Commento al Vangelo di domenica 27 Giugno 2021 – Comunità di Pulsano

DOMENICA «DELLA FIGLIA DI GIAIRO E DELL’EMORROISSA»

Il brano evangelico di oggi ci conduce a riflettere sulla vita e  sulla speranza di una vita senza fine. La vita è la realtà in cui  siamo immersi, noi e coloro che amiamo, tanto più sorprendente  in quanto urta, nella sua fragilità, contro la malattia, e alla fine contro il limite ineluttabile della morte. È possibile credere nella vita e sperare, nonostante tutto?

I due racconti nell’evangelo ci offrono un modello di fede semplice e fiduciosa: quella di Giairo che vede morire la figlia di dodici anni, quella della donna disperata che sente la vita sfuggirle a poco a poco, col suo sangue. Queste due storie concatenate insistono infatti sul medesimo punto. Ingenua, quasi superstiziosa la fede dell’emorroissa, che tocca furtivamente Gesù nella speranza di essere guarita; il Cristo non la rimprovera, ma l’aiuta a raggiungere la consapevolezza di un atteggiamento personale che salva e dona la pace. Ben più grande, quasi folle, la fede di Giairo, che non ha che il suo silenzio da opporre al disfattismo della folla. Per la gente che gli sta intorno è fin troppo chiaro che di fronte alla morte nessuno può far nulla; per Gesù, la morte è soltanto un sonno che conduce, attraverso la fede, a un’alba di risurrezione. Nelle parole che egli usa è già presente l’interpretazione cristiana del battesimo come partecipazione alla risurrezione del Cristo: «Svegliati, o tu che dormi, destati dai morti e Cristo ti illuminerà» (Ef 5,14).

Come non pensare a ciò che dice Péguy[1] a proposito della speranza? Essa dorme in ciascuno di noi e bisogna regolarmente svegliarla, farla alzare, metterla in cammino. Una meraviglia possibile soltanto nella fede in colui che può condurre le nostre notti più buie ad un’alba di pasqua.

Dall’eucologia:

Antifona d’Ingresso Sal 46,2

Popoli tutti, battete le mani,

acclamate a Dio con voci di gioia.

L’antifona d’ingresso è dal Sal 46,2, SRD. L’imperativo innico dell’Orante è rivolto a tutte le nazioni, affinché applaudano al Signore (Is 55,12) in segno di lode e di gioia. Esso è ribadito con l’invito a esprimere il giubilo al Signore con un coro gioioso e strepitante, come quello per la vittoria e per le maggiori feste del popolo santo.

Canto al Vangelo Cf 2Tm 1,10

Alleluia, alleluia.

Il salvatore nostro Cristo Gesù ha vinto la morte

e ha fatto risplendere la vita per mezzo del Vangelo.

Alleluia.

L’acclamazione che accoglie l’evangelo è la frase dell’Apostolo Paolo, che annuncia che Cristo distrusse la morte e con la sua Resurrezione divenne nostro Salvatore, e illumina sempre la nostra vita con la Luce divina che irraggia dal suo Evangelo della grazia. Noi lo cantiamo perché crediamo che il Salvatore nostro con la sua morte ha davvero distrutto la morte, e con l’evangelo porta la Luce, Vita divina, sulla vita umana.

La stessa «lettura semi continua» di Marco ci obbliga ancora a tenere presente e ad invitare a ripetere nell’omelia, senza stancarsi, che all’inizio della sua Vita pubblica tra gli uomini il Signore dal Padre è battezzato con lo Spirito Santo e consacrato come Profeta per l’annuncio dell’Evangelo, come Re per compiere le opere della Carità del Regno, come Sacerdote per riportare tutti al culto al Padre suo, e come Sposo per acquistarsi la Sposa d’Amore e di Sangue.

Lungo questo Tempo, privilegiato tra tutti gli altri dell’Anno liturgico, noi celebriamo Cristo Signore Risorto, mentre Lo contempliamo in uno degli episodi della sua Vita tra gli uomini, quando insegna, o opera, o prega. Questa Domenica Egli appare ed opera come il Re Sovrano, che ridona la vita e la strappa al regno del Male, a satana, estendendo così il Regno del Padre in mezzo agli uomini da Lui sanati.

Con il racconto di due segni prodigiosi oggi siamo invitati a riflettere sui limiti della vita umana e sull’esperienza dell’incontro con Cristo e con la sua Parola come sorgente di vita. La Scrittura ha sempre proclamato con forza che Dio crea la vita e la mantiene; la morte ed il dolore non vengono da Lui. Dio ha creato meravigliosamente: l’uomo è da Lui destinato all’immortalità; la morte è provocata dagli empi «con gesti e con parole» (cf. v. 16 della I Lett.). I peccatori per loro decisione si sottraggono volontariamente al dono di Dio. I cristiani partendo proprio da questa convinzione sono esortati (cf. II lett.) invece ad essere i primi nelle opere di carità, imitando Cristo che, infinitamente ricco, si fece povero per arricchire noi della sua stessa povertà (2 Cor 8,9).

Ai Corinzi Paolo non chiede di impoverirsi ma di formare l’eguaglianza: come da Gerusalemme è giunta la Grazia dell’Evangelo che ha arricchito spiritualmente i Corinzi così, adesso, essi, nel bisogno materiale di quelli, debbono corrispondere sia pure in misura modica. Avvenga quello che accadde nel deserto dove chi raccolse molto ne ebbe solo quanto bastò, e chi raccolse poco ne ebbe quanto bastò (2 Cor 8,13-15; vedi Es 16,18).

I lettura:  Sapienza 1,13-15; 2,23-24

Il taglio di questi versetti viene da 2 capitoli fondamentali del libro che fu chiamato «la Sapienza di Salomone». Oggi gli studi critici mostrano che lo scritto fu redatto da un Ebreo di buona cultura greca, ad Alessandria, verso gli anni 50 a. C. A chi crede alla regola, assai problematica in questo campo, «quanto più antico, tanto più valido», occorre spiegare che quasi sempre è valido il contrario. Tenendo fermo il principio dei nova et vetera, del tenere il nuovo tenendo insieme l’antico, avviene per i libri biblici più recenti un fatto fondante: spesso essi sono “riletture” e per così dire rilanci del contenuto di più antichi e prestigiosi libri. Si può fare l’esempio classico di Dan 7, che “rilegge” in chiave di visione profetica ed escatologica la figura del Servo sofferente di Isaia (Is 42-53), lo fa confluire in qualche modo nella figura del Figlio dell’uomo, che dall’Antico di Giorni, il Signore eterno, riceve in consegna i destini di salvezza di tutti gli uomini (Dan 7,9-14). Si veda qui la Trasfigurazione e la Domenica di Cristo Re.

