Commento al Vangelo di domenica 23 Dicembre 2018 – Monastero di Marango

La visita di Maria a Elisabetta (Vangelo della 4° Domenica di Avvento) precede immediatamente la Visita del Signore al suo popolo (Natale). In genere, una visita è motivo di gioia e celebrazione di umanità nell’incontro fra persone. In particolare, quando è Dio che si fa ospitare questo è sempre occasione di fecondità e di vita: quando ha visitato Abramo (cfr. Gen 18,1-15; 21,1), il popolo schiavo in Egitto (cfr. Es 3,16), gli esuli a Babilonia (cfr. Ger 21,10).

Così la Bibbia ci narra come Dio ami essere ospitato dall’uomo nella sua casa di povertà: mancanza di un futuro, di una terra, di una patria. Allora, se il Signore venisse oggi, non sceglierebbe una bella chiesa o una comoda casa magari con il presepio fatto in opposizione agli altri affermandosi cristiani, ma sceglierebbe di farsi accogliere da qualcuno degli immigrati che in questi giorni vengono gettati sulle strade.

Dico questo non per schierarmi politicamente, ma per essere coerenti e consequenziali con quello che le Scritture ci narrano dell’agire di Dio: Egli si schiera sempre e solo a favore degli uomini oppressi e rifiutati, e questa è una costante che va dalla prima all’ultima pagina della Bibbia, e perciò diventa, per il credente, motivo di fede vincolante.

Mi colpisce il comportamento di Maria, perché non rimane a contemplare ciò che l’azione di Dio compie in lei dopo le parole dell’angelo all’annunciazione, ma esce, parte, fa strada, va a incontrare persone. Non si rinchiude in sé, ma si mette in cerca degli altri. La fede non può essere solo accoglienza della Grazia: deve diventare anche apertura e condivisione di essa con le altre persone. Perciò è significativo sottolineare che Maria ha passato quasi metà della sua gravidanza, per sua scelta, lontano da casa, affrontando due volte un lungo, faticoso e pericoloso viaggio. Sembra mancanza di alcun riguardo e cura verso quel bambino che portava in grembo e che era il Figlio di Dio: perché esporlo a tali disagi e rischi!?

Elisabetta non aveva bisogno di aiuti così lontani e fragili, perché si parla di vicini e parenti che sono presenti alla nascita di Giovanni (cfr. Lc 1,58) e che quindi lo saranno stati anche prima. Né credo che Maria vada semplicemente a verificare il segno della gravidanza di Elisabetta annunciatole dall’angelo, vista la sua disponibilità a credere alle parole e all’agire di Dio. È proprio il desiderio di non trattenere per sé quel Dono che la spinge a uscire, ad andare a condividerlo con gli altri, così da far sì che anche gli altri siano mossi da quella Presenza che Maria porta. Dunque contempliamo una donna fragile, per la sua condizione di gravidanza, e, insieme, forte, per la coscienza che quello che avveniva in lei non era solo per lei, ma, proprio perché si sapeva povera, per tutti. Ma Maria va a visitare un’altra carne di donna visitata dalla stessa Grazia. Ognuna è segno per l’altra. Una sterile e una vergine hanno concepito un figlio. L’iconografia le rappresenta abbracciate nel loro incontrarsi: sono accomunate e unite dal «nulla è impossibile a Dio», detto dall’angelo a Maria annunciandole proprio la gravidanza di Elisabetta.

Credo che anche noi dobbiamo attaccarci con tutte le forze a quella grande affermazione della Parola: «Nulla è impossibile a Dio». Infatti sperimentiamo sempre più le vie impossibili dell’uomo e del suo oggi: forse mai come ora la condizione dell’uomo è stata fragile. Per millenni la storia è stata fatta di localismi, ma aperti. Oggi, invece, viviamo la globalità, ma nella chiusura, nell’innalzamento di muri, nell’esclusione dell’altro perché diverso di razza o perché povero. In questa maniera la storia va spegnendosi, ma verso l’implosione: finirà perché sarà l’uomo a finire, asfissiato dal suo egoismo. Ma noi speriamo Dio, la sua Grazia, la sua fecondità, che genera umanità al Figlio di Dio, che genera, così, una nuova umanità.

L’incontro fra Maria ed Elisabetta provoca l’incontro, fra loro, anche dei due bambini che portano nel grembo: saranno Giovanni Battista e Gesù. È bellissimo che i gesti umanissimi della visita, dell’accoglienza, del saluto, dello scambio provochino l’incontro fra i due attori del compimento della storia di salvezza: Giovanni che l’annuncia e Gesù che lo realizza. La salvezza è fatta di gesti umani: una parola detta da Maria, l’abbraccio fra le due donne, fino alla povera carne crocifissa di Cristo e alla nuova vita che essa riceve nella risurrezione.

Questo ci deve portare a credere nella forza dei gesti umani positivi: essi esprimono e mediano la salvezza. Significa che essi valgono molto più di quello che direttamente procurano. Una parola bella, un sorriso, un gesto di attenzione sono gli strumenti umani di cui Dio si impossessa per far provare la bellezza della vita in Lui, anche se in maniera ancora limitata e provvisoria. Come cristiani dovremmo essere molto di più distributori di gesti di umanità invece che logorroici predicatori di un sapere o di una morale.

Quando Giovanni e Gesù si sono poi incontrati da adulti, quando si sono guardati negli occhi, credo che siano tornati a rivivere la gioia di quel primo incontro, nel grembo delle rispettive madri, ricordando l’esperienza di aver sentito vibrare quei due corpi di donna nel loro incontrarsi, nello stupore di scoprire come Dio ha dato pienezza al loro essere donne.

A cura di Alberto Vianello – Monastero di Marango

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