Commento al Vangelo di domenica 25 dicembre 2016 – Comunità di Pulsano

Lectio Divina di domenica 25 dicembre 2016, Natale del Signore a cura della Comunità monastica di Pulsano.

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«Natale del Signore nella carne. Pasqua»

Lc 2,1-14;  Is 9,1-3.5-6;  Sal 95¸  Tt 2,11-14

La festa del Natale è patrimonio comune dei cristiani delle diverse denominazioni dei loro riti e delle loro tradizioni teologiche, liturgiche, iconografiche e popolari. Molto sentita a livello popolare la solennità corre sempre più il pericolo di perdere il suo senso forte per diventare occasione di festeggiamenti solo esterni, pretesto per addobbi e scambio di regali.

La Chiesa, madre vigile e maestra, da sempre viene in aiuto ai suoi figli affinché aprano il loro cuore e la loro memoria alla dimensione spirituale e teologica di un evento di cui essi stessi sono beneficiari e di cui sono chiamati ad essere anche attori.

Il cibo solido che la Chiesa imbandisce sull’unica, ricca e splendida mensa, per un sano ed efficace nutrimento è la sua liturgia. Sorta in Occidente, a Roma da circa la metà del 4° secolo, accettata dall’Oriente con grande solennità alla fine del medesimo secolo e pazientemente costruita attraverso i secoli dai Padri, la liturgia del Natale celebra fin dall’inizio il Signore Risorto nello Spirito Santo, contemplato mentre nasce.

Il natale è dunque festa che emana la luce e la gioia e l’efficacia della Resurrezione. Testimonianze che sostengono queste affermazioni sono le lunghe spiegazioni dei Padri, la voce perenne della Tradizione a cui si rimanda; si legga ad es. S. Gregorio il Teologo (o Nazianzeno, + c. 390) per l’Oriente e S. Leone Magno (+ 461) per l’Occidente.

Qui brevemente ricordiamo l’antico Cronografo romano, calendario liturgico della metà del sec. 4°, con la rubrica : «Natale del Signore nella carne. Pasqua».

Dell’abbondante mensa liturgica ricordiamo alcune vivande importanti:

  1. i testi biblici, quelli contenuti nei lezionari delle diverse Chiese;
  2. i testi patristici, contenuti nei libri liturgici il più delle volte in bellissimi versi;
  • le icone, che con la loro bellezza rallegrano il cuore e la mente dei fedeli, secondo una felice espressione di Giovanni Damasceno: «Io non sono in possesso di libri, non ho tempo per leggere; soffocato dai pensieri come da spine, mi reco nel comune luogo di cura delle anime, nella chiesa: lo splendore della pittura mi attira a guardare, come un prato essa mi rallegra la vista e insensibilmente infonde nell’anima la gloria di Dio». Di questi cibi succulenti nelle nostre chiese, tranne in poche lodevoli situazioni, i cristiani battezzati non sono invitati a cibarsi, mentre viene loro invece imbandita una mensa di cibi insipidi: una cena fredda, da consumarsi rapidamente e in piedi!

Prenderemo qui soltanto e in rapida visione la singolare ricchezza biblica del lezionario che regala quattro ufficiature, rispettivamente per la Divina Liturgia della Vigilia, della Notte, dell’Aurora e del Giorno.

Lezionario del Natale

Evangelo

I lett

Salmo

II lett

Eucarestia della vigilia

Mt 1,1-25

Is 62,1-5

Sal 88

At 13,16-17.22-25

Eucarestia della notte

Lc 2,1-14

Is 9,1-3.5-6

Sal 95

Tt 2,11-14

Eucarestia dell’aurora

Lc 2,15-20

Is 62,11-12

Sal 96

Tt 3,4-7

Eucarestia del giorno

Gv 1,1-18

Is 52,7-10

Sal 97

Eb 1,1-6

L’EVANGELO DELLA NOTTE:

Lc 2,1-14;  Is 9,1-3.5-6;  Sal 95¸  Tt 2,11-14

Questa è sicuramente la celebrazione più affollata, merito forse della collocazione notturna, più congeniale ai cristiani di oggi e del facile sentimento di coloro che per quanto indifferenti e lontani dalla vita ecclesiale, come i pastori sono sollecitati da un annuncio angelico a rendere omaggio, in questa notte, al Signore che Viene per tutti gli uomini.

Il tema principale della celebrazione è la verifica puntuale della Scrittura e della Realtà divina rivelata in essa con le strette correlazioni ai temi pasquali quali la Resurrezione e la Pentecoste dello Spirito Santo.