Il libro della Sapienza da parte sua “rilegge” l’intera storia della salvezza dell’A. T. come fatto globale che porta inscritto un Disegno, dalla creazione con lo statuto creazionale degli uomini, all’esodo dall’Egitto, alla fede nel Signore Vivente e al suo violento rigetto dell’idololatria, mentre pone negli negli uomini la capacità creaturale di «conoscere e riconoscere» il Signore Vivente e di dargli culto.

Il cap. 1 si apre con l’appello rivolto a quanti hanno la responsabilità del comando, affinché amino la giustizia, ossia la carità e cerchino il Signore «con semplicità di cuore» (Sap 1,1), poiché Egli si fa trovare, e dona il suo Spirito Santo: che è la Sapienza eterna che tutto pervade e tutto conosce e dona di conoscere, ma in particolare ama gli uomini (vv. 2-7). Mentre gli empi sono scoperti e senza difesa, condannati senza appello, poiché provocano la morte con la loro condotta insensata e si attirano e si fabbricano la rovina con le proprie mani (vv. 8-12).

Invece il Signore è Buono e perciò non ha creato la morte, bensì solo la vita (v. 13a; Sir 11,14), ed è Misericordioso, e perciò vuole il bene dei viventi, e non si allieta della loro perdizione (v.l3b; Tob 3,22), in quanto sono sue creature. Egli infatti non rinuncia mai a quanto gli appartiene, su tutti vuole esercitare la Bontà e la Misericordia. Molti passi della Scrittura riaffermano che Egli è la Vita e quindi non vuole la morte di nessuna creatura, neppure degli iniqui e degli empi, bensì vuole che tutti essi si convertano e che vivano davanti a Lui e con Lui (Ez 3,18; 18,23.32; 33,11; Sap 11,24; 12,15; Sir 11,14), tratto ovviamente ripreso e riaffermato nel N. T., ad esempio da Paolo (1 Tim 2,4.6), e da Pietro (2 Pt 3,9).

Egli infatti creò tutto quanto esiste con un Disegno, che contempla l’esistenza creata che non abbia più fine (v. 14a). Da Lui, il Buono, ogni sua creatura è stata creata buona (Gen 1,31), ed è stata approvata anche con il compiacimento intenso della sua benedizione (Gen 2,3), e in nessuna delle sue creature Egli pose mai l’amarissimo «farmaco della morte» (v. 14b).

Gli antichi Sumeri, la più antica civiltà conosciuta (dal 7° millennio a. C, inventori della scrittura nel 4° millennio a. C, prima degli Egiziani, che in qualche modo la imitarono), i Babilonesi e gli Assiri nel loro pessimismo radicale concepivano il mondo in due sfere, una molto effimera, «la terra dei viventi», e l’altro invece con esistenza senza termine, lo chiamavano «matu la tari, regione del non ritorno». E poiché esso è il «luogo della morte», e dalla morte nessuno sfugge come dalla morte nessuno torna, quel “luogo” era stato idealizzato e concepito come un mostro insaziabile che deve divorare l’intero genere umano fino alla fine. Esso era concepito come un ente immane, davanti a cui nulla resisteva e davanti a cui tremavano gli stessi dèi, che si dichiaravano del tutto impotenti a dominarlo. La Rivelazione divina non può guarire gli uomini dall’orrore terrificante della morte e del suo luogo, la še’ôl, in greco hàdês, in latino inferi (da cui l’aggettivo «[luogo] inferno», luogo sotterraneo). Essa tuttavia mostra in parole e nei fatti che anche l’Ade è soggetto alla Volontà sovrana del Signore e che esso non ha il dominio sulla terra dei viventi (v. 14c). Questa è l’affermazione finale di Cristo Signore, che è la Vita divina stessa (Gv 1,1-4; 12,31; 14,6), ed è la Resurrezione (Gv 11,25).

In specie, non è soggetta alla morte e quindi alla fine perpetua, la giustizia che viene dal divino decreto. Essa infatti è perenne e immortale (Sap 6,18-19). Questo termine nella Scrittura indica l’adeguarsi degli uomini alla Volontà sovrana e buona del Signore e quindi il vivere una vita di rettitudine e di carità, che è «la vita» e questa contiene in sé la ricompensa che è vivere ancora e ancora (v. 15a). La morte è provocata e quindi causata dagli empi, che operano opere di morte per se stessi e per il prossimo e che parlano parole che portano alla morte se stessi e il prossimo (v. 15b). Essi giocano con la morte, credono che se la possano fare amica, che la possano addomesticare e così evitare e però inevitabilmente essa sopraggiunge a inghiottirli; con essa credono di fare alleanza e patti, allontanandola a tempo indefinito e seguitando ad agire in modo perverso (v. 16a), ma invano, essi sono destinati alla morte e degni di far parte del suo orrido regno (v. 16b).

Il Signore nel suo Disegno creò l’uomo per l’immortalità (v. 2,23a; ripresa di 1,13), poiché creò l’uomo «a immagine e somiglianza» sua, di Lui, l’Immortale (Gen 1,26-27; vedi anche Sir 17,1). Qui il testo dice esattamente: «a icona della sua immortalità (aïdiótês)» (v. 23b). Tale è lo statuto divino non modificabile assegnato agli uomini.

Ma avvenne la tragedia per l’intervento malvagio e iniquo, inaspettato e tanto più insidioso, il diavolo (Sir 21,30; Mt 4,5), trasportato dalla sua invidia (Gen 3,1-6.13). Esso, il «sovrano della morte», 1’«omicida fin dall’inizio» (Gv 8,44; Rom 5,12), introdusse la morte nel mondo, che era stato creato come il luogo della vita (v. 24). E così quanti fanno parte con esso, e questo avvenne anzitutto con Adamo ed Eva, sono suoi imitatori, diventando mortali e omicidi e travolgono gli altri nella morte nemica di Dio (v. 25; e 1 Gv 3,8; Mt 15,38).

