Commento al Vangelo di domenica 22 Dicembre 2019 – Comunità di Pulsano

Lectio Divina di domenica 22 Dicembre 2019 a cura della Comunità monastica di Pulsano.

Domenica «dell’annuncio a Giuseppe»

Dio chiama anche Giuseppe a collaborare, nell’incarnazione del Figlio, col compito di inserire legalmente Gesù nella famiglia di Davide, secondo la promessa di Natan (2Sam 7,12). L’incarnazione avviene con la collaborazione degli uomini. Al contrario del re Acaz, Giuseppe accetta il segno del bambino nato dalla vergine, a dispetto di ogni paura e di ogni scrupolo. E noi, in che modo collaboreremo alla nascita di Cristo nel mondo di oggi?

La Chiesa, attraverso la predicazione e la liturgia, continua a ripetere all’uomo che la salvezza vera e definitiva è un dono che Dio stesso ci porta venendo fra noi. Al centro della liturgia di questa domenica sta la rivelazione di questo segreto, di questo mistero tenuto nascosto per secoli: lo svelamento, cioè, del piano salvifico che Dio ha preparato ed attuato per nostro amore.

La Chiesa, inoltre, nella sua preghiera sente anche il bisogno di chiedere la grazia di conoscere in modo vitale il mistero dell’incarnazione. È sempre stato arduo per la mente umana comprendere la realtà di Gesù, di quest’uomo «persona divina». Ancora più arduo è comprendere l’incarnazione del Figlio di Dio nel suo orientamento, voluto dal piano divino, verso il sacrificio pasquale. Soltanto la fede può farci luce su questo mistero.

La venuta nel mondo di Gesù-messia fa dell’umanità che lo accoglie nella fede un popolo-messianico, cioè un popolo che ha la missione di manifestare con tutto il suo modo di vivere il senso della salvezza dell’uomo attuata da Gesù, Verbo incarnato, nell’obbedienza a Dio fino alla morte di croce. Ciò significa affermare che la vera salvezza è il risultato dell’azione congiunta e indissolubile di Dio che ne ha l’iniziativa, e dell’uomo che vi collabora; significa ancora affermare che il terreno concreto della nostra testimonianza cristiana e messianica è quello dell’amore a tutti i fratelli senza alcuna discriminazione. Sono capaci di questa testimonianza soltanto coloro che rinunciano totalmente a sé per essere disponibili a Cristo, servito ed amato nell’uomo. Questo è il mistero dell’incarnazione vissuto nella concretezza della vita.

La comunità dei credenti, raccolta in assemblea per celebrare il memoriale della morte e della risurrezione del Signore Gesù, chiede al Padre il dono natalizio della conoscenza vitale dell’incarnazione di Cristo. È una conoscenza che passa attraverso l’esperienza della croce, ma questo passaggio obbligato conduce alla gloria della risurrezione (I colletta).

Si chiude oggi il breve ciclo delle Domeniche d’Avvento ma anche questa Domenica come ogni altra Domenica è il «Giorno del Signore Risorto», contemplato oggi come Colui che venne nella carne. La pienezza della Redenzione, la Resurrezione del Crocifisso con lo Spirito Santo, motiva ed esplicita 1’«inizio della Redenzione», come i Padri chiamavano il complesso che dall’Avvento al Natale all’Epifania al Battesimo e a Cana è la premessa dell’adempimento finale.

La I preghiera di colletta ci fa pregare proprio in questa linea:

 

Infondi nel nostro spirito la tua grazia, o Padre,

tu, che nell’annunzio dell’angelo

ci hai rivelato l’incarnazione del tuo Figlio,

per la sua passione e la sua croce

guidaci alla gloria della risurrezione.

Per il nostro Signore Gesù Cristo…

La divina liturgia inizia con il canto dell’antifona d’ingresso tratta da Is 45,8:

Stillate dall’alto, o cieli, la vostra rugiada
e dalle nubi scenda a noi il Giusto;
si apra la terra e germogli il Salvatore.

L’Antifona d’ingresso è tratta da Is 45,8 dove tutto il cap. 45 nel contesto della composizione che va sotto il nome di «Secondo Isaia» (Is 40-55), descrive con toni di violenta polemica lo scontro del Signore Unico con la rovinosa idololatria del tempo (sec. 6° a. C). Il Signore è l’Unico Sovrano universale, il Creatore onnipotente e Onnireggente. Sotto la sua sovranità benefica sta soggetto tutto quello che Egli chiamò all’esistenza, cosmo, popoli, storia, non il solo Israele. Tutto avviene per gli uomini secondo il suo Disegno sapienziale imperscrutabile. Così Egli affida la sua missione salvifica, finalizzata anzitutto al suo popolo adesso in esilio, ma poi a tutte le nazioni, nelle mani di un pagano della steppa, di tribù barbare, Ciro re dei Persiani, il futuro rovesciatore della potenza immane di Babilonia, che era l’oppressione del mondo. La onnipresente Potenza di Dio dirige la storia degli uomini e solo Lui può ordinare sovranamente la nuova creazione: nei cieli, che dalle loro nubi «distillino la Giustizia» misericordiosa e salvifica, e sulla terra, così che questa produca «la Salvezza». Nella teologia del deutero-isaia si tratta di due personificazioni per indicare «Colui che viene» subito perché è il Promesso, l’Inviato unico del Signore «che crea tutte le realtà». Da adesso il Disegno divino sta per manifestarsi e sta per operare quanto ha decretato immutabilmente.

«Colui che viene» tuttavia venne dal Cielo, da Dio, come «nostra Giustizia». E poiché il Cielo si unì con la terra, venne anche dalla «Terra vergine», Maria, dalla cui inviolata verginità, dono divino, il Signore stesso si plasmò la carne del Figlio, come in antico aveva plasmato dalla terra vergine, infondendo all’argilla il suo Soffio divino (Gen 2,7). Questo linguaggio inaudito, che purtroppo come tanti tesori della Tradizione si perde nella sciatteria spirituale generale, è significante in modo straordinario. È una sintesi mirabile di «teologia della storia», sulla rigorosa base della Bibbia, che i Padri (da S. Ireneo in poi) hanno splendidamente esposto e codificato. Esso va recuperato, poiché è vero e dice fatti veri.

