Commento al Vangelo di domenica 28 Febbraio 2021 – mons. Giuseppe Mani

Sul Tabor

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Dopo essere stati con Gesù nel deserto, il Signore ci invita a salire insieme a Lui sul monte Tabor per una esperienza necessaria per affrontare la vita. Nel deserto ci siamo riconosciuti tentati dal diavolo, con la triste possibilità di soccombere alle sue tentazioni; oggi siamo invitati a salire per scoprire chi realmente siamo, perché il rischio di dimenticarcelo incombe continuamente su di noi. Gesù invita Pietro, Giacomo e Giovanni a salire con Lui per manifestare loro la Sua gloria.

Sarebbero stati loro i testimoni della sua passione mortale nel Getsemani. Vedere il proprio Capo gemente, che suda sangue dalla paura, caduto nella tristezza, non è lo spettacolo più incoraggiante per un seguace. Era quindi necessario che si rendessero conto chi realmente era e avessero dal Padre la conferma: “Questi è il mio Figlio prediletto nel quale mi sono compiaciuto: ascoltatelo!”. Avrebbero dovuto affrontare la prova terribile della sua crocifissione, tanto che soltanto uno di loro rimane con Lui fino alla fine, mentre gli altri, anche se saranno poi capaci di subire il martirio per Lui, in quel circostanza sono fuggiti.

Non dovevano dimenticare l’esperienza fatta, il desiderio di rimanere sempre sul monte con Lui, la inebriante presenza dentro la nube. Mai dimenticarsi che era Figlio di Dio anche se non trasfigurato, ma sfigurato dalle sofferenze della Crocifissione.

Gesù rivela l’uomo all’uomo, quando realmente è capace di “rinnegare se stesso, prendere la sua croce e seguirlo”. La pandemia ha rivelato il vero volto dell’umanità. Il vero volto dell’uomo sfigurato dalla sofferenza e fiaccato dalla malattia. E’ per questo e in questi momenti di verità che ciascuno deve sentirsi dire: “Questo è il mio Figlio prediletto”. Perché mai l’uomo si rivela Figlio come quando nell’incertezza della fede (“Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato”), manifesta tutto il suo bisogno di Dio: è veramente povero. E’ in quel momento che si trasfigura, le sue vesti riappaiono candide come quelle del battesimo.

Ero rientrato a casa con il consueto ritardo quando Suor Bonfilia, la cugina di Don Tonino Bello, mi comunicò che don Tonino era ricoverato al Policlinico Gemelli in gravissime condizioni. In breve tempo raggiungemmo l’ospedale e ci trovammo nella stanza dove era ricoverato. C’erano i suoi due fratelli e ci accolse esprimendo grande gioia con quelle poche forze che gli erano rimaste. Alla fine dell’incontro gli chiesi la benedizione. Si rifiutò, chiedendola lui a me. Ma io mi misi in ginocchio al suo capezzale e la stessa cosa fecero tutti i presenti nella stanza. Don Tonino allora allargò le braccia e con gli occhi rivolti al cielo disse: “Dall’alto della Croce vi benedice Dio Onnipotente, Padre, Figlio e Spirito Santo”. Era trasparente, “si potevano contare le sue ossa”, era sfigurato, no, trasfigurato, quel don Tonino che si stava avvolgendo di quella gloria “che aveva presso Dio, prima che il mondo fosse”.

I medioevali hanno rivestito di gloria i loro crocifissi, convinti che “Regnavit a ligno Deus”, Dio regna dalla croce. Francesco di Assisi, invece, li ha di nuovo liberati da tutti gli abiti regali per vedere Gesù nudo e desiderare di essere come Lui, cosa che il Signore gli concesse sul monte de La Verna quella notte del 17 settembre, quando gli donò le sue stimmate. Al processo umano di sfigurazione corrisponde quello di trasfigurazione e la pandemia, se vissuta con fede come una grande esperienza umana può trasfigurare l’uomo restituendolo alla sua verità. Questo sarà il “dopo pandemia”: l’uomo più buono, perché più vero, più umano. Più povero.

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