Per il contesto biblico ricordiamo che:

  • Davide di Betlemme era pastore quando fu scelto per essere consacrato re su Israele (1 Sam 16,11).
  • “Deposto” (keímenon): Questa stessa parola tornerà al momento della sepoltura di Gesù: “(Giuseppe) lo pose in una tomba dove nessuno era mai stato deposto” (23,53).

Nel racconto di Luca il minuscolo fatto della nascita di un bambino è inserito in un quadro storico che si richiama alla storia universale di Roma (Cesare Augusto, l’imperatore di Roma e Quirino, un capo locale). Il dato storico, il movimento da Nazaret a Betlemme (= la casa del pane), particolare apparentemente secondario ma identificativo del Messia (come discendente di Davide doveva nascere a Betlemme) serve alla teologia di Luca per sottoscrivere che il neonato è l’atteso messia, colui che dona il suo corpo come “pane-cibo” di salvezza per tutti gli uomini.

Il racconto della nascita di Gesù è diviso, da un punto di vista redazionale, in due insiemi che lasciano indovinare le fonti di Luca.

Il primo insieme (vv. 1-7), secondo il parere concorde degli esegeti, rientra nel genere profetico.70 Questa nascita è un segno da decifrare, particolarmente alla luce del testo di Michea 5,1, che anche Mt riprende a proposito della visita dei magi (Mt 2,6): «E tu, Betlemme, casa di Efrata, troppo piccola per essere fra i capoluoghi di Giuda, da te uscirà colui che deve governare Israele… Perciò Dio li metterà in potere altrui fino a quando colei che deve partorire partorirà… Egli starà là e pascerà con la forza del Signore… E tale sarà la pace».

Il secondo insieme (vv.8-20) presenta un sostrato apocalittico: un messaggero celeste rivela il mistero e ne indica il segno. Riferito il messaggio e riconosciuto il segno, i pastori ritornano glorificando Dio, mentre Maria, come i grandi veggenti dell’antico testamento, custodisce tutte queste cose nel suo cuore (cf. Gn 37,11; meno chiaramente: Dn 7,22; 1Sam 21,13).

I vv. 15-20 descrivono le ripercussioni dell’avvenimento sulla comunità che lo scopre. In modo analogo, la nascita di Giovanni, il precursore, aveva commosso i parenti e i vicini dell’altopiano della Giudea, interpellati da tutte quelle «parole-evento» (1,58.65).

Fin qui i pastori sono rimasti in silenzio, come nelle visioni celesti che si verificano durante la notte. La rivelazione degli angeli, membri della corte divina, secondo la mentalità dell’epoca, raggiunge una delle classi più disprezzate della società del tempo, quella dei pastori. In pochi istanti, il messaggio è giunto alla totalità delle creature capaci di accoglierlo. I pastori si propongono di «vedere questa parola-evento che è avvenuta» (2,15), e si recano a Betlemme, dove scoprono la realtà del segno promesso: «Maria e Giuseppe e il bimbo giacente nella mangiatoia». È la prima condivisione della «buona notizia», la prima reazione di riconoscenza, il primo canto di azione di grazie per questo avvenimento straordinario. Gli ascoltatori «si stupiscono»; Maria — un po’ come i testimoni dell’intervento di Zaccaria alla nascita di Giovanni, che «si misero nel cuore» (1,66) ciò a cui avevano assistito — «custodiva con cura tutte queste parole-evento, meditandole nel suo cuore» (2,19; cf. 2,51). Questo «custodire» evoca le rivelazioni del profeta Daniele (Dn 4,28; 7,28; cf. 4Esd 12,38; 14,8): la parola di Dio deve essere conservata, perché è chiamata a crescere ed è destinata a realizzarsi (cf. Ap 1,3; 22,7-10). Il senso di ciò che viene vissuto non può venire alla luce se non a partire dall’evento totale, scoperto nella sua pienezza e nel suo mistero.

Dal punto di vista letterario, l’evangelista sembra aver articolato i venti versetti in questione in tre parti, per mezzo del triplice incipit «avvenne»: «Ora avvenne, in quei giorni…» (v. 1); «Ora avvenne, mentre erano là…» (v.6); «E avvenne, quando gli angeli si furono allontanati da loro…» (v. 15). Ne risulta lo schema seguente:

  • le circostanze dell’avvenimento (vv. 1-5),
  • l’avvenimento e il suo annuncio (vv. 6-14),
  • le ripercussioni dell’avvenimento (vv. 15-20).

Antifona d’Ingresso Sal 2,7

Il Signore mi ha detto:

«Tu sei mio Figlio, io oggi ti ho generato».