I lettura: Is 7,10-14

La profezia dell’Immanuel citata in Mt 1,23 rimanda alla spiegazione più ampia, portata adesso dal testo isaiano. È certo una delle profezie più celebri dell’A. Т., oltre che di Isaia, e in specie del «Primo Isaia» (Is 1-39). Qui il suo contesto storico immediato è il «libretto dell’Immanuel», che si identifica in Is 6,1-12,6, isolandone anche gli oracoli, e giungendo anche ad una datazione presuntiva abbastanza attendibile:

I) a. 741/740 a.C, anno della vocazione d’Isaia (6,1-13);

II) a. 735 a.C, a Gerusalemme, al tempo del re Acaz e del figlio Ezechia, guerra siro-efraimita (7,1 – 10,4);

III) a. 701 a. С, a Gerusalemme, al tempo del re Ezechia, Sennacherib irrompe contro Gerusalemme (10,5 – 12,6).

A sua volta, il cap. 7, che presenta numerose difficoltà, va compreso così. Si prospetta brutalmente la calamità d’una guerra rovinosa. Poiché Acaz re di Giuda non aderisce alla coalizione antiassira di Pekach re d’Israele e di Resin re arameo di Damasco (vv. 1-2), questi due re scatenano le ostilità contro di lui (1 Re 16,5). È la guerra siro-efraimita, ossia degli Aramei (Sin) di Damasco, e degli Efraimiti, nome che copre le 10 tribù del regno d’Israele. Il pericolo mortale è che si estingua la dinastia di David, «la lucerna» che Dio si promise come stabile e perenne davanti a Lui (2 Sam 21,17; 1 Re 11 36; 15,4; 2 Re 8,19; 2 Cron 21,7; Sal 131,17). Di fatto, poco prima il Signore aveva preannunciato che avrebbe comunque mantenuto un “Resto”, il Seme santo, il Tronco di Iesse (6,13; anche 10,33 – 11,10, lettura A. T. della Domenica II di avvento A) dopo la radicale devastazione e purificazione del popolo, permesse dal sovrano Disegno. In tale situazione, il Signore invia una serie di oracoli. Tali testi sono distinguibili in 3 serie, sono destinati al re Acaz e sono portati dalla parola del profeta Isaia:

I) Is 7,1-9: «non temete!» (v. 4); «non avverrà!» (v. 7), «se non credete non sussisterete!» (v 9). È l’incoraggiamento contro il pericolo imminente;

II) vv. 10-16: il «Segno dell’Immanuel», rifiutato da Acaz, ma dato lo stesso dal Signore; in conseguenza segue

III) 7,17-25: oracolo di minaccia: Egitto ed Assiria saranno puniti, e Giuda sarà desolato.

Questi oracoli tendono a convincere Acaz affinchè confidi solo nel Signore, il Dio dei suoi Padri e dell’alleanza fedele. Egli non deve chiamare in aiuto il re assiro, che è Tiglatpileser III; Acaz invece chiede l’intervento di questo, con un successo almeno parziale per la sua politica militare (2 Re 16,7-9).

Ma i re umani non salvano (Sal 145,3: «Non confidate nei potenti, in un uomo che non può salvare», eterno ritornello della teologia biblica). Salva solo il Signore, anche se per vie misteriose e incredibili. Solo «credere (‘àman)» in Lui sarà «sussistere (‘àman)», altro celebre versetto (Is 7,9: «Ma se non crederete, non resterete saldi» con lo splendido gioco del verbo ‘àman, stare saldo, credere, restare saldo). Non credere invece è la catastrofe già in sé. E questa sarà annunciata come inevitabile (7,17-25).

I primi versetti del cap. 7 vanno letti così:

I) vv. 1-3: alla notizia della coalizione nemica, Isaia con il figlio, che si chiama Se’ar-jasùb, «un Resto si convertirà», nome simbolico, si reca dal re Acaz;

II) v. 4: il Signore mediante il profeta rassicura Acaz con la metafora dei due re nemici, che sono due tizzoni vicini a estinguersi;

III) vv. 5-9: e questo per la loro violenza sterminatrice contro Giuda, caro al Signore. Essi vogliono infatti sostituire il legittimo re di Giuda, della dinastia di David, con un principe forse arameo (Bar-Tabeel, v. 7), ma la Parola di Dio annuncia: «Non avverrà!» (v. 9); i loro confini resteranno come sono e Damasco perirà tra 65 anni (v. 8) – ma occorre la fede! (v. 9).

In tale convulso contesto storico e religioso si inserisce adesso, imprevisto, il principale capo profetico del cap. 7: l’Immanuel.

II Signore si rivolge ancora con parola solenne al re del suo popolo; l’esordio sembra che faccia parlare direttamente il Signore (v. 10). L’imperativo rivolto al re è di chiedere dal Signore un “segno”, in nome dell’alleanza («Signore Dio tuo»), sempre fedele da parte di Dio. Ora, i segni divini sono efficaci, e donati in abbondanza (1 Sam 2,34; 2 Re 19,29; 20,8-9), anche alla Nascita di Cristo (Lc 2,12). Se Acaz chiederà all’Onnipotenza divina, questa potrà operare il “segno” prodigioso comunque, dagli abissi della terra e del mare, o dall’alto dei cieli; il Signore è libero di operare, per Lui tutto è facile, come creare con la sola Parola potente (v. 11).

Il re Acaz tuttavia si rifiuta, con un pretesto evidente: «Non voglio tentare il Signore» (Sal 77,18; Mt 4,7; At 5,6; 15,10). Così rivela il suo animo, invaso da scetticismo religioso e confidante ormai solo nell’intervento militare dell’Assiria. Egli maschera il rifiuto con l’ipocrisia religiosa, sotto il pretesto che non vuole offendere il Signore. Ma è proprio il contrario, la mancanza di fede è l’offesa, come il Profeta dirà al v. 13. Così il re tronca recisamente ogni rapporto con il suo Signore (v. 12). Il Profeta allora interviene prontamente e adesso si rivolge alla casa di David, ossia a tutta la famiglia reale e a tutto il popolo. Il profeta chiama la casa di David in giudizio, con la formula: “Ascoltate!”, che significa: Poi, non dite che non sapevate! Segue un preambolo: la casa di David stanca gli uomini con il suo comportamento contorto, ma adesso è giunta a stancare anche il Signore dato che Acaz Lo rifiuta anche a nome della sua casa (v. 13; anche 43,24). È il colmo!