La pericope di Marco mostra due esempi concreti per testimoniare come Dio stia dalla parte dell’uomo e vuole che viva; «la lettura evangelica di oggi compendia tutto ciò che concerne la speranza ed esclude ogni motivo di disperazione» (cfr san Pietro Crisologo).

La resurrezione della figlia di Giairo e la donna emorroissa mostrano un Gesù che si preoccupa anche della realtà concreta del dolore fisico, oltre che assolvere dai peccati (cf. v. 34).

Alla giornata delle parabole fa seguito una giornata di miracoli; infatti chi legge di seguito le connessioni redazionali dei 4 miracoli riportati da Marco dopo le parabole, 4,35-5,43, ha l’impressione che l’insieme degli avvenimenti si svolgano nell’arco di 24 ore: la sera di quello stesso giorno Gesù attraversa il lago con i discepoli, 4,35-36; nella notte avviene il miracolo sul lago, 4,37-41; all’arrivo sull’altra sponda l’incontro con l’indemoniato e la sua liberazione, 5,1-20; poi di nuovo Gesù attraversa il lago, dove ritrova la folla e accoglie l’invito di Giairo che lo prega di salvare la sua figlioletta, 5,21-24; strada facendo guarisce una donna che soffre di emorragia, 5,25-34. Il continuo andare e venire di Gesù da una riva all’altra del mare di Galilea, narrati da Marco quasi come farebbe un comandante sul giornale di bordo della sua nave, assumono un significato simbolico per ciò che egli va compiendo. Questo accumularsi di fatti strepitosi in un tempo accorciato evidenzia la tensione spirituale di questa raccolta di miracoli. È la potenza di Gesù che, con un crescendo continuo, si rivela in modo vistoso ai discepoli, prima sulla potenza caotica e scatenata delle acque, poi sull’avversario, satana, che come forza collettiva e furiosa, strazia la vita di un uomo, infine sulla malattia e la morte.

La potenza misteriosa di Gesù libera gli uomini dalla paura; da quella paura che ha la radice ultima nella morte. Solo la vittoria sulla morte sarà la garanzia della liberazione definitiva. Per questo Marco conclude l’ultimo miracolo, la risurrezione della figlia di Giairo, con l’ordine dato ai tre discepoli testimoni, «che nessuno lo sapesse» (5,43). Il miracolo deve essere gelosamente avvolto nel segreto, perché il suo significato definitivo può essere scoperto soltanto alla luce della piena vittoria sulla morte: la resurrezione di Gesù.

I due miracoli che la lettura liturgica ci propone, si accostano e si intrecciano tra loro, anzi uno s’incastra nell’altro, quello della donna che soffriva di perdita di sangue in quello della figlia di Giairo. Il fenomeno è comune ai tre sinottici e si pensa che sia effetto non di un artificio letterario, del resto difficilmente comprensibile, ma della successione reale e storica dei fatti. C’è indubbiamente la fedeltà dell’evangelista allo svolgimento dei fatti come sono accaduti; forse Marco avrà sentito più volte Pietro raccontare questa storia, lui infatti c’era e ne era rimasto impressionato; proprio un racconto così intrecciato risulta spontaneo e vivo, e quindi più credibile.

In qualche modo Marco sorprende nel raccontarci questi due miracoli, lui che è sempre così stringato. Ci fornisce invece, questa volta, una descrizione viva e dettagliata degli avvenimenti da farci cogliere non solo quanto di straordinario e di prodigioso accade nei due episodi, ma, nella ricchezza dei particolari tanto spontanei e naturali che fanno da sfondo e da trama nello svolgimento dei fatti, ci aiuta a comprendere il senso delle azioni e delle parole. Ma, al di là di questo aspetto redazionale dei fatti, c’è qualcosa di molto importante ed essenziale che non ci deve sfuggire per cogliere l’unità e il senso profondo dei due miracoli.

A differenza dell’indemoniato all’altra riva in cui pure viene espressa la fede «in Gesù, Figlio del Dio altissimo» (5,7) dallo stesso indemoniato per non essere tormentato, nei due episodi di Cafarnao invece la fede che domanda la liberazione dalla malattia è esplicita e Gesù la rafforza.

La fede è varia e multiforme, non certo nel suo oggetto o contenuto, ma nelle sue espressioni o modalità le quali rappresentano la via personale che ciascuno percorre per arrivare a confessare «Gesù, Figlio del Dio altissimo». Ecco la fede segreta di una donna che giunge da Gesù avvilita ed umiliata e che ripete a se stessa per darsi coraggio: «Se riuscirò anche solo a toccare il suo mantello, sarò guarita».

La fede di questa donna che si accontenta di toccare solo il mantello di Gesù per ottenere la guarigione, somiglia alla fede di un’altra donna, la sirofenicia, che chiede di avere almeno le briciole destinate ai cagnolini pur di partecipare alla mensa dei figli nell’ottenere la guarigione dì sua figlia (cfr. Mc 7,24-30).

Non si dica che quella fede non era valida ed era da purificare perché si fermava al mantello e non giungeva alla persona di Gesù, poiché Gesù stesso avendola davanti, le disse: «Figlia la tua fede ti ha salvata. Va in pace e sii guarita dal tuo male».

La fede di Giairo fu una fede supplicante ed insistente di un padre che ha la figlia agli estremi, sta per morire; una fede prolungata e provata, quando gli giunge la notizia che la figlioletta è morta e gli suggeriscono di non disturbare più il maestro, come se la fede si dovesse fermare davanti alla morte. Gesù invece dice al capo della sinagoga: «Non temere, continua solo ad aver fede!».

Gesù non dice di non temere e di avere coraggio, ma continua ad aver fede; il contrario della paura non è il coraggio ma la fede. Col coraggio si rimane in se stessi e pensiamo di averlo in noi; con la fede invece tocchiamo o ci lasciamo toccare dalla presenza di Gesù.