L’antifona d’ingresso è dal Sal 2,7, SR. Questa proclamazione «Figlio mio Tu sei – Oggi Io Ti ho generato!» è la Parola del Padre al Figlio nello Spirito Santo, che risuona per designare le diverse Nascite di Lui: quella nell’eternità, poiché è generato in eterno; e quelle nel tempo, la primaria, alla Resurrezione, alla Vita eterna (At 13,32-33, dove Paolo cita Sal 2,7), e quella subordinata alla prima, la Nascita in Betlemme, da Maria Semprevergine. Questa Filiazione è intesa sempre come unitaria, ma questa Notte si accentua per un istante il Natale nella carne.

Canto all’Evangelo Cf Lc 2,10-11

Alleluia, alleluia.

Vi annunzio una grande gioia:
oggi vi è nato un Salvatore: Cristo Signore.

Alleluia.

L’alleluia all’Evangelo, Lc 2,10-11 è adattato. L’imperativo innico Alleluia è coniugato con la parola dell’Angelo ai Pastori: «Io evangelizzo a voi la Gioia grande». È l’annuncio eguale a quello della Resurrezione. «Il Cristo Signore e Salvatore» sono i titoli precisi che spettano a Lui dopo la Resurrezione (At 2,36). La Chiesa antica aveva compreso che 1’«angelo della Resurrezione», il diacono, ogni volta annuncia dall’ambone, dall’Evangeliario, la Resurrezione del Signore, in ogni pericope evangelica. Anche da questo punto di vista, è sempre Resurrezione, poiché Cristo è nato realmente nella carne.

I lettura: Isaia  9,1-3.5-6

La pericope fa parte del «libretto dell’Immanuel» (Is 6,1 – 12,6). Come si è accennato, in 7,14 viene la profezia della Vergine che partorisce l’Immanuel; in 8,8c-l5 l’Immanuel salva il popolo suo; in 9,1-6 la grande Luce dell’Immanuel, e i suoi titoli divini e regali. La Luce viene per la parte più abbandonata e lontana del popolo di Dio, che procede nelle tenebre e abita una terra senza luce (v. 2). Adesso il Signore dona e ingrandisce la loro gioia, come per il raccolto finale (v. 3a), come per la vittoria finale (v. 3b). Il Signore ha ripetuto per essi la grande vittoria del «giorno di Madian» (10,26; Giud 7,19-25; 8,10-21; cantato in Sal 82,10). I terribili nemici d’Israele, i Madianiti, allora furono debellati, e il popolo liberato dalla sudditanza ad essi (v. 4).

Unico motivo divino qui è che un Bambino nacque per gli uomini, un Figlio fu donato a essi. Bambino divino e regale, Dio pone sulle sue spalle il dominio, ed Egli stesso chiama «il Nome» (= l’Essenza) di Lui: Mirabile, Consigliere, Dio Forte (10,21; Ger 32,18), Padre del secolo futuro (63,16; Es 4,22; Dt 32,18), Principe dello šalôm, la pace (Mich 5,5, Zacc 9,10; Ef 2,14). Tutto quello che è Dio, il medesimo lo è il Bambino nato e donato (v. 6). Purtroppo scompare qui (ma resta per fortuna all’Antifona d’ingresso della Messa dell’Aurora) l’altro titolo: «Angelo del Grande Consiglio», colui che si fa umile Messaggero del Disegno eterno divino. Che concepì e volle anche Lui, Dio da Dio, insieme a Dio, tuttavia se ne assunse la Manifestazione. Qui va recuperato il testo greco di Is 9,6 (= 9,5 ebraico, che ha Mirabile e Consigliere). Su esso si basa la teologia giovannea su Cristo che viene ad annunciare quanto vide e ascoltò presso il Padre. E anche un enorme tema patristico cristologico, in specie di S. Massimo Confessore (+ 662). Del Bambino divino e regale si descrive l’operazione ininterrotta, «opera dello zelo del Signore dei Turni adoranti»: la sovranità illimitata, la pace perenne. Il Regno di David è la condizione di salvezza effettuata (re = salvatore del suo popolo) e resa stabile; l’emissione di sentenze giuste, e di intervento sempre soccorritore (termini: giudizio, giustizia) in eterno (v. 7).

 Salmo:  95,l-2a.2b-3.11-12.13, SRD

Il Versetto responsorio qui è Lc 2,11, e come litania salmica acclama ripetutamente la Nascita del Salvatore, Cristo Signore: «Oggi è nato per noi il Salvatore».