Ma il Signore non si rassegna davanti a tali colpe. Egli dà egualmente un “segno” messianico (37,30; 38,7-8). E vuole darlo di persona, per suscitare di nuovo la fede, nonostante il cinismo e il rifiuto del suo re. Inoltre, il tono solenne annuncia che si tratta di un segno prodigioso (v. 14a). L’esordio dell’annuncio è solenne: «Ecco la Vergine», e nell’«ecco» sta anzitutto il miracolo (Mt 1,23; Lc 1,31.34). La Vergine concepirà in modo prodigioso e partorirà in modo verginale il Figlio, il Messia, l’Immanuel (anche 8,8.10), il Figlio mediante cui «Con noi [sta] Dio», il Figlio che è «Con noi Dio» (v. 14b). È un segno divino, poiché Dio vuole stare con gli uomini. Si vedrà poi in 8,8-10, in cui il Signore rivendica Giuda come suo e vuole proteggerlo; e in 9,6, in cui il Figlio porta i caratteri e i titoli divini e regali.

Riassumendo anche quanto detto sopra, occorre ancora insistere sul termine “Vergine”. Si sa che qui l’ebraico porta ha- ‘almah, ragazza da marito, e non betûlah, vergine. Ma il rimando illuminante è a testi analoghi, come Gen 24,43; Es 2,8; 1 Cron 15,20; Sal 45,1; 67,26; Pr 30,19; Ct 1,3; 6,8. Gli Ebrei d’Alessandria nel sec. 3°-2° a.C. hanno tradotto, interpretando rettamente, con parthénos, vergine, e facendo così progredire l’intelligenza del passo. Infatti:

  • i due termini ‘almah e betûlah in pratica sono sinonimi; in Israele, le ‘almôt prima del matrimonio erano betûlôt; in caso contrario, vi erano pene spietate (Dt 22,20-21, vedi sopra); in genere la tradizione era religiosamente conservata, fatto straordinario tra le culture pagane antiche, dai costumi religiosi dissoluti e sfrenati in tutta la popolazione;
  • i Settanta causano un progresso nell’intelligenza del Testo sacro. Infatti essi hanno bene inteso che qui il miracolo alluso dal Signore è il privilegio della verginità, per la Madre dell’Immanuel; in tal senso, il significato di betûlah non può escludere la maternità verginale;
  • la ‘almah, ragazza da marito, qui non può essere per definizione la moglie di Acaz, né di Isaia stesso, che avevano già figli; l’interpretazione contraria, che trova ancora sostenitori, va contro il testo;
  • inoltre la ‘almah partorirà «un Figlio», che non è una comunità, secondo come opina qualche autore, ma una persona, come il testo chiaramente afferma;
  • proprio tutto il complesso di questi fatti fa sì che tali realtà siano la ‘ôt, il sêméion, il “segno” miracoloso che il Signore opera e dona alla casa di David.

È un segno messianico, a cui nella tipica visuale e lettura dei Profeti manca la precisione e la precisazione; è la «mancanza di prospettiva», come parlano gli autori moderni. Tuttavia va precisato qui, che messianico non è ciò che un esegeta cerca nel testo letterale che ha davanti; non vi sono argomenti interni chiari per dire che questo testo è messianico e quello no. È invece messianico quanto, dopo la lunga esperienza millenaria d’Israele che rileggeva quotidianamente le Scritture e ne comprendeva sempre di più il senso, al tempo di Cristo e degli Apostoli, proprio Israele riteneva che fosse messianico. Perché solo Israele attendeva il compimento degli oracoli divini. I LXX trovarono betulah, ma anche se avessero trovato ‘almah la tradussero comunque con parthénos, e questo fatto comunque si colloca in questa prospettiva messianica. Fatto tanto più inoppugnabile, in quanto insospettabile.

Così la rilettura e l’applicazione che Mt 1,18-25 fa di Is 7,14 sono autentiche e autorevoli, sono legittime, sono basate saldamente sul Testo sacro. Le ipotesi contrarie sono frutto di esegesi ipercritica, che parte da presupposti agnostici se non atei; esse spesso sono ingegnose, ma debbono ricorrere a mutazioni del testo, o a interpretazioni tendenziose e aprioristiche. Ma questo è fuori della nostra attenzione.

 

Il Salmo: 23,l-2.3-4ab.5-6, Lit

Il Versetto responsorio, i vv. 7c e 10b, «entrerà il Signore – Lui è il Re della gloria» (versetti adattati: Ecco, viene il Signore, re della gloria), orienta il senso odierno del Salmo. Il Signore viene ai suoi come l’Immanuel annunciato a Giuseppe. Ma il primo che adempie come giusto davanti al Signore tutti i precetti della Legge è proprio Giuseppe, che ha «cercato il Volto» nella santità e nella carità, e che è stato benedetto in eterno da Dio.

Con i Sal 14 e 133, il Sal 23 forma tutto il genere letterario delle «Liturgie», Salmi che contemplano l’immediato ingresso al Signore per adorarlo e stare con Lui. In specie nei Sal 14 e 23 si ha in forma significante una duplice realtà: accedere al Signore, dimorare con Lui, godere delle sue delizie (qui i vv. 7-10, omessi dal canto di oggi), e le condizioni di tale accedere, essenziali e severe, non evitabili, le quali consistono nell’adempimento dei precetti verso il prossimo. Risulta chiaro che per accedere alla Presenza del Signore occorre prima avere adempiuto tutta la Legge del Signore; gli adoratori del vitello d’oro ne sono esclusi, e anzi sono sterminati dal popolo (Es 32).

Però esiste un’accentuazione chiara, non sempre rilevata. La caratteristica del Decalogo è di essere costituito da 2 tavole, la prima con 3 precetti relativi al Signore (qui 3 è numero simbolico di pienezza), e la seconda con 7 precetti relativi al prossimo (anche 7 è numero simbolico di pienezza). Ora, per avere diritto di entrare alla presenza del Signore, occorre esplicitamente avere adempiuto i 7 precetti verso il prossimo; i primi 3 sono spesso passati sotto silenzio. Il Sal 23 non fa eccezione a questo.

Il Sal 23 ha quindi paralleli diretti con i Sal 14 e 133. Ma ha molti paralleli contenutistici in Is 33,14-16, che potrebbe essere uno dei motivi ispiratori; poi con i Sal 5,1-13; 7,4-6; 16,1-5; 25,1-6; 100.