Esaminiamo il brano

21 – «all’altra riva»: il susseguirsi degli avvenimenti dà l’impressione di uno spostamento rapido e benché il il luogo non sia precisato, si può pensare convenientemente al litorale di Cafarnao (cfr. Mt 9,1.18),

«gli si radunò attorno molta folla ed egli stava lungo il mare»: Il versetto copia praticamente 4,1 e lega questo episodio ai precedenti fatti svoltisi in territorio giudaico. In Marco l’ambientazione «lungo il mare» (parà tḕn thálassan) è il luogo dove si svolgono altri avvenimenti importanti (1,16-20, la chiamata dei discepoli; 2,13-15, la chiamata di Levi; 4,1-34, il discorso in parabole; vedi anche 3,7).

22 – «uno dei capi della sinagoga»: Il termine archisynágōgos può essere tradotto anche con «presidente della sinagoga». Da At 13,15 si deduce che ce ne potevano essere più di uno di questi «presidenti». L’ufficio consisteva principalmente nella supervisione delle condizioni materiali e nella gestione finanziaria della sinagoga. Ogni sinagoga aveva un capo o archisinagogo, che era coadiuvato e assistito da un consiglio composto dalle tre alle sette persone. Poiché qui Marco parla in plurale, non è chiaro se voglia riferirsi archisinagogo vero e proprio o ad uno dei suoi collaboratori (cfr. At 13,15).

«di nome Giàiro»: Giairo e Bartimeo (10,46) sono gli unici nomi propri che compaiono nei racconti di miracoli. Secondo alcuni il nome «Giairo» deriva da parole ebraiche che significano o «egli illuminerà» o «egli susciterà, risveglierà». Il problema è che Marco normalmente traduce le parole semitiche (compreso il nome «Bartimeo») tuttavia le funzioni associate al nome di Giairo sono davvero appropriate per Gesù.

«gli si gettò ai piedi»: gettarsi ai piedi di qualcuno, se fisicamente è come prostrarsi davanti a lui, simbolicamente significa riconoscere la sua autorità, dichiararsi disposto ad eseguire la sua volontà, mettersi ai suoi ordini (cfr. Mc 7,25; Dt 33,3; Rt 3,4.8).

Qui, però, è soprattutto un atteggiamento di preghiera e di implorazione non come l’indemoniato che vede Gesù e gli si getta ai piedi (5,6).

23 – «e lo supplicò con insistenza»: La supplica o richiesta insistente (parakaléō) è tipica delle richieste di guarigione. «Con insistenza» traduce il noto polýs (lett. «in molte maniere») usato da Marco come avverbio. L’azione e la richiesta del capo della sinagoga fanno risaltare ancora una volta la dignità di Gesù; indicano inoltre che in Marco non tutti i capi giudaici sono contrari a Gesù.

«la mia figlioletta è agli estremi»: in Marco questo padre ha timore, quasi un rifiuto di parlare della morte della figlia (lett. «è alla fine» eschátōs) mentre nei sinottici Luca dice «è morta» e Matteo «è appena morta». Il diminutivo thygátrion di «figlia» (lett. «piccola figlia») dà l’idea di uno speciale affetto oltre che dell’età o della statura.

«imporle le mani»: l’imposizione delle mani era un rito molto comune tra gli Ebrei, che lo praticavano per le circostanze più svariate, come per impartire una benedizione (su persone: Gen 48,914.20; Mc 10,16; vedi anche pane, vittima, ecc.), per conferire una potestà (Giosuè succede a Mose: Nm 27,18-23; Dt 34,9), ecc. Nel N.T. ricorre frequentemente in relazione alla cura degli infermi (Mc 6,5; 7,32; 8,23.25; 16,18; Lc 4,40; At 9,12.17; 28,8 ecc.).

«perché sia salvata e viva»: «Viva» nel senso di «possa vivere». «Sia salvata» traduce sōthēi, che può essere reso anche con «sia curata o guarita», come si ha in molte traduzioni contemporanee. La trad. CEI ha preferito mantenere «salvata» perché il padre dice che sta morendo, e perciò la sua richiesta è che Gesù la salvi dal potere della morte.

Riassumendo: Giairo (nome semitico Ia’îr, che al completo è Ia’îrIah, in ebraico è un nome teoforico, e significa «il Signore sfolgora», egli (Dio) illumina o secondo altri egli (Dio) risveglia come sìmbolo e augurio di quanto Gesù sta per fare) l’arcisinagogo (colui che assegnava i vari ruoli ai membri dell’assemblea e che era responsabile della manutenzione dell’edificio) si getta umilmente ai piedi di Gesù per invocarne il soccorso. Giairo chiede che Gesù imponga le mani e guarisca la figlia moribonda. Notiamo come Giairo compie questa richiesta in mezzo ad una folla considerata impura dagli “osservanti” ed invoca un uomo che era considerato fuori dalla sinagoga (cfr 3,22).

Il gesto che quest’uomo compie è molto impegnativo: a questa fede Gesù chiederà di avere affidamento totale (cf v. 36: continua a credere). Non seguiranno altre parole, solo una fedele e silenziosa sequela.

25 «una donna che da dodici anni»: Questo dato fornisce un altro legame con la storia della figlia di Giairo, che ha appunto dodici anni.

«aveva un’emorragia»: si deve trattare, evidentemente, di un flusso anormale (emorragia), che non coincide con quello della mestruazione. Questa malattia in Israele era considerata causa d’immondezza legale e pertanto, come la mestruazione, escludeva dalle relazioni con altri esseri umani (cfr. Lv 15,25-27), in più questa donna da dodici anni era esclusa anche dall’assemblea cultuale del popolo di Dio (cf. Lv 15,19ss). Ciò spiega come la donna si mescoli alla folla per non farsi notare e per non essere costretta a rivelare il suo male.

26 – «aveva molto sofferto per opera di molti medici»: la notazione suona molto dura nei riguardi dell’arte medica e ciascuno di noi può sicuramente certificare episodi di incompetenze più o meno gravi.

E’ da tener presente tuttavia che i medici del tempo usavano metodi piuttosto empirici e medicamenti spesso privi di efficacia (Si veda tuttavia Sir 38,1-15. I medici, lo sappiano o no, proseguono la preziosa opera del Signore nel liberare il Regno di Dio dai mali del corpo e dell’anima).