L’Orante esprime l’imperativo innico iniziale per tutti sulla terra: cantare al Signore «il cantico nuovo». Tratto ripetuto dal Salmista (Sal 32,3; 39,3; 97,1; 143,9; 149,1). La spiegazione di questo «cantico nuovo» che si continua a ripetere dall’inizio, sta nel N. T. In Ap 5,9 e 14,3 si richiama il «cantico nuovo», tuttavia in 15,5 è chiamato «cantico di Mose» e «cantico dell’Agnello», eseguito dai beati che seguono l’Agnello dovunque vada. Si tratta in realtà di Es 15,1-18, l’esultanza dopo la vittoria del Signore al Mar Rosso. E il «canto della vittoria», unico, sempre quello, sempre “nuovo”, ossia “ultimo”, portatore delle Realtà salvifiche prime che sono anche ultime, qui quelle dell’esodo, ma anche della Nascita del Signore Risorto (v. 1ab). Solo che adesso cantare al Signore è «benedire il Nome di Lui», espressione già conosciuta: «la benedizione torna sempre sul benedicente e unisce a lui il benedetto», qui il Nome divino, l’Essenza divina, l’Esistente, la Persona del Signore (v. 2a). Il cantico va eseguito giorno dopo giorno, e qui il verbo è «evangelizzare la salvezza» divina (v. 2b, greco; Is 52,7; 60,6). Questo ha una proiezione apostolica missionaria, poiché deve essere «annunciata» (anaggéllô) la Gloria divina tra le nazioni» pagane, i divini mirabilia tra i popoli (v. 3). Infatti «il Signore viene» (v. 13a), e per questo gioiscono cielo e terra, si commuove il mare e quanto esso contiene (v. 11). Si uniscono a questa gioia laudante l’intera creatura, i campi e gli animali (v. 12a), e perfino gli alberi delle selve si allietano (v. 12b): davanti al Volto del Signore che viene (v. 13a). Questa Venuta, come nel gruppo dei «Salmi della Regalità divina», è per il giudizio universale, soccorritore, finale, di misericordia per il mondo, operato in «giustizia e verità» (v. 13b; Sal 90,7; 109,6; Is 11,1-9, e Domenica II d’Avvento). Il Bambino opera tutto questo (Is 9,6-7). È il Verbo incarnato, «nella Grazia e nella Verità» divine (Gv 1,17).

Esaminiamo il brano

La prima parte (vv. 1-5) riunisce le indicazioni geografiche e storiche necessarie per determinare le coordinate del fatto e nello stesso tempo per illuminarlo attraverso la profezia di Michea. L’avvenimento è datato in relazione al regno di Augusto. Si verifica a Betlemme, città del territorio di Giuda; Lc le dà il nome di «città di Davide[1]», che l’antico testamento riserva ordinariamente a Gerusalemme (cf. 2Sam 5,7.9; 6,10.12.16; IRe 2,10; 3,1; 8,1… lCr 11,5.7; 13,13…). Da tutto questo emerge un contrasto sorprendente: da una parte, la figura di Cesare nell’esercizio del suo potere universale per mezzo del censimento; dall’altra il salvatore di tutti che nasce in una stalla, povero, in una lontana provincia orientale

  1. 1 – «un decreto di Cesare Augusto»: Qui non si parla più, come all’inizio dell’evangelo (1,5.9), della regalità di Erode o del tempio di Gerusalemme. In primo piano appare Cesare Augusto; si tratta di Ottavio, il vincitore di Antonio ad Azio (31 a.C.), pronipote ed erede di Giulio Cesare, e primo imperatore romano (dal 27 a.C. al 14 d.C). Costui incarna lo splendore e le pretese del nascente impero: governo forte, centralizzazione, riorganizzazione, conquiste, prestigio, fioritura dei capolavori del genio latino (Orazio, Virgilio, Tito Livio, Sallustio, Ovidio…). Il «secolo di Augusto» è l’epoca più brillante, per non dire più gloriosa, di tutta la storia romana. Il successo di Ottavio e la magnificenza del suo regno gli hanno permesso di portare, ancora vivente, il titolo di Augusto (il Sublime), riservato fino a quel momento agli dèi. In mezzo agli sconvolgimenti del suo tempo, è apparso come un salvatore[2]: il suo ottimo governo ha portato una pace insperata al mondo abitato, dopo le lacerazioni delle interminabili guerre civili[3].

«ordinò…il censimento»: Il «censimento» di cui parla Lc porta fino ai confini dell’impero l’eco di un gigantesco lavoro di riorganizzazione e di amministrazione che non si può non ammirare; un censimento, infatti, costituiva la tappa preliminare in vista del risanamento delle finanze dello stato e della ristrutturazione dell’esercito. Sappiamo di censimenti ordinati da Augusto in Gallia, in Spagna, in Egitto e in Siria[4]. In questa gestazione di un mondo nuovo,

Le vede inscriversi la nascita del salvatore.