Il canto di oggi è motivato e indirizzato per intero dal versetto responsorio, vv. 7c e 10b, adattati. Si pone in rilievo il duplice tema, che il Signore entrerà in mezzo al popolo suo che Lo attende, e che Egli solo è il Re della Gloria.

Infatti è:

I) il Dio Creatore, (vv. 1-2);

II) il Signore unico degno di culto (v. 3);

III) il «Signore delle Seba’ôt», in quanto tale unico Re della Gloria (v. 10).

Il v. 1 esordisce con una proclamazione solenne, quasi innica, riaffermando che il Signore è Sovrano della terra e di quanto la popola. E questo si estende, dal concetto generale della sovranità divina, su «cielo e terra», insomma su tutto l’esistente creato (Dt 10,14), nella storia (Es 9,29), nell’alleanza (Es 19,5), e nel sociale (Lev 25,23, dominio sulla terra; v. 42, dominio sugli uomini; testi del Giubileo). La motivazione è chiara: solo Lui è l’augusto e onnipotente Creatore, che a quanto produce dà anche stabilità perenne a servizio degli uomini (Gen 1,9-10; Sal 17,16). Le espressioni qui usate risentono della concezione cosmologica dell’Oriente, che concepiva la terra come un’immensa piattaforma galleggiante sulle acque dell’abisso, il mare, e sulle acque sotterranee feconde, le sorgenti e i fiumi (v. 2).

Al centro della sua creazione, tuttavia, il Signore ha posto per sempre il suo Monte santo, Sion, dove ama dimorare in mezzo al suo popolo, e attraverso questo anche in mezzo a tutti gli uomini sue creature.

Ora, l’accesso sacro a questo Monte è oggetto di una domanda e di una risposta. Il fedele che sta vicino al santuario chiede al sacerdote chi possa «salire al Monte santo»; il verbo «salire» è relativo al fatto che Gerusalemme sta molto in alto, e recarsi in essa richiede di superare una forte pendenza; ma il verbo stesso è diventato tecnico per indicare la processione sacra, la quale doveva svolgersi per tutti i maschi d’Israele almeno «tre volte» l’anno (Es 23,14-19). Anche i popoli che alla fine dei tempi si raduneranno e converranno al Monte di Dio, debbono salire (Is 26,2; anche 2,3, lettura della Domenica I d’avvento A). La seconda parte della domanda è chi, una volta salito, possa stare, risiedere e adorare degnamente nel Luogo della santità divina (v. 3). Ivi infatti i fedeli danno culto degno al Signore se le loro condizioni di purità sono assolte; sono ammessi alla proclamazione della Parola, e dell’eventuale “oracolo” di risposta profetica che il Signore vorrà concedere; e poi possono partecipare alle delizie del convito sacrificale, e godere della beatitudine della Presenza divina.

La risposta (v. 4) è probabilmente di un sacerdote, che sorveglia le condizioni di ammissione al Monte santo di ciascuno e dei gruppi che vi si recano. Non si tratta del capriccio di un sorvegliante della morale pubblica e privata. Si tratta di un preciso adempimento, codificato dalla Legge santa di Dio, in particolare, come si è anticipato, dalla II tavola del Decalogo, quella dei doveri verso il prossimo. E di fatto si trovano adesso di seguito:

  • v. 4a: innocente di mani: comandamenti 5° e 7°;
  • v. 4a: puro di cuore: comandamenti 6°, 9° 10°;
  • v. 4b: l’anima non volta alla vanità: comandamento 2°;
  • v. 4c: non giurare per inganno: comandamento 8°.

Come si vede, mancano i comandamenti 1° e 3°, della I tavola, la base di ogni forma di fede verso il Signore dell’alleanza fedele. E il 4° comandamento. Occorrono però spiegazioni ulteriori.

Perciò la prima risposta sacerdotale (v. 4a, prima parte) esige l’innocenza delle mani, anzitutto non portare danno alla vita del prossimo, poi ai beni del prossimo facilmente trafugabili. In tal senso, innocente era già Samuele (1 Sam 12,1-5); e Giobbe (Giob 22,30); ma anche Paolo rivendica tale situazione di nettezza morale (At 20,18a-20, l’esordio del discorso d’addio a Mileto). L’integrità del prossimo nella vita e nei beni è del resto interesse di tutti, del bene comune. La seconda risposta (v. 4a, seconda parte) esige la purezza del cuore (Sal 72,1; Mt 5,8, testo classico; 2 Tim 2,22; Ebr 12,14). Con quest’espressione, che riguarda i comandamenti 6°, 9°, 10°, per sé si copre un grande spazio della vita morale e spirituale. Il «cuore impuro» biblicamente significa quello che si è fatto schermare da un diaframma malefico, che non vede più con trasparenza i rapporti con se stesso e con il prossimo, sia riguardo alla ordinata vita familiare e sessuale, sia riguardo all’ordinato possesso dei beni materiali. Il primo caso ha dato nome all'”impurità” per antonomasia, radicalizzando e restringendo troppo. Gli occhi impuri sono anche quelli che guardano con cupidigia, con concupiscenza il successo negli affari, il possesso smodato di beni. Sono tutti impedimenti impuri a vedere Dio (Mt 5,8!), che è la realtà ultima che conferisce la forma alla vita autentica di ogni fedele.

Il v. 4b alla lettera dice: «chi non prese il suo animo per volgerlo alla vanità», ossia all’idololatria, dove “vanità” è “idolo”. Quanto all’8° comandamento, la Scrittura è letteralmente ricolma di testi che respingono e proibiscono la menzogna come fatto repugnante alla coscienza, e davanti a Dio, in quanto scinde l’anima dell’uomo e la bolla come inautentica, falsa, sempre in danno di qualcuno, anzitutto di se stessi.