«spendendo tutti i suoi averi»: Dato che nell’antichità solo quelli che disponevano di mezzi finanziari potevano frequentare i medici e visto che la donna disponeva di risorse proprie, un tempo deve essere stata una persona di un certo livello sociale e abbastanza ricca. La descrizione che fa Marco delle sue condizioni fa risaltare il suo miserevole stato. Si trova fisicamente malata, ritualmente impura ed economicamente esausta. Né la religione né il suo stato sociale possono offrirle un valido aiuto.

«anzi piuttosto peggiorando»: La figlia di Giairo sta morendo, ma anche questa donna sta rapidamente andando incontro alla morte.

27-28 – «toccare il suo mantello»: le parole della donna si uniformano alla credenza popolare secondo la quale i guaritori erano dotati di uno speciale potere magico o flusso magnetico, per cui qualunque loro contatto, diretto o indiretto, con l’ammalato era sufficiente a procurare la guarigione (cfr. Mt 14,36; Mc 3,10; 6,56; 8,22; Lc 6,19; At 5,15; 19,11-12).

«sarò salva»: Nella traduzione sōthḗsomai è reso con «salva» per mantenere l’idea di «ricuperare» dalla malattia e forse anche dalla morte e per dare maggior risalto al legame con il contesto del racconto (vv. 23 e 35).

Scrive un Padre della Chiesa: «In mezzo alla folla la donna si avvicinò senza essere notata, pensando di poter strappare la guarigione soltanto con la fede, senza manifestare lo stato del proprio corpo. Si accostò alle spalle di Gesù, perché si giudicava indegna di essere vista. E in un istante la fede le donò quella guarigione che in dodici anni di sforzi tutta la scienza umana non era stata in grado di procurarle. La donna toccò il mantello di Gesù e fu guarita, fu liberata dal suo male. Noi invece tocchiamo e riceviamo ogni giorno il corpo del Signore, ma le nostre ferite non guariscono. Se siamo deboli, non dobbiamo attribuirlo al Cristo, ma alla nostra mancanza di fede. Se infatti un giorno, passando per la strada, egli restituì la salute a una donna che si nascondeva, è evidente che oggi, dimorando in noi, egli può guarire le nostre ferite». (S. Pietro Crisologo, Sermone 33)

29 – «le si fermò il flusso di sangue»: l’evangelista fà risaltare la subitaneità della guarigione, di cui la donna si rese subito conto (cfr. anche v. 33). Il testo letteralmente dice «il flusso di sangue si seccò», che fa ricordare Lv 12,7 dove è detto che la donna sarà dichiarata «purificata dal flusso del suo sangue» dopo essersi sottoposta ai riti di purificazione. Qui non c’è nessun rito. È semplicemente il potere di Gesù che opera la guarigione.

30 – «Gesù, essendosi reso conto»: Un tipico aneddoto miracoloso potrebbe concludersi con il v. 29, ma qui i vv. 30-34 rappresentano una conclusione ampliata che contiene l’idea del vero significato della storia (v. 34). L’immediata percezione da parte di Gesù della forza che era uscita da sé corrisponde alla percezione della donna di essere stata guarita.

«la potenza che era uscita da lui»: nel linguaggio popolare si deve vedere l’indicazione dì un potere miracoloso che solo Gesù possedeva.

Il termine scelto da Marco (dýnamis) è da lui impiegato quasi sempre in questa accezione, sia nei riguardi di Dio (cfr; 12,24; 14,62) come nei riguardi dì Gesù (9, 1; 13,26; Lc 6,19) o di qualche personaggio dotato del potere di operare miracoli (6,14; nel significato di «miracolo» ricorre in 6,2.5; 9,39). Gesù sà di aver operato un miracolo e adattandosi al linguaggio della donna, domanda chi l’ha toccato per poterle far intendere che non al contatto fisico si deve la sua guarigione, ma alla sua fede: la sola forza capace di ottenere l’intervento divino (cfr. Mc 2,5; 4,40; 9,23-24; 10,52; 11,22-24).

Dato che il «potere» (dýnamis) è un termine associato sia alla forza che allo spirito, questo versetto ribadisce il motivo abbozzato in 1,7 (la venuta di uno più forte) e in 1,10 (Gesù il profeta che «possiede lo Spirito»; si veda anche 6,14).

31-32 I discepoli ritengono sia stata la folla; ciò che avviene tra Cristo e la donna malata si svolge in una nicchia ricavata in mezzo alla folla, ed è un segreto a due. Con le parole di uno che era presente Marco ci descrive Gesù che si guarda intorno per vedere «quella (pronome greco al femminile) che le aveva fatto questo». E la vede. Contatto, sguardo e dialogo si accendono con “l’esclusione” della folla e dei discepoli che non capiscono ed ironizzano (“vedi la folla…”). Nonostante che abbiano appena assistito al miracolo sul mare in tempesta e alla guarigione dell’indemoniato di Gerasa, sembra che i discepoli non si siano ancora resi conto del carattere straordinario del potere di Gesù (4,41, «Chi è dunque costui…?»). Questo è un altro esempio della progressiva incomprensione di Gesù da parte dei discepoli.

33 – «impaurita e tremante»: la paura della donna non viene tanto dall’avere lei, in stato di impurità, toccato Gesù, contro il divieto della legge (Lv 15,27), e dall’averlo fatto di nascosto, questa espressione non descrive una disposizione psicologica ma una reazione di fragilità umana alla presenza di un potere divino (vedi 4,41; 5,15; Es 15,16; Sal 2,11; Ger 33,9; Dn 5,19; 6,26; Fil 2,12-13; Ef 6,5).

Tuttavia la gratitudine, che nasce dalla consapevolezza di «ciò che le era accaduto», prende il sopravvento sulla paura, sicché ella riesce a dire «tutta la verità» circa il suo stato anteriore e circa il gesto furtivo compiuto in buona fede.

«gli si gettò davanti»: Con una leggera diversità nelle parole, questo gesto è lo stesso compiuto da Giairo in 5,22: un altro legame tra i due racconti.

La stupenda risposta del Signore la rassicurerà definitivamente: «Figlia, la tua fede ti ha salvata vai in pace e sii guarita dal tuo male».

«Ed egli le disse…»: La risposta di Gesù è quadruplice: la chiama «figlia» (thygátēr); una dichiarazione riguardo alla fede; un congedo in pace; e la rassicurazione che è guarita dal suo male.