La seconda parte (vv. 6-14) presenta l’avvenimento con una sobrietà impressionante, soprattutto se si confronta il testo evangelico con gli sviluppi poetici di Virgilio o con i racconti haggadici della nascita di Mose. Soltanto una liturgia celeste, eterna, sottolinea l’aspetto definitivo e compiuto del mistero che si offre agli uomini.[5]

Sull’avvenimento della nascita non viene fornito nessun particolare superfluo. «Mentre erano là…», cioè nel luogo indicato dalla profezia di Michea (Mi 5,1-4); «…si compirono i giorni…», cioè il periodo corrispondente alla penultima tappa del compimento delle settanta settimane annunciate da Dn 9,24 (cf. nota 23); «…essa partorì il suo figlio…»: si realizza la promessa dell’annunciazione (1,31); si tratta del «primogenito», termine che prepara la scena della presentazione (cf. 2,23). Infine, «…lo avvolse in fasce e lo sdraiò in una mangiatoia…»: è il segno che il messaggero celeste darà ai pastori; «…perché non avevano posto nella sala del caravanserraglio»: espressione in cui si può riconoscere un annuncio della passione di Gesù.

«primogenito»: Gesù è detto anche primogenito ma secondo il linguaggio ebraico che con questa parola voleva sottolineare non tanto il suo essere capo di una serie, quanto il suo essere consacrato a Dio, come la primizia di ogni animale o albero da frutta, Gesù è l’Unigenito di Dio. In una iscrizione funebre, in Egitto, una donna ebrea che muore al suo primo parto, dice che le causò la morte il suo figlio primogenito (che fu certamente unigenito). L’epigrafe risale all’anno 25 di Augusto (5 a.C.).

«lo avvolse in fasce»: L’espressione, esclusiva di Luca, esparganósen, rimanda a Ez 16,4, dove Israele è paragonato a una bambina abbandonata, gettata nei campi il giorno della sua nascita; oltre a Gb 38,9, è l’unica volta che questo verbo viene usato nell’AT.

Alcuni vedono un’allusione a Salomone (cf. Sap 7,3-5).

«lo pose in una mangiatoia»: Quanto al termine (phatnè) e sul suo significato preciso: «greppia» o «mangiatoia», piuttosto che «stalla», è un vocabolo anch’esso esclusivo di Luca, ritorna soltanto in 13,15, nel capitolo sullo scandalo della morte. La tradizione cristiana ha accostato questo versetto alla profezia di Is 1,2-3, che parla del bue e dell’asino, e al prologo dell’evangelo giovanneo: «Venne fra la sua gente, ma i suoi non l’hanno accolto» (Gv 1,11).

Gli arabi ancora oggi, come ai tempi di Gesù, possiedono una casetta secondaria spesso ricavata da grotte naturali, unita alla casa principale che richiama la “mangiatoia” citata nel racconto lucano.

Maria e Giuseppe furono ospitati in questa parte dell’abitazione, nella quale si trovavano anche gli animali o almeno le attrezzature per essi.

La mangiatoia in questo caso offre un luogo più comodo, perché nella ristrettezza dello spazio di tali camerette, il Bimbo poteva stare più tranquillo e sicuro.

Si tratta dunque non di uno sgarbo, ma di una gentilezza che gli ospiti ebbero nei riguardi di Maria, la quale potè liberamente stare come se fosse in casa sua, anche se si trattava di una stanza molto ristretta, come mette in risalto l’evangelista.

«non c’era posto per loro nell’albergo»: la frase non c’era posto per loro equivale a essi non avevano , senza nessuna enfasi particolare. Non è esatto perciò intendere non c’era per loro , come se il luogo fosse già occupato da altri (secondo la leggenda occidentale).

«albergo»: katalyma in greco può designare una stanza (cfr. 1 Sam 1,18; 9,22; Lc 22,11) oppure un deposito. In questa parte interna della casa venivano radunati tutti i prodotti portati dai campi e che dovevano servire al mantenimento della famiglia per tutto l’anno: frumento, vino, olio, mele, fichi, uva, cipolle, erbe aromatiche, ecc.

Tanto meno spazio rimaneva libero in questo deposito (come letteralmente significa katalyma), tanto più si manifestava la benedizione di Dio.

L’unico posto libero (poiché l’asino stava fuori, se il tempo era clemente) era la mangiatoia, scavata in una parete e quindi non ingombrante.

II termine usato qui da Luca (katalyma) indica al più la grande stanza o sala comune del caravanserraglio, piuttosto che una «locanda» (cf. 10,34: pandocheion = albergo, locanda).

Forti i richiami alla passione di Gesù: questa parola viene usata altre due volte soltanto nel NT (Mc 14,14 e Lc 22,11), per indicare la «sala alta» della cena pasquale. Quanto al termine che significa «luogo» (topos), viene usato per indicare il luogo dell’agonia (22,40) e della crocifissione (23,33) in Lc; in At 7,7.33, si tratta del luogo del culto e dell’incontro con Dio. In senso forte, il «luogo» è il tempio: cf. At 6,13-14 (nel contesto della morte di Stefano) e 21,28 (al momento dell’arresto di Paolo al termine del suo viaggio a Gerusalemme).