Adesso viene la sanzione positiva. Chi si comporta come nella tabella tracciata sopra, riceverà la divina benedizione (Pr 10,6). Da chi? Dove? Dal sacerdote nel santuario stesso. Ne informa il Sal 133, che per genere letterario è una «Liturgia» (vedi sopra). Qui i visitatori degni del santuario, al momento di ripartire per le loro case chiedono ai «servi del Signore che stanno in servizio nella Casa del Signore» (133,1), anzitutto di benedire il Signore, per rendergli grazie del dono concesso della visita a Lui; e questo, di giorno e di notte, perennemente (133,2). Allora il sacerdote può benedire i pellegrini: «Benedica te il Signore, da Sion» (133,3a). Come va ricordato senza temere di annoiare, biblicamente «la benedizione torna sempre sul benedicente e unisce a lui il benedetto», che essa parta dal sacerdote verso il Signore, o dal medesimo verso i fedeli; il sacerdote è mediatore. Il Signore a sua volta benedice mediante il sacerdote. Perciò i fedeli degni dal sacerdote saranno benedetti nel Nome del Signore, con la «benedizione sacerdotale» di Num 6,24-26; questa contiene 15 parole; simbolicamente i Salmi considerati come «canti delle ascensioni», sono 15 come quella benedizione (Sal 119-133). Le 15 parole benedicenti il popolo sono la Bontà e l’Amore divino, ricevuti da parte di Dio come giustificazione, giudizio, intervento di bontà soccorrevole. Ma da Dio che è la Salvezza del giustificato e giusto, astretto dall’alleanza (v. 5).

L’affermazione finale è splendida. Chi si comporta secondo la Legge è la «generazione dei cercanti Lui, il Volto del Dio di Giacobbe». Generazione che il Signore fa nascere di continuo (Sal 13,6; Rom 2,28-29). «Cercare il Volto», come si vede da Es 33,7, è tema frequente nei Salmi (26,8; 104,4), e ripetuto con forza dal Deuteronomio (4,29). È però anche un tema che ricorre in tutto l’A. T., innumerevoli volte, in diverse forme: è il quaerere Deum, che è compendiato nel N. T. da testi come Lc 11,10, e forma il tessuto di tanta riflessione dei Padri e dei grandi spirituali nei secoli. «Cercare il Volto dei Dio di Giacobbe – Israele», porta la precisione: il Dio dell’alleanza con Israele (v. 6).

(Il commento alla I lettura e al salmo responsoriale sono interamente del prof. T. Federici: “Cristo Signore Risorto Amato e Celebrato” commento al Lezionario Domenicale cicli A,B,C, Eparchia Piana degli Albanesi, Palermo 2001).

Il versetto del canto dell’alleluia dell’evangelo è il centro della pericope evangelica di oggi come abbiamo compreso nella I lettura, Is 7,10-14.

È fondamentale tenere presente che la pericope naturale, da leggere perciò senza frammentazione, è Mt 1,1-25, anche se il Lezionario la dispone così: i vv. 18-24 per questa Domenica IV d’Avvento; i vv. 1-17 per la Vigilia del Natale. È indispensabile se non possiamo fare il commento completo sottolineare almeno tutta la singolarità ed invitare quanti lo desiderano ad un approfondimento personale. Questo per due ottimi motivi:

  1. questa pericope si comprende solo nella sua stretta unità;
  2. poi nelle Domeniche e feste non è proclamata più.

Il testo è l’inizio inimmaginabilmente augusto e solenne di un «evangelo», quello di Matteo, grandioso per sua natura. In Oriente il brano di questa IV Dom. di Avvento, la narrazione della Nascita del Signore secondo Matteo, è giustamente chiamato «l’Annunciazione a Giuseppe». L’esame sinottico lo pone in parallelo e in concomitanza necessaria con quella classica, a Maria Vergine (Lc 1,26-38), con la quale forma contesto nelle evidenti diversità e nelle più che evidenti concordanze, per un’unica lettura non mescolata e confusa. Due narrazioni del tutto diverse per protagonisti, tempo, luogo e destinatari, e modo, in mirabile «discordia concordante»:

  1. il Centro è Gesù Cristo Signore;
  2. L’Operante è lo Spirito Santo;
  3. l’oggetto è la Vergine;
  4. l’Annunciante è l’Angelo;
  5. con-protagonista subordinato è l’umile e silenzioso Giuseppe;
  6. l’Evento è la nascita verginale di Gesù Cristo Salvatore, l’Immanuel.

Il versetto d’esordio della pericope naturale (1,1), solenne e maestoso, contiene la chiave d’interpretazione dell’intera pericope, anzi, a rigore, dell’intero evangelo di Matteo. Il termine greco «Gènesis», ripetuto strategicamente al v. 18, traduce l’ebraico tóledah (plur. tòledót, cfr. ad es. Gen 2,4a; 5,1 e poi 5,2-32), racchiude diversi significati, tutti sacri, che la teologia simbolica presenta da accettare tutti insieme, senza opposizione né esclusione, ma in ricca e decisiva complementarità. Tali significati, almeno i maggiori, sono:

  1. genesi, in quanto «creazione» (cfr il libro della Genesi, che apre l’AT);
  2. genealogia;
  3. generazione;
  4. origine;
  5. nascita;
  6. storia (in ebraico moderno, di fatto, «storia» si dice tòledót).

L’evangelo di Matteo si presenta come il «Libro della genesi, della creazione, della generazione, dell’origine, della nascita, della storia di Gesù Cristo». Il nome composto sarà poi spiegato ai vv. 21 e 25 in specie, ma non solo da essi. Lasciando ad altra occasione l’esame dei vv. 1-17 passiamo ad esaminare la pericope di questa IV Dom. di Avvento.

Esaminiamo il brano

v. 18 Con il questo versetto Matteo si dispone, come abbiamo detto, a narrare il culmine della génesis, la creazione, la generazione, la genealogia, l’origine, la nascita, la storia «di Gesù Cristo», con una specie di titolo riassuntivo.

La maggior parte dei manoscritti ha «Gesù Cristo»; altri hanno «il Messia». La presenza dell’articolo determinativo («il») e l’enfasi data dalla genealogia a Gesù come Figlio di Davide (= Messia) fa pensare che l’originale avesse «il Messia». Nel versetto che precede il nostro testo e che segna la conclusione della genealogia di Gesù, ci viene offerta la chiave di lettura teologica del brano evangelico di questa domenica: «Giacobbe generò Giuseppe, lo sposo di Maria, dalla quale è nato Gesù, chiamato Cristo» (Mt 1,16).

Il testo greco non dice dalla quale è nato Gesù, ma dalla quale è stato generato Gesù. Una differenza non da poco, si tratta infatti della forma verbale detta passivo divino, un artifìcio letterario impiegato spesso nella Bibbia per attribuire un’azione a Dio, senza citarlo per nome.