34 – «Va’ in pace»: abituale formula di congedo che è anche una specie di ratifica di quanto è avvenuto o è stato detto (cfr. 1 Sam 1,17; 20,42; 2 Sani 15,9; 2 Re 5,19; Lc 7,50; At 16,36; Gc 2,16).

Secondo la leggenda questa donna si chiamava Berenice o Veronica; avrebbe asciugato il volto di Gesù lungo la via dolorosa verso il Calvario e in seguito avrebbe eretto una statua nella sua città (Bardas o Cesarea di Filippo) per ricordare il miracolo da lei ottenuto (cfr. Eusebio, Hist. Eccl., 6,18: P.G. 20,680).

35 Dopo l’interruzione dell’ emorroissa riprende il racconto relativo al capo della sinagoga; questi è ancora con Gesù, in mezzo alla folla che lo attorniava quando lo informano che la figlia è morta.

«Perché disturbi ancora il maestro»: evidentemente si credeva che Gesù avesse potere soltanto sulle malattie e non sulla morte (cfr. Gv 11,21.32).

36 – «Udito quanto dicevano»: In alcune traduzioni contemporanee il participio parakoúsas è reso con «ignorando» (il che è anche possibile) anziché con «udito». Le parole di conforto rivolte da Gesù al padre però suggeriscono che qui «udito» è più appropriato.

Potrebbe significare che Gesù non volle prestare attenzione a ciò che si diceva e quindi, come se non avesse inteso nulla, esortò il capo della sinagoga a desistere dal suo timore e a continuare ad avere fede in lui (cfr. trad. in lingua corrente), «non temere, continua a credere»: due imperativi presenti che nel greco sottolineano nel comando una continuità con quanto si stava facendo precedentemente. Di per sé, Giairo non dovrebbe temere più, perché ormai è certo della morte della «figliolina» a lui così cara (cfr 2 Sam 12,15-23 la morte del figlio di Betsabea). Ma Gesù lo invita a sostituire alla calma che deriva dall’ineluttabile, quella che sgorga dalla fede i Lui, che non deve interrompersi, si tratta di perseverare nella fiducia che aveva avuto Giairo, ormai privo di ogni mezzo di salvezza. Il filo di vita che animava ancora la fanciulla, gli faceva sperare l’impossibile da parte di Gesù: ora egli deve continuare in questa speranza, fondandosi esclusivamente su Gesù stesso.

«Non temere, dice Gesù a Giairo, continua solo ad aver fede!». Che cosa significa aver fede? Significa tendere il braccio e afferrare, al di là del tumulto dei nostri sentimenti, la mano di Dio. Una mano che ormai sappiamo essere sempre tesa… Ogni madre conosce il potere dì una semplice stretta della sua mano su un bambino agitato dalla febbre o spaventato da un brutto sogno. È come se la distensione e la pace passassero goccia a goccia nella creatura sconvolta, che per un momento vive al ritmo di un altro cuore. Un cuore che forse non è molto più coraggioso e sicuro, ma è carico di affetto e disponibile. Anche quando la morte si avvicina, l’unica cosa che si può fare per chi è assalito dall’angoscia è tenergli la mano. È come se lo si conducesse con mano sicura negli ultimi passi della sua prova, senza sapere come, in modo che superi quel tratto di strada senza lasciarsi atterrire dalle maschere dell’ombra e dai demoni generati dalla solitudine e dalla sofferenza» (A.-M. Besnard )

37 – «Non permise a nessuno di seguirlo»: E’ la prima volta che Gesù opera un miracolo lontano dalla folla. La scelta di soli tre discepoli che poi saranno i soli testimoni anche della trasfigurazione (9,2) e della preghiera nell’orto del Getsemani (14,33), potrebbe essere stata dettata dalla confusione che già regnava nella casa (v. 38) ma anche dal desiderio di avere dei testimoni qualificati che in seguito avrebbero attestato la realtà del fatto che si stava per operare (cfr. Dt 19,15).

«fuorché a Pietro, Giacomo e Giovanni fratello di Giacomo»: Questi tre fanno parte dei primi discepoli ad essere chiamati (1,16-20), sono nominati per primi nell’elenco dei Dodici (3,16-17) e sono accanto a Gesù nella trasfigurazione (9,2) e nel Getsemani (14,33). Poiché questo miracolo è l’unica risuscitazione in Marco e dato che questi tre discepoli saranno testimoni sia della sua trasfigurazione che dell’intensità del suo abbandono nel Getsemani, essi fungono da esempi dell’«essere con» Gesù nei momenti di rivelazione più importanti.

38 – «vide il trambusto»: l’espressione tradotta alla lettera dice: «vide il chiasso»; infatti oltre ai parenti, amici e vicini, per i quali il pianto poteva essere una spontanea dimostrazione di affetto, in genere per la morte di qualcuno non mancavano mai altre persone che lo facevano soltanto per professione, accompagnandosi con il suono del flauto (cfr. Mt 9,23).

39 – «non è morta, ma dorme»: Gesù non intende negare che la fanciulla sia veramente morta, come non intende affermare che si tratti di una morte apparente. Del resto non è ancora entrato nella stanza dove giace la fanciulla. Per Gesù, che ha già deciso di operare il miracolo lo stato presente della fanciulla è soltanto temporaneo e perciò paragonabile ad un sonno (Gv 11,11).

Per analogia la Chiesa ha sviluppato il linguaggio di Cristo, estendendolo a tutti coloro che «si addormentano nel Signore» in attesa della resurrezione finale.

40 – «incominciarono a deriderlo»: tale comportamento, che ovviamente non può essere dei parenti, è provocato sia dalla mancata comprensione dell’esatto significato delle parole di Gesù, che da una certa ostilità verso dì lui, oltre che alla mancanza di fede nella sua potenza, che del resto già altri grandi profeti d’Israele avevano posseduto (cfr; 1 Re 17,17-24; 2 Re 4,32-37).

