmente: «Cosa c’è tra noi e te?». È la stessa espressione usata nella risposta che Gesù dà a sua madre alle nozze di Cana in Gv 2,4. Vedi anche 1 Re 17,18 (LXX), dove la vedova di Zarepta rivolge ad Elia le stesse parole pensando che egli sia venuto ad accusarla dei suoi peccati o a far morire suo figlio. La formula si trova di nuovo in 2 Re 3,13 e in Gdc 11,12 (e con una variante in Os 14,9). Ha la funzione di formula «difensiva» che nega qualsiasi comunanza con la persona alla quale è rivolta. In Mc 1,24 e 5,7 serve al demonio da difesa contro l’esorcista. L’aggettivo nazarenos potrebbe essere tradotto anche con «di Nazaret». Il tono dello spirito impuro è comunque ostile; per un uso analogo si veda anche 14,67, dove Pietro è riconosciuto come discepolo nel cortile del gran sacerdote.

«il santo di Dio»: la stessa espressione si trova in Gv 6,69 sulle labbra di Pietro; nel Sal 106,16 è detta di Aronne e in 2 Re 4,9 di Eliseo.

Anche se non si tratta di un titolo proprio del Messia, qui il demonio riconosce in Gesù quanto meno un uomo dotato di straordinaria santità, intravede in lui la divina potenza e cerca di difendersi.

«gli ordinò severamente»: Il verbo greco epitimáō, spesso tradotto con «sgridare, minacciare», è una metafora giudiziaria che significa «portare una pesante accusa o penalità» contro qualcuno. Nei LXX traduce l’ebraico gaar ed è usato nel senso di esorcizzare o sottomettere le forze del male (Zc 3,2; Sal 68,31; 106,9). Marco usa il termine per Gesù in 3,12 (contro i demòni); 4,39 (contro il vento); 8,30.33 (contro Pietro); e 9,25 (contro uno spirito impuro). È usato anche per altri in 8,32 (Pietro contro Gesù); 9,25 (i discepoli contro la gente che porta i bambini a Gesù); e 10,48 (la folla contro il cieco Bartimeo). La traduzione è determinata dal contesto; ciò che è costante è una parola con potere effettivo.

«Taci! Esci da quell’uomo»: In questo esorcismo Gesù non usa scongiuri, formule magiche, né gesti magici come erano soliti fare gli esorcisti ebrei e greci. Questo esorcismo inoltre è privo di qualsiasi contatto fisico che accompagnano i racconti degli esorcismi al di fuori del NT; la loro assenza conferma ancora una volta il potere della parola di Gesù. Qui abbiamo semplicemente un un comando, secco e perentorio: Egli agisce unicamente con l’autorità della sua Parola. Lo spirito immondo pur dando sfogo alla sua rabbia, tuttavia gli obbedisce prontamente.

v. 27 «Che è mai questo»: lo stupore non è provocato dal fatto dell’esorcismo, che gli ebrei conoscevano e praticavano (cfr. 9,38; Lc 11,19; At 19,13) con l’apparato di un lungo cerimoniale. La ragione è nella maniera con cui Gesù lo compie, con un semplice comando che viene subito eseguito.

«Una dottrina nuova data con autorità»: giustamente l’insegnamento è qui ricollegato al miracolo, che ne è il segno dimostrativo.

v. 28 – L’opera di Gesù incomincia ad attirare l’attenzione generale; il «problema» della sua persona è posto, anzi imposto dalla novità delle sue opere e del suo insegnamento. Tuttavia non è risolto in modo conveniente, poiché il popolo non riesce ad intravedere dietro questa novità il mistero che si cela in lui, nè come Messia nè come Figlio di Dio.

Colletta

Dio grande e misericordioso,

 concedi a noi tuoi fedeli di adorarti con tutta l’anima

e di amare i nostri fratelli nella carità del Cristo.

Egli è Dio e vive e regna con te,

nell’unità dello Spirito Santo,

per tutti i secoli dei secoli.

Oppure:

O Padre, che nel Cristo tuo Figlio

ci hai dato l’unico maestro di sapienza

e il liberatore dalle potenze del male,

rendici forti nella professione della fede,

perché in parole e opere proclamiamo la verità

e testimoniamo la beatitudine di coloro che a te si affidano.

Per il nostro Signore Gesù Cristo…

L’eucologia di questa Domenica ha testi molto generici; la I colletta chiede di poter venerare Dio pienamente e di amare il prossimo. La II colletta sviluppa la I riprendendo i temi della pericope evangelica (Gesù “il Maestro” e “il Salvatore”) e chiedendo quell’unità del cuore che è amare Dio e i fratelli.

Fonte: Abbazia di Santa Maria a Pulsano

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