Che cosa intendeva attestare l’evangelista con un’affermazione così solenne? Per comprenderlo dobbiamo rifarci alla mentalità e alla cultura del mondo semitico dove non si sapeva che, nella nascita di un bambino, concorrevano il papà e la mamma. Si pensava che solo il papà generasse e la mamma si limitasse a custodire, far crescere in grembo e poi dare alla luce il figlio che era tutto del padre. Nella genealogia – che è la prima pagina dell’evangelo di Matteo – per trentanove volte ricorre il verbo generare, sempre attribuito a maschi e impiegato all’attivo: «Abramo generò Isacco, Isacco generò Giacobbe, Giacobbe generò Giuda e i suoi fratelli…». Giunto a Giuseppe l’evangelista interrompe la cadenza e introduce il passivo divino. Giuseppe non genera, Giuseppe è “lo sposo di Maria, dalla quale è stato generato Gesù, chiamato il Cristo”. Gesù – chiarisce Matteo – non è stato generato da Giuseppe, ma da Dio.

È la confessione di fede nella divinità del figlio di Maria, professata nelle comunità cristiane del I secolo d.C. e trasmessaci dall’evangelista. È così importante questo passivo divino che Matteo lo riprende subito dopo – ed è l’inizio del brano evangelico di oggi: «Così fu generato Gesù Cristo». Poi, per coinvolgerci sempre più nella scoperta dell’identità del Figlio di Dio continua raccontando l’annunciazione a Giuseppe.

«sua madre Maria»: è già Madre; ha già ricevuto il Dono dall’alto, come sappiamo da Luca. Quale titolo più grande di questo?

«si era fidanzata»: nella legge giudaica, con il fidanzamento che avveniva davanti a due testimoni, il contratto matrimoniale si riteneva già stipulato, era un vincolo non più solvibile. Gli ebrei si sposavano molto giovani: secondo i rabbini, l’età conveniente per l’uomo era 16-18 anni, per le ragazze 12-13 anni. Normalmente erano i genitori a scegliere lo sposo. La legge vietava di sposare donne straniere “che potrebbero essere idolatre e spingere i figli sulla stessa via”. Ugualmente proibita era l’unione fra consanguinei, pena la morte. Durante il fidanzamento la legge riconosceva ai “promessi” gli stessi diritti e doveri degli sposi: la ragazza infedele, ad esempio, veniva punita come adultera; se il fidanzato moriva la ragazza era considerata vedova.

Il fidanzato offriva alla futura sposa il “mattan”, un dono che restava alla donna anche in caso di vedovanza. La dote data alla sposa era considerata disonorevole per il marito: toccava invece al futuro sposo dare al padre della ragazza il “mohar “, un dono in denaro o in natura fissato per contratto, che si firmava con la luna piena, considerata portafortuna. I matrimoni si celebravano solitamente in autunno, dopo i raccolti e la vendemmia: così c’era più tempo libero e anche maggiori disponibilità di provviste e di denaro. Non c’erano cerimonie religiose: solo al primo pellegrinaggio i novelli sposi offrivano un sacrificio.

Si accompagnavano lo sposo e la sposa in festoso corteo (cfr. Mt 25,1-13): quando lo sposo, salutati gli ospiti, raggiungeva la sposa, le amiche si ritiravano spegnendo le loro lampade.

Alle nozze si invitava normalmente l’intero villaggio. Le feste di nozze duravano da 3 giorni (per una donna risposata) fino a 14 giorni, durante i quali parenti e amici erano ospiti dei festeggiati. Forse per questo a Cana “venne a mancare il vino” (cfr. Gv 2,3).

Un figlio nato durante questo periodo era considerato senz’altro legittimo.

Attraverso il rito nuziale solenne (dopo un anno) sarebbe stato ratificato e sigillato anche civilmente, e gli sposi (alla lettera il lat. sponsus indica il fidanzato), potevano cominciare la vita comune. L’evangelo di Matteo con forza non minore di quello lucano (1,27.35) afferma l’esclusione di ogni funzione generatrice umana da parte di Giuseppe: «prima che essi convivessero», prima del rito matrimoniale e della vita in comune, come ripeterà poi al v. 25.

L’estraneità di Giuseppe alla concezione del Bambino è colta in estrema sintesi anche nelle immagini pittoriche; nel modello iconografico classico la separazione della figura di Giuseppe dalla coppia madre-bambino, esprime proprio la non-partecipazione al concepimento, che è opera esclusiva dello Spirito (v.20).

«per opera dello Spirito Santo»: Il greco non ha l’articolo determinativo. Inoltre, l’idea di «Spirito Santo» implicita nel testo è più affine alle idee dell’AT che alle dottrine dei concili della Chiesa. Il ruolo dello spirito di Dio nella creazione compare in Gen 1,1-2. L’espressione «per opera dello Spirito Santo» è la spiegazione che il narratore dà al lettore, per offrirgli un indizio per il mistero della gravidanza di Maria che Giuseppe deve affrontare.

v. 19 – «Giuseppe»: L’Evangelo dice poco di Giuseppe: è sposo di Maria, artigiano coscienzioso, “uomo giusto ” che rispetta la legge (cfr. Mt 1,18-19).

Davanti al mistero dell’incarnazione, si sente impari e vorrebbe ritirarsi in silenzio: ma in sogno apprende che tocca a lui “figlio di Davide” dare il nome e la legittima discendenza al Messia. E Giuseppe rimane al suo posto, vicino a Maria vergine e a Gesù Figlio di Dio. Di lui non sappiamo altro; proprio per questo sono fiorite molte antiche leggende. Secondo un apòcrifo, Giuseppe, già novantenne e vedovo con sei figli, fu scelto tra una rosa di pretendenti come sposo di Maria perché dal suo bastone, miracolosamente fiorito, si levò in volo una colomba. È una leggenda che ha ispirato spesso la pittura. Nella fuga in Egitto, Giuseppe avrebbe portato con Gesù e Maria anche quattro dei propri figli. Al ritorno a Nazaret Gesù apprese da lui il mestiere di fabbro o falegname tuttofare, operando miracoli “artigianali ” come allungare o accorciare tavole di legno e rifinire in un istante un letto per il re di Gerusalemme intorno al quale Giuseppe lavorava da anni.