«prese con sé il padre e la madre»: entra, lui, il “padre della bambina” con “la madre” nella camera, e assiste al risveglio della “fanciulla”. Qui bisogna sottolineare due punti:

  1. Innanzitutto entra in scena una nuova protagonista, la madre: colei che era celata al lettore dalla presenza onnipresente del padre. La “figlia di Giairo” appartiene a una famiglia, e non più soltanto al capo della sinagoga, essa ha un “padre” e una “madre” che Gesù prende con sé per la sua guarigione.
  2. Il secondo punto da sottolineare è che l’identità della giovane malata è in perpetua evoluzione: “figlioletta” (v.23),”figlia” (v. 35) poi “bambina” (v. 39) e ora, sulla bocca di Gesù che si rivolge a lei, “fanciulla” (41, cf. 6,22.28). Ed si alza, cammina, mangia. E un soggetto attivo e desiderante. E una donna in divenire dato che ha dodici anni. Giairo ne è testimone, ma non parla più.

41 – «presa la mano della bambina»: Il tocco è frequente negli episodi miracolosi ed è il gesto abituale delle guarigioni (cfr. 1,31.41; 9,27), che tuttavia non implica alcun effetto a sé stante. Tuttavia, poiché l’impurità dal contatto con i cadaveri era la più grave di tutte le impurità, questo tocco è un altro esempio di Gesù che contravviene ai codici culturali per il maggior bene dell’umanità (vedi 2,27-28; 3,4; ecc.). Ma in questo caso è la parola di Gesù, non il tocco, che opera il miracolo.

«Talità kum»: In aramaico questa espressione letteralmente significa «agnellino, alzati»; la parola «agnello» (talithá) può essere un termine affettuoso, specialmente se rivolto a un bambino (vedi 2 Sam 12,1-6). Le parole straniere nelle storie di guarigione sovente hanno la funzione di formule magiche. Marco tuttavia usa e traduce termini aramaici anche in altri contesti che non hanno nulla a che vedere con le storie miracolose, spesso per dare maggior risalto al proprio punto di vista (3,17; 7,11.34; 11,9; 14,36; 15,22.34).

Marco più di ogni altro evangelista, ama ricordare alcune parole nella lingua di Gesù (cfr. 3,17; 7,11.34; 14,36; 15,22.34). Dalla traduzione che lo stesso evangelista fornisce, si vede chiaramente che non si tratta di parole strane e spesso senza significato, di cui ben volentieri si servivano certi taumaturghi dell’antichità per impressionare maggiormente la gente. Per Gesù la parola era semplicemente la manifestazione della sua volontà.

«alzati»: il verbo gr. egeírō (è il verbo della resurrezione) è tradotto con un imperativo presente (continua a vivere). L’azione esprime la potenza divina (il dono della vita è di Dio), ma non è ancora quella definitiva, la vita gloriosa del Risorto.

42 – «Subito la fanciulla»: il ritorno alla vita è immediato e completo, come mostra il movimento della ragazza e lo stesso stupore dei presenti, soprattutto dei genitori, i quali fuori di sé per la gioia, dimenticano perfino di darle da mangiare.

«Fanciulla»: Adesso la figlia di Giairo è chiamata «fanciulla» (korasion), mentre prima era stata chiamata «bambina» (paidion). Korasion, il diminutivo greco di kore («ragazza» o «giovane donna»), può essere usato per una ragazza vicina all’età del matrimonio.

«si alzò»: Qui viene usato un altro verbo, anístēmi (lett. «sorgere» o «alzarsi»), usato anch’esso nel contesto della risurrezione dai morti nelle predizioni della passione di Gesù (8,31; 9,31; 10,34). Formalmente questo versetto costituisce la «dimostrazione» del miracolo. L’insistenza osservata qui sui termini che riguardano la morte e la risurrezione indica che i lettori di Marco devono scorgere in questo racconto un preannuncio della risurrezione di Gesù e del proprio risveglio dal sonno della morte.

«dodici anni»: Marco annota l’età della ragazza e sono gli stessi di quelli della malattia dell’emorroissa. Il valore è soggettivo se attribuito ai personaggi: pochi anni di vita per la ragazzina ma tanti per la malattia della donna; ma come resistere ad esempio alla suggestione di legare queste guarigioni ad Israele (le dodici tribù) e al nuovo popolo che nascerà dalla predicazione dei dodici apostoli. La salvezza operata da Gesù è per tutta l’umanità.

Ciò che è importante per qualsiasi interpretazione è tuttavia il fatto che quella dei dodici anni è l’età legale per il fidanzamento/matrimonio nella legislazione sia romana che giudaica e che la ragazza è prossima all’età da poter avere figli.

«furono presi da grande stupore»: questo termine in greco (ékstasis) è simile a quello che esprime l’emozione delle donne al sepolcro di Gesù dopo l’annuncio della sua resurrezione (Mc 16,8). L’evangelista Luca (8,56) specifica il soggetto: «i suoi genitori».

43 Il comando di Gesù secondo una spiegazione ormai classica è in linea con tutti i testi relativi al «segreto messianico» (1,25.34.44; 3,12; ecc.). Questo silenzio è perfettamente logico nella prospettiva di Marco: Gesù ha vinto la morte, ma questa sarebbe una ben povera vittoria se si trattasse solo di ridare alcuni anni di vita a una bambina nella sua famiglia.

Questo è soltanto un segno, anticipo e garanzia della vittoria piena che avverrà con la resurrezione dì Gesù; resurrezione che non è la rianimazione di un cadavere, ma vita definitiva nella comunione con Dio.

Per questo i testimoni del miracolo devono tacere, come i tre che discendono dal monte della trasfigurazione, aspettando la piena rivelazione del Dio che risuscita i morti.

«e disse di darle da mangiare»: Al pari della precisazione «aveva dodici anni», questo dettaglio apparentemente non necessario ha incuriosito gli interpreti, i quali hanno proposto diverse spiegazioni che vanno dal ricordo della «sollecitudine pratica» di Gesù alla dimostrazione che la ragazza è veramente viva e non è uno spirito o un fantasma. Anche nel «finale prolungato di Marco» (16,14), come pure in Luca 24,13-49 e in Giovanni 20-21, il Gesù Risorto appare nel contesto di un pasto condiviso con i suoi seguaci.

Piccola conclusione

Questi due episodi sono strettamente correlati. Per un verso appaiono differenze evidenti:

  • Giairo è un capo di sinagoga, un personaggio importante del quale viene riportato il nome; la donna non ha nome;
  • lui è responsabile della sinagoga; lei ne è esclusa proprio a causa della sua malattia;
  • Giairo ha una famiglia, una casa e molte persone intorno (cf. vv. 35 e 40); la donna non ha più nulla e la sua malattia tendenzialmente le preclude il matrimonio, la maternità e la esclude dalla società (impurità rituale);
  • Giairo si rivolge a Gesù pubblicamente; la donna agisce in segreto.