  1. 8 «C’erano in quella regione…»: il racconto assume ora uno stile nettamente apocalittico. Appare un messaggero celeste, e dà ai pastori la «buona notizia» e il «segno» che permetterà loro di riconoscere il bambino. Ci troviamo di fronte a una nuova annunciazione il cui oggetto è «una grande gioia» che suscita la lode. Il destinatario primo è «tutto il popolo», ma la «benevolenza» di Dio si estende a tutti gli uomini.

Al centro del messaggio si trova la proclamazione messianica propriamente detta: «Vi fu partorito oggi un salvatore, che è il Cristo Signore, nella città di Davide». L’oggi della salvezza è particolarmente sottolineato da Lc. L’evangelista è cosciente dell’attualità della salvezza: infatti, se non siamo salvati «oggi», se non è «oggi» che Dio ci fa toccare con mano la sua «benevolenza», il futuro di gioia rimane una chimera.

«pastori»: Discendenti di araméi nomadi, gli ebrei fecero della pastorizia e dell’allevamento del bestiame la loro prima attività: tutta la storia degli antichi Patriarchi, dei Giudici, dei Profeti e dei Re – anche Davide era un pastore – riflette usi e costumi tipicamente pastorali. Al tempo di Gesù i pastori erano ancora molto numerosi ma era molto cresciuto il peso politico sociale e religioso delle città e del mondo contadino; i pastori perciò erano disprezzati come rude e incolto “popolo della terra “, e la loro testimonianza non era ammessa in tribunale. Erano considerati gli ultimi nella scala sociale: proprio per questo Gesù volle nascere in mezzo a loro e i pastori furono i primi testimoni del Messia Salvatore (cfr. Le 2,8-20).

Il pastore viveva con il suo gregge, cercava ogni giorno un pascolo; la sera contava i capi, li riuniva in un recinto e si coricava all’ingresso per evitare fughe o razzie. Quella del Buon Pastore e della porta delle pecore è una delle immagini più efficaci della missione di Gesù; e il frequente contesto pastorale delle sue parabole e del suo insegnamento – greggi, ovile, pecore, capri… – si rivela particolarmente espressivo ed efficace.

  1. 9 «un angelo si presentò»: II verbo «stare davanti» (ephistanaì), esclusivo di Luca, si trova 7 volte nell’evangelo e 11 volte negli Atti; nel resto del NT ritorna unicamente in alcuni manoscritti di 1Ts 5,3 e 2Tm 4,2.6. Come in Nm 14,14 o in Ag 2,5, si tratta anche in Luca di un termine tecnico per indicare un’apparizione celeste (cf. 24,4; At 12,7; 23,11; 27,23). Si tengano presenti anche i segni della grande luce e del timore esaminati già altre volte.
  2. 10-14 «ecco, vi annuncio…»: Al centro del messaggio si trova la proclamazione messianica propriamente detta: «Vi fu partorito oggi un salvatore, che è il Cristo Signore, nella città di Davide».

«oggi»: (semeron) L’oggi della salvezza è particolarmente sottolineato da Lc. L’evangelista è cosciente dell’attualità della salvezza: infatti, se non siamo salvati «oggi», se non è «oggi» che Dio ci fa toccare con mano la sua «benevolenza», il futuro di gioia rimane una pia intenzione.

«Salvatore»: (soter) Il primo titolo attribuito dall’angelo a Gesù è quello di «salvatore». Anche fra i pagani, chiamare così un uomo equivaleva a collocarlo fra gli dèi (cf. note su Cesare Augusto). In Israele, tale appellativo era riservato ad Jahvé, perché non c’è salvatore al di fuori di lui (Is 43,11; 47,15; Os 13,4; cf. Is 33,22; 43,3; 45,15.21; 60,16; Bar 4,22). Gli Atti degli apostoli, applicando questo titolo a Gesù, lo spiegano come segue: Gesù è salvatore perché, innalzato dalla destra di Dio, è stato costituito Signore ed effonde lo Spirito santo, promessa del Padre (cf. At 2,32-33); chiunque invoca il suo nome è salvato (cf. At 4,9-12). Ma in questo momento, nel mistero delle origini, tutto rimane ancora velato. Il messaggero celeste rende soltanto più esplicito l’annuncio contenuto nel nome stesso di Gesù, divinamente rivelato (1,31). «Gesù» significa infatti «Jahvé salva» o «Jahvé-salvatore».