Giuseppe è invocato come protettore dei morenti perché chiuse gli occhi – nell’evangelo scompare dopo il ritorno a Nazaret – assistito da Gesù e da Maria. La leggenda dice che aveva 111 anni e che la sua anima fu portata in cielo dagli arcangeli Michele e Gabriele. Sicuramente nessuna morte fu bella come la sua.

«uomo giusto»: Per un uomo «giusto» davanti a Dio ed alla sua Legge come Giuseppe è il dramma, il dubbio. Perché?

Il titolo dato a Giuseppe è uomo «giusto», le interpretazioni più morbide come «gentile» o «pio» non sono sufficienti[1]. La legge specifica che interessava Maria e Giuseppe si trova in Dt 22,23-27, e riguarda il caso in cui si riscontra che una donna promessa in sposa non è vergine. Questa doveva essere rimandata alla casa del padre e lapidata a morte dagli uomini della città per la disgrazia (disonore) che aveva gettato sulla casa paterna.

Non si tratta dunque della «giustizia» che, in ossequio alle prescrizioni della Legge, avrebbe spinto Giuseppe a rimandare la sua sposa, sospetta d’infedeltà; nè di quella giustizia che è bontà, la quale, per non nuocere a Maria, la cui colpevolezza non era provata nè provabile, gli avrebbe suggerito di rimandarla in segreto. Per la fidanzata in così grave peccato, oltre la pubblica ignominia, la pena prevista era la lapidazione (cfr. Dt 22,13-21; l’ignominia doveva essere tolta via dal popolo); era anche in potere di Giuseppe ripudiare il contratto matrimoniale firmando una dichiarazione alla presenza di testimoni e senza manifestare pubblicamente i motivi.

«e non voleva accusarla pubblicamente»: Il greco kai («e») deve avere valore avversativo («ma»). L’accusa pubblica («svergognare») allude alla gogna pubblica descritta in Dt 22,23-27. Giuseppe decise di risparmiare a Maria questo disonore pubblico limitandosi semplicemente a ricorrere al procedimento, meno pubblico, del divorzio: «Se essa dice: “Io sono impura”, con ciò scioglie il suo contratto matrimoniale e se ne va».

È da ritenere che egli fosse al corrente di quello che era avvenuto; non c’è ragione per cui Maria, sua fidanzata, non dovesse informarlo di tutto.

La giustizia dell’uomo pio, retto, timorato di Dio, consiste nell’essere «giusto» ciò che Dio vuole che egli sia. Giuseppe, messo di fronte alla nuova situazione provocata dall’intervento soprannaturale, pensa di non essere più al suo posto e ciò lo spinge a trarsi in disparte.

Il dubbio di Giuseppe non si riferiva quindi alla colpevolezza o all’innocenza di Maria, bensì al ruolo che egli personalmente doveva avere nell’avvenimento.

Un intervento soprannaturale glielo rivela: egli dovrà imporre il nome al bambino, cioè, dovrà essere il suo padre legale. Altri «giusti» sono i genitori di Giovanni (Lc 1,6), Simeone (Lc 2,25), Giuseppe di Arimatea (Lc 23,50), il centurione Cornelio (At 10,22), mentre altri si fanno passare per tali (Lc 16,15; Mt 23,28).

vv. 20-21 Siamo giunti all’annunciazione vera e propria.

Nella narrazione che si sviluppa in tre momenti (vv. 20-21, annuncio; vv. 22-23, citazione biblica; vv. 24-25, realizzazione ), si trovano gli elementi caratteristici del genere letterario degli annunci di cui è piena la Bibbia (cfr Gen 17-18; Es 3; Gdc 13,3ss; Lc 1,11ss); e cioè:

  1.  l’apparizione (v. 20a),
  2. il turbamento (v. 20b),
  3. il messaggio (vv. 20-21),
  4. l’obiezione (v. 20),
  5. il «segno»  e il nome (v. 21).

Nell’AT. «Angelo del Signore» è una metafora che intende rispettare la Persona del Signore, ponendo un intermediario tra Lui e gli uomini (cfr nascita di Isacco, Sansone, Giovanni, ecc. ). Un angelo serve da messaggero di Dio anche in Mt 2,13.19 nel contesto dei sogni. I sogni in Mt 2,13.22 sono veicoli di comunicazione divina. Così qui sono presentati due motivi che acquisteranno importanza nel capitolo seguente.

v. 20 – «in sogno»: La manifestazione è in sogno come avviene ai Patriarchi (cfr. Gen 20,6; 31,11), ai Profeti (cfr. Num 12,6), ai sapienti (cfr. Dan 2,19; Gb 33,14-15).

«non temere»: costatando il mistero di Maria, Giuseppe, si era persuaso di non poter assolutamente stare con lei e cerca di ritirarsi, senza danneggiare Maria.

L’angelo però lo esorta a non aver di nuovo timore e Giuseppe, davanti all’indicazione del cielo, non ha più alcuna esitazione.

«prendere con te»: In conseguenza del fidanzamento ufficiale Maria era già la moglie di Giuseppe. Ora si tratta di decidere se Giuseppe debba completare il procedimento matrimoniale portando a casa sua (o di suo padre) la sua sposa già incinta. Mentre il primo pensiero di Giuseppe era quello di sospendere il procedimento, il consiglio che riceve dall’angelo è di portarlo a compimento perché fa parte del piano di Dio.

v. 21 – «e tu lo chiamerai Gesù»: Secondo Lc 1,31 è Maria che riceve l’incarico di dare il nome a Gesù. Ma per Matteo il personaggio focale è Giuseppe, che perciò è incaricato di dare il nome a Gesù (vedi Mt 1,25). Il nome normalmente veniva dato al momento della circoncisione, l’ottavo giorno dopo la nascita (vedi Lc 1,59; 2,21). Il nome poteva essere dato da un genitore o dall’altro (vedi Gen 4,25-26).

«Gesù»: il nome Gesù deriva dalla forma greca del nome ebraico Yeshua o Yeshu, che sono la forma abbreviata di Joshua. Il significato originale di Joshua probabilmente era «Jwhw aiuta». Ma il nome è stato poi legato alla radice ebraica che significa «salvare» (ys’) ed è iterpretato come «Dio salva». L’interpretazione del nome di Gesù mette tale nome in relazione alla sua missione nell’ambito del disegno di Dio.