Per un altro verso, il testo presenta, con la sua costruzione stessa, un certo numero di parallelismi:

  • Giairo e la donna si ritrovano entrambi nella disperazione e chiedono la salvezza (cf. vv. 23 e 28) a Gesù;
  • nei due racconti si parla di due donne: una malata da dodici anni, l’altra di dodici anni, l’età della pubertà nella quale all’epoca una donna diventava maritabile;
  • in entrambi i casi si tratta di donne che sono “morte” perché anche la donna affetta da emorragia è socialmente e religiosamente morta;
  • in entrambi i casi la guarigione consiste in una reintegrazione nella società (ritorno alla purezza da una parte e ritorno alla vita dall’altra). Queste due donne si ritrovano non soltanto vive, ma capaci di dare la vita.

Ciò che avviene è un rovesciamento dei ruoli, di cui va sottolineato il significato:

  • Giairo in un primo tempo parla (supplica per sua figlia, cf. v. 23), viene invitato alla fede (cf. v. 36) in un contesto che svolge un ruolo negativo (cf. vv. 35 e 40); successivamente diventa un personaggio silenzioso (cf. v. 40) e la figlia viene toccata da Gesù (cf. v. 41);
  • la donna non parla (cf. v. 28), si serve di una folla che svolge per lei un ruolo positivo (cf. v. 27). E lei che tocca Gesù (cf. v. Gesù provoca la sua parola e la invita a divenire un soggetto che parla e la cui fede viene riconosciuta (cf. vv. 30-34).

In questo modo la situazione sociale e l’itinerario dei due sono agli antipodi, ma il risultato è identico per entrambi: la salvezza. Vi è semplicemente, nella narrazione stessa, la logica dell’abbassamento di Giairo (è supplice, viene invitato alla fede, fa silenzio, scompare dietro la figlia) e dell’elevazione della donna (non è nulla, non ha diritto alla parola, poi accede al linguaggio e diventa una credente esemplare della quale Gesù constata la fede).

Giairo fa esperienza della mancanza, del vuoto, della finitezza. E l’itinerario che porta alla salvezza della sua “figlioletta” è per lui in un primo tempo una perdita radicale (“è morta”). Passa dallo statuto di capo a quello di padre. Solo una parola esterna alla sua esistenza permette questo miracolo. La fede della donna che non è “nulla” diventa esemplare per Giairo, che è un personaggio importante.

Per la donna, come per la figlia di Giairo, la salvezza è la (re?)integrazione nella comunità dei viventi grazie a una parola estranea a quelle di questo mondo (la parola del padre per la figlia, quella della legge del Levitico e quella dei medici per la donna): quest’ultima viene guarita della sua sofferenza di donna e diventa figlia (in relazione con il Padre); l’altra diventa soggetto attivo della propria vita (passa dallo statuto di “figlioletta” a quello di “figlia”, da quello di “bambina”, a quello di “fanciulla”, cioè adulta: si alza e mangia).

Giairo e la donna fanno esperienza della medesima sofferenza, che si esprime in due modi differenti: per il primo, è una sofferenza del “troppo pieno” (di chi si autopropone, di chi tiene gli altri sotto il suo controllo), per l’altra una sofferenza della “mancanza” (di identità, di fecondità). L’uno deve “perdere” la figlia perché essa viva, l’altra troverà un’identità di “figlia”.

Che cosa ci vuole dire Marco di Gesù in questo duplice racconto? Che egli è colui la cui parola ha il potere di guarire: nessun altro, a parte lui, lo può fare (né i medici che hanno fatto soffrire la donna, né l’amore – soffocante? – del padre per la sua figlioletta). Solo colui nel quale io riconosco l’intervento di grazia di Dio per l’uomo può salvare e donare la vita.

Per questo Giairo deve uscire dal suo ruolo di capo che protegge la sua figlioletta o la donna dall’anonimato della folla dietro la quale si nasconde. Bisogna incontrare Gesù (e non soltanto toccarlo o implorarlo): bisogna fare esperienza di un dialogo (la donna) e di una rottura (Giairo).

Questa donna e quest’uomo si trovano di fatto in un vicolo cieco, di fronte a un limite insuperabile e sentito come sofferenza, un limite imposto dall’universo in cui vivono. Il loro cammino è quello della ricerca di un aiuto esterno. In sostanza si profila una concezione della salvezza, che la teologia protestante definirà più tardi extra nos, secondo la quale la salvezza può venire solo dall’esterno della nostra sfera abituale di esistenza. Tale esteriorità non significa però oltrepassare i limiti della condizione umana, ma scoprire una possibilità “altra”: per Giairo questo significa perdere la figlioletta perché la fanciulla viva (non ha oltrepassato il limite, ha accettato i suoi limiti); per la donna, significa divenire figlia per essere guarita (scoprirsi in relazione, in legame di filiazione). Il miracolo qui consiste proprio nell’ascolto di una parola che crea una rottura (che separa il padre dalla figlioletta), che libera (la grazia di Dio spezza i meccanicismi del destino), e che ha un’efficacia anche fisica. E la grazia di Dio a liberare dal determinismo, ma tale grazia può manifestarsi in una guarigione, o nella rianimazione di un corpo.

I Colletta

O Dio, che ci hai reso figli della luce

con il tuo Spirito di adozione,

fa’ che non ricadiamo nelle tenebre dell’errore,

ma restiamo sempre luminosi nello splendore della verità.

Per il nostro Signore Gesù Cristo…

II Colletta

O Padre, che nel mistero del tuo Figlio povero e crocifisso

hai voluto arricchirci di ogni bene,

fa’ che non temiamo la povertà e la croce,

per portare ai nostri fratelli

il lieto annunzio della vita nuova.

Per il nostro Signore Gesù Cristo…

[1] – Charles Péguy (Orléans, 7 gennaio 1873Villeroy, 5 settembre 1914) è stato uno scrittore, poeta e saggista francese.

 

Fonte: Abbazia di Santa Maria a Pulsano

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