«Cristo»: Viene aggiunto poi il titolo di Cristo o «Unto», che traduce l’ebraico Mashiah o «messia», termine che viene usato soltanto nel quarto evangelo (Gv 1,41 e 4,25). Nell’annuncio a Maria (1,31-32) come nel brano che stiamo analizzando (cf. Mi 5,1-5), l’accento è posto sulle caratteristiche regali di questo «messia» venuto al mondo «nella città di Davide». In seguito, in particolare al momento della discesa dello Spirito santo (3,22) e nel discorso inaugurale a Nazaret (4,18) si tratterà di unzione profetica; e la tipologia del servo di Jahvé rientra in questo contesto profetico. Ma quando verrà posta direttamente a Gesù la questione della sua identità di Cristo, egli risponderà attribuendo a se stesso le caratteristiche del figlio dell’uomo contemplato da Daniele (22,67-69). Messia regale, messia profeta, figlio dell’uomo: il nome di Cristo raccoglie in sé tutte le speranze messianiche di Israele.

«Signore»: (kyrios) Un terzo titolo, infine, viene dato dall’angelo al bambino: «Signore». Nell’antico testamento greco (i Settanta), il termine «Signore» (Kyrios) corrisponde al tetragramma divino YHWH — che gli ebrei pronunciano Adonay.

Lc è l’unico autore del nuovo testamento che unisce direttamente i due termini, «Cristo» e «Signore», come facevano i salmi di Salomone (18,36) per designare il messia.

L’espressione è ripresa negli Atti degli apostoli: «Dio ha costituito Signore e Cristo quel Gesù che voi avete crocifisso!» (At 2,36).

Chiamandolo «Signore», il messaggero celeste sottolinea che il Cristo vivrà un’intimità unica con Jahvé — espressa attraverso il concepimento per opera dello Spirito santo (cf. 1,35) —, al punto da essere chiamato egli stesso «Signore».[6] Non solo egli instaurerà la signoria universale di Jahvé, ma già partecipa ad essa a un titolo del tutto speciale.

«Gloria…»: Il cantico degli angeli conferma la proclamazione messianica: Dio ha glorificato il suo nome; la sua benevolenza verso gli uomini si è manifestata. Il Gloria in excelsis, introdotto nella nostra liturgia eucaristica, è stato compreso in modi diversi. La tradizione romana intende:

Gloria a Dio nel più alto dei cieli,
e pace in terra agli uomini di buona volontà
.[7]

Nelle liturgie orientali e nella vecchia traduzione siriaca, l’acclamazione diventa invece:

Gloria a Dio nel più alto dei cieli,
e pace sulla terra.
Negli uomini, benevolenza.
[8]

Cercando di rispettare la lettera del testo, si può tradurre:

Gloria a Dio nei luoghi altissimi,
e sulla terra, pace agli uomini della (sua) benevolenza.

Questo canto è stato confrontato con espressioni analoghe trovate nei salmi di Qumràn, in cui si parla dei membri della setta come «figli della benevolenza divina». Nella Regola della comunità, i membri sono chiamati «i figli del favore» di Dio, «gli eletti della benevolenza divina»).

Nel genere apocalittico, i destinatari delle rivelazioni sono presentati come «eletti» (Enoc 1,3.8), «uomini delle predilezioni» (Dn 9,23; 10,11.19). Ma per Lc non c’è nessuna restrizione: l’annuncio è per tutto il mondo e riguarda l’intera creazione — cielo e terra —, perché Dio ama tutti e ciascuno (cf. 3,6). La benevolenza divina riposa ormai su tutti gli uomini per il fatto che Dio, incarnandosi, assume la nostra umanità, e raggiunge tutti coloro che in Gesù possono scoprire il significato della propria vita di uomini. Sono gli angeli, la «moltitudine dell’esercito celeste», che proclamano l’universalità della salvezza. La liturgia celeste dà l’avvio a quella della terra, che a partire da essa può svilupparsi. Come affermerà Pietro nel suo primo discorso ai pagani, «egli ha inviato la parola ai figli di Israele, recando la buona notizia della pace, per mezzo di Gesù Cristo, che è il Signore di tutti» (At 10,36).

Il segno paradossale indicato dall’angelo ci ha introdotto dunque nella radicalità del mistero. Sul figlio primogenito di Maria convergono appellativi divini e titoli regali. Salvatore, egli appare come la rivelazione vivente della benevolenza di Dio per ogni uomo. Cristo, si annuncia come la speranza del mondo, vincitore del peccato e della morte. Signore del cosmo e delle nostre storie, ci comunica lo Spirito santo che libera e mette in cammino. Ma tutto questo ci viene dato nella povertà e nella debolezza: alla nostra contemplazione stupita viene offerto un bambino.