«Gesù» (= Salvatore) il nome ebraico era un nome di persona molto frequente fra gli Israeliti a partire da Giosuè, che fù la personalità più grande del A.T. a portare tale nome. Ad esso si aggiunge «Cristo», ebr. Mashiah, «l’Unto» del Signore, alla lettera greca Christòs, Unto.

vv. 22-23  La rivelazione angelica è integrata dall’evangelista con la conferma scritturistica desunta dalla celebre profezia di Isaia riguardante l’Emmanuele (Is 7,14 della la lett).

v. 23 – «la vergine»: l’originale ebr. ha il termine ‘almah, che per sé indica giovane donna, ragazza da marito, non necessariamente vergine; per indicare una vergine l’ebr. ha betulah.

Matteo cita dalla versione greca dei LXX che ha appunto parthénos, vergine; tale versione è fatta, nel sec. 3°-2° a.C, da Ebrei e non da cristiani, i quali rileggono le profezie alla luce del progresso della fede e della Rivelazione.

Il celebre oracolo pronunciato da Isaia: «Ecco, la vergine concepirà e partorirà un figlio che sarà chiamato Emmanuele, che significa Dio con noi» era l’annuncio della nascita di Ezechia, il figlio di Acaz. In lui erano state riposte tante speranze e difatti fu un re devoto e pio, ma non realizzò le promesse di felicità, di benessere e di pace descritte da Isaia. Non fu affatto “un prodigio di consigliere, un guerriero invincibile, un padre per sempre, un principe della pace…” (Is 9,5-6).

Sorprende la fermezza di un popolo che, anche dopo la scomparsa della dinastia davidica, anche dopo la distruzione di Gerusalemme e la deportazione a Babilonia, ha continuato a credere nella fedeltà di Dio e ad attendere l’adempimento della sua promessa. Indicando Gesù come colui che ha dato pieno compimento alla profezia, Matteo lo presenta come il vero, atteso “Emmanuele, il Dio con noi”.

In Israele la verginità di una ragazza era apprezzata prima del matrimonio, ma mantenerla per tutta la vita era motivo di biasimo. La donna non sposata e senza figli era irrisa perché non era stata capace di attirare su di sé lo sguardo amorevole di un uomo, era un albero senza frutti, meritevole di commiserazione (Is 56,3-6; Gdc 11,39). È per questo che nella Bibbia il termine vergine ricorre spesso in senso metaforico: indica una condizione spregevole. Vergine Sion non significa Gerusalemme immacolata e pura, ma povera, disprezzata, priva di vita (Ger 31,4). Israele umiliata dagli assiri è paragonata da Amos alla vergine che non ha realizzato il sogno di essere madre: «È caduta, non si alzerà più, la vergine d’Israele; è stesa al suolo, nessuno la fa rialzare» (Am 5,2). Anche Babilonia, la sanguinaria, è maledetta dal profeta: «Sarai ridotta in polvere, vergine Babilonia» (Is 47,1).

Per le ragazze da marito era dunque regola stretta «in Israele» conservarsi per lo sposo, in fedeltà all’alleanza ed ai doveri di future madri onorate, custodi della generazione fedele. Le adultere erano soggette alla pene di morte. Maria dunque è vergine e partorisce.

Il termine vergine nella Bibbia ha anche un altro significato metaforico: indica la persona che ama con cuore indiviso. L’infedeltà di Israele è paragonata a una prostituzione (Ger 5,7); la sua contaminazione con gli idoli è considerata un adulterio, una divisione del cuore fra il Signore, l’unico sposo, e gli idoli delle nazioni, i suoi amanti (Os 2). La verginità è il simbolo dell’amore totale e incondizionato per il Signore.

È in questo senso che Paolo impiega il termine quando scrive ai Corinzi: «Io provo per voi una specie di gelosia divina, avendovi promessi a un unico sposo, per presentarvi quale vergine casta a Cristo» (2 Cor 11,2). Maria ha certamente realizzato alla perfezione anche questa verginità ed è, per ogni discepolo, il modello sommo di cuore indiviso per Dio.

«Emmanuele»: nome simbolico che significa «Dio è con noi», cioè Dio ci protegge e ci aiuta

v. 24 «fece»: l’animo di Giuseppe era già così propenso a una soluzione straordinaria (data la straordinaria virtù della sua Sposa e la non meno straordinaria sensibilità spirituale propria) che alla prima comunicazione celeste crede e accetta senza la minima esitazione.

Ben diversamente invece aveva agito il sacerdote Zaccaria (cfr. Lc 1,8-20).

Conosciuto il ruolo che gli era assegnato in quel matrimonio, egli si sentì libero dal turbamento, dallo sconcerto e dal dubbio; obbedendo in tutto, con docilità perfetta, pronta, umile, silenziosa verso Dio e gli uomini.

A differenza di Acaz (cfr. la lett.) che rifiuta il segno di Dio provocandone lo sdegno, Giuseppe accoglie il segno che gli è dato nell’apparizione dell’angelo e ascoltandone la parola diventa intimo collaboratore di Dio.

Ecco come Gesù può essere discendente di Davide, anche se Giuseppe, di stirpe davidica, non ha avuto parte nella sua generazione. Dio stesso si è incaricato di inserire Gesù nella discendenza davidica, facendo sì che Giuseppe accogliesse nella sua casa Maria e ne riconoscesse legalmente il figlio, imponendogli il nome con autorità paterna.

Giustamente M. Kramer scrive: «Non è la casa di Davide che dà al Signore un figlio in adozione, ma Dio stesso genera il messia come suo figlio fin dal seno materno e lo dà come figlio adottivo alla casa di Davide».

Il collegamento con Abramo e Davide risulta così dimostrato e assicurata la discendenza, sia pure fuori dei vincoli di sangue.

II Colletta:

O Dio, Padre buono,

tu hai rilevato la gratuità

e la potenza del tuo amore,

scegliendo il grembo purissimo della Vergine Maria

per rivestire di carne mortale il Verbo della vita:

concedi anche a noi di accoglierlo e generarlo nello spirito

con l’ascolto della tua parola, nell’obbedienza della fede.

Per il nostro Signore Gesù Cristo…



[1] – cf Note bibliche di P. Ignace de la Potterie in letture patristiche IV Dom. Avvento A

Fonte: Abbazia di Santa Maria a Pulsano

Read more

Local News