Commento al Vangelo di domenica 21 Luglio 2019 – Comunità di Pulsano

Lectio Divina di domenica 21 Luglio 2019 a cura della Comunità monastica di Pulsano.

DOMENICA «DI MARTA E MARIA»

L’Evangelo di oggi ci propone un episodio che è stato commentato un’infinità di volte:l’accoglienza offerta a Gesù da Marta e Maria. Nel momento in cui, come Maria, anche noi siamo seduti ai piedi del Signore per ascoltare la sua parola, chiediamoci qual è la «parte migliore» che la sorella di Marta ha scelto e che non le sarà tolta.

Notiamo subito che Luca non intende opporre due diversi stati di vita. Non ci sono da un lato i contemplativi, gli aristocratici della vita cristiana, le truppe scelte del regno paracadutate direttamente in esso e dall’altro i poveri soldati semplici del ministero apostolico, di cui la chiesa di quaggiù ha bisogno, ma che, per il loro temperamento estroverso o per la loro mancanza di attitudini contemplative, sarebbero condannati a una santità di grado inferiore, a una beatitudine di second’ordine. La risposta di Gesù a Marta non è assolutamente rivolta a fornire una buona coscienza a chi ritenesse di potersi riconoscere in Maria. Ciò che Luca oppone alle molteplici occupazioni che assorbono Marta nel suo servizio, è l’unica cosa indispensabile di cui si preoccupa Maria: ascoltare la parola del Cristo per serbarla nel proprio cuore e metterla in pratica. Questo è ciò che fa il vero discepolo; il resto non è privo di importanza (è necessario sbrigare le faccende di casa e preparare il pranzo), ma non deve mai prenderci al punto da farci dimenticare l’essenziale: colui che viene a farci visita.

Ciò significa che non c’è nessun rischio di conflitto? Sarebbe troppo bello, sarebbe già il paradiso! Gli stessi apostoli ne fanno l’esperienza. Tuttavia, assillati da compiti diversi, non concluderanno semplicisticamente che, in fin dei conti, il lavoro, è preghiera; decideranno invece di dedicarsi interamente «alla preghiera e al servizio della Parola» (At 6,1-6). Marta e Maria, il servizio e l’ascolto: entrambe le cose sono necessarie. Non bisogna ascoltare senza servire, ma neppure servire senza ascoltare, agitandosi senza prestare attenzione a colui al cui servizio ci si è posti.

 

Dall’eucologia:

Antifona d’Ingresso Sal 53,6.8

Ecco, Dio viene in mio aiuto,

il Signore sostiene l’anima mia.

A te con gioia offrirò sacrifici

e loderò il tuo nome, Signore, perché sei buono.

 

Nell’antifona d’ingresso, con l’Orante del Sal 53,6.8 (SI), i fedeli all’inizio della celebrazione riconoscono che il loro unico aiuto sta nel Signore (Sal 117,7), sempre operante, che li accoglie sempre e li difende (v. 6). Perciò con animo devoto vogliono offrirgli il sacrificio divino, e confessare al mondo il Nome suo, nel quale si trova l’unico bene (51,11), poiché è l’unico Nome che salva (v. 8).

Canto all’evangelo Lc 8,15

Alleluia, alleluia.

Beati coloro che custodiscono la parola di Dio

con cuore integro e buono,

e producono frutto con perseveranza.

Alleluia.

La beatitudine (Lc 8,15 adattato) si dirige verso tutti i fedeli che con il cuore puro e ben disposto accolgono e conservano la Parola divina, quelli che nella pazienza, la virtù dei santi, della Parola sanno trarre frutti di vita.

Il Signore prosegue la sua salita a Gerusalemme dove si deve compiere il suo esodo al Padre attraverso la Croce, la Resurrezione e la gloria. Nella «Domenica di Marta e Maria», la XVI del Tempo Ordinario C, viene spontaneo pensare che il tema dominante sia quello dell’ospitalità; del resto l’aggiunta dell’episodio di Abramo alle Querce di Mamre (I lettura) sostiene tale prima impressione.

Di prima impressione si tratta infatti perché noi siamo ancora una volta e immancabilmente chiamati a contemplare Cristo Signore battezzato dallo Spirito Santo mentre episodio dopo episodio passa attuando il mandato del Padre nel suo ministero messianico.

In questo, come in ogni altro episodio Cristo Signore Risorto annuncia l’Evangelo, ne insegna i misteri, opera la Carità del Regno (Miracoli, guarigioni), prega e riporta tutto al Padre.

L’ospitalità di cui si può parlare è da considerarsi semmai una conseguenza dell’annuncio divino che viene accolto.

Così Abramo che dal Signore ha ricevuto la Promessa (Gen 12,1-3), la prima alleanza sacrificale nel Fuoco divino (Gen 15) che rinnova la Promessa, la seconda alleanza della circoncisione (Gen 17), che rinnova ancora una volta la Promessa. Ma egli resta ancora senza la discendenza contemplata dalla Promessa. E qui di certo il Signore permette che la fede del Patriarca eletto riceva un oscuramento, più di una tentazione, perché egli non vede come si realizzerà la Parola fedele del suo Signore se non avrà una discendenza che la porti al mondo e nella storia.