Gli ultimi versetti annunciano sotto molti punti di vista la comunità confessante degli Atti degli apostoli. Ci troviamo di fronte ad una condivisione comunitaria e missionaria della buona notizia. E già l’avvenimento viene celebrato: «I pastori ritornarono glorificando e lodando Dio».[9]

La paternità di Dio, il mistero del Figlio nella sua umanità e la presenza dello Spirito che suscita l’azione di grazie possono quindi essere intravisti alle origini dello sviluppo dell’evento salvifico. Non sono indicati in forma esplicita: si lasciano indovinare nelle nostre storie umane, attraverso il quotidiano.

[1]              Davide era originario di Betlemme (cf. ISam 16,1-4), dove ricevette l’unzione regale dal profeta Samuele.

[2]              A Priene, antica città dell’Ionia (Asia Minore), è stata scoperta un’iscrizione dell’anno 9 a.C: la provvidenza divina ha accordato agli uomini quanto c’è di più perfetto «dandoci Augusto, che ha colmato di forza per il bene degli uomini e che ha inviato come salvatore per noi e per i nostri discendenti…» (citato da E. Lohse, Le milieu du Nouveau Testament, Cerf, Paris 1973, 256).

[3]              La stessa iscrizione di Priene dice: «il giorno della nascita del dio fu per il mondo l’inizio delle buone notizie (in greco euangelia – vangeli) che vengono da lui». Il «dio» è l’imperatore Augusto: nelle province orientali, Augusto fece associare il suo culto a quello della dea Roma, ma nella capitale, per timore delle critiche, non gli venne dedicato nessun tempio mentre era in vita.

[4]              Secondo lo storico giudaico Flavio Giuseppe (Antichità giudaiche 18,1-2), il censimento realizzato da Quirinio, governatore della Siria, ebbe luogo a partire dall’anno 6 della nostra èra. Forse Luca vuol alludere a un censimento precedente, parlando del «primo» censimento di Quirinio? In realtà, quest’ultimo fu nominato governatore della Siria nel 6 d.C; alcuni esegeti hanno pensato che Quirinio fosse stato incaricato molto tempo prima della politica del vicino oriente: dal momento che in Siria si faceva un censimento ogni dodici anni, un’operazione del genere potrebbe essersi svolta nell’anno 6 a.C. In quest’epoca viene collocata generalmente la nascita di Gesù, in armonia con Mt 2,16 (Erode morì nell’anno 4 a.C). La maggior parte degli esegeti pensano tuttavia che Le fonda insieme due avvenimenti verificatisi a dieci anni di distanza l’uno dall’altro: la nascita di Gesù sotto il regno di Erode il Grande (4 a.C.) e il censimento della Giudea sotto Quirinio (6 d.C), che giustifica il viaggio di Giuseppe e di Maria a Betlemme. In At 5,37 Gamalièle parla dei «giorni del censimento». È noto l’errore intervenuto nel computo del monaco Dionigi il Piccolo (VI secolo), che fissò la nascita di Gesù nell’anno 754 dalla fondazione di Roma, invece che nel 748/49.

[5]           Si può veramente parlare di «liturgia», perché la redazione di Lc presenta il parto di Maria in parallelo con l’ufficio liturgico di Zaccaria, grazie alla ripetizione di un versetto redazionale: «E avvenne, quando furono compiuti i giorni del suo servizio liturgico…» (1,23) – «Ora avvenne … che si compirono i giorni del parto…» (2,6).

[6]           È questo il senso della domanda di Gesù a proposito del Cristo in 20,44: «Davide lo chiama Signore, e come è suo figlio?»; Gesù invita i suoi ascoltatori a comportarsi come Davide (cf. At 2,29- 31): Sì, il Cristo, figlio di Davide, è Signore. Da qui viene la sua autorità (20,2).

[7]              «Pax hominibus bonae voluntatis»: l’espressione «buona volontà», che traduce il greco eudokia, indica l’accoglienza, l’apertura degli uomini alla parola divina; si tratta allora di un atteggiamento morale.

[8]              Questa tradizione ha letto un nominativo (eudokia) là dove le testimonianze migliori hanno un genitivo (eudokias); questa interpretazione, che non è primitiva, sembra dover essere esclusa. Per di più il termine eudokia esprime la benevolenza di Dio e non una qualità umana.

[9]           Anche il verbo «ritornare» (hypostrephein) è lucano: 22 volte nell’evangelo e 11 volte negli Atti (contro 1 volta, incerta, in Mt 8,13 e Mc 14,40; nel NT ritorna ancora in Gal 1,17; Eb 7,1; 2Pt 2,21?). Si tratta sempre di un ritorno al luogo della salvezza e della comunità (Gerusalemme), o alla vita quotidiana, ma con lo sguardo e il cuore trasformati da un evento di salvezza.

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