Ma il Signore nella sua Sapienza infinita agisce attraverso i segni che fanno la storia. E a Mamre, in pieno mezzogiorno, visita visibilmente Abramo, che sta seduto a prendere il fresco in attesa di mangiare, all’apertura della sua tenda di perenne nomade (v. 1b). Avviene la Manifestazione: «appare il Signore» (v. 1a), e Abramo vede «Tre Uomini» (v. 2a). Immediatamente, e da buon orientale, come simbolo vivente dell’ospitalità, corre incontro a essi e si prostra per salutarli e rendere omaggio (v. 2b), e naturalmente il primo suo saluto è l’invito dell’ospitalità. Parla al singolare, a uno dei Personaggi: Signore, se trovai grazia, non andare oltre il servo tuo (v. 3). E propone subito di portare l’acqua per lavare i loro piedi e il riposo benefico sotto l’ombra di un albero frondoso (v. 4) e ovviamente uno spuntino per rifocillarli. Poi essi potranno (al plurale) ripartire. Altrimenti, a che sarebbero venuti a visitare il loro servo? E i Tre assentono alla proposta così ospitale e benevola del sempre generoso e provvidente Patriarca (v. 5).

Abramo però agisce in grande. Alla sposa sua, Sara, ordina di impastare tre sea[1] di grano, una quantità abbondante, per farne il tipico pane orientale, la sottile focaccia cotta sotto la cenere bollente (v. 6). Il N. T. richiamerà i tre stai nella parabola della donna e del lievito (Mt 13,33; Lc 13,21), alludendo discretamente alla Madre nostra nella fede, Sara. Abramo da parte sua dispone che sia arrostito addirittura il vitello più tenero (v. 7). Poi porta agli ospiti il burro, il latte (forse latte cagliato, ancora di largo uso in Oriente) e il vitello preparato dovutamente, dispone tutto sotto l’albero riparatore, e resta in piedi mentre i Tre si dispongono a mangiare (v. 8).

Finito il pranzo, ottimo e abbondante, e gradito, i Tre chiedono di Sara. Abramo risponde che sta dentro la tenda. Infatti nelle antiche culture le donne non mangiano con gli uomini, e inoltre esse debbono stare con i bambini, e, se non sono chiamate, debbono tenersi sempre discretamente nascoste dagli ospiti, in specie se sono uomini; anche se, come si sa bene, la curiosità le porta a origliare ansiosamente per avere notizie ed indiscrezioni (v. 9). Allora Uno dei Tre (va notato qui il singolare) annuncia la rinnovata Promessa ad Abramo: Egli tornerà tra un anno, e Sara, la sua sposa sterile, avrà «il figlio» (v. 10). È il figlio della Promessa, Isacco. E il capostipite, la cui discendenza regale giungerà fino al definitivo «Figlio della Promessa», Cristo Signore (Gal 3,19, e anche v. 16). Qui si rivela la paternità universale di Abramo: tutto questo avviene affinché tutti gli uomini nel Figlio di Dio, il Figlio di Abramo, diventassero finalmente «figli della Promessa» (Gal 4,28). In questa visuale precisa Abramo è il Padre universale nella fede.

L’epistola agli Ebrei poi rammenta quell’episodio, visto nella fede di Abramo e di Sara (Ebr 11,8.12). E aggiunge l’esortazione alla comunità: «Dell’ospitalità, non vi dimenticate, poiché mediante essa alcuni non seppero che avevano ospitato Angeli» (Ebr 13,2).

I Padri hanno molto trattato della xenitéia, l’ospitalità di Abramo, che ebbe il privilegio singolare di essere visitato dai Tre. I Padri videro discretamente nei Tre l’anticipo simbolico della Manifestazione delle Persone divine della Trinità. La scena di questa ospitalità è anche oggetto di mirabili rappresentazioni, come la più che famosa «icona della Trinità» del santo monaco russo e martire dei turchi, Andrej Rubliev. Ma questo immenso artista in realtà non volle rappresentare la Trinità invisibile, e per definizione non rappresentabile. Volle significare solo il Mistero sublime di quell’ospitalità dalla quale derivano agli uomini conseguenze salvifiche decisive.

Il salmo responsoriale è dal Salmo 14 con il responsorio: Chi teme il Signore, abiterà nella sua tenda. I Salmi  14; 23 e 133 formano l’intero genere letterario chiamato «Liturgie». Essi indicano le condizioni necessarie ai fedeli per accedere davanti alla divina Presenza nel santuario.

Anche il Sal 14 come la I lettura parla di ospitalità, ma in una prospettiva rovesciata: non chiede chi può accogliere Dio, ma chi può essere accolto come ospite nella sua tenda, chi può abitare nel suo tempio. Essere “ospite” di Dio designa una relazione di intimità, di amicizia; esprime la gioia di gustare la sua Presenza. Il Salmo offre una sorta di decalogo: giustizia, verità, rispetto verso l’altro, umiltà, obbedienza alla Legge, integrità. Sulla scia delle letture odierne, possiamo comprenderlo come un percorso di unificazione della nostra esistenza, per divenire “perfetti” nel Cristo. Si tratta di entrare nella prospettiva di Dio, di fare nostri i suoi criteri, i suoi valori: come posso estorcere denaro dal mio fratello, mentire contro di lui, se lo guardo come Dio lo guarda, se vedo in lui ciò che realmente è, l’immagine e somiglianza del Creatore? Vivere così rende “saldi”, invincibili, rende persone capaci di sperimentare fin d’ora la bellezza della risurrezione pur nella fatica quotidiana.

Il v. 1 è una domanda che può essere del fedele a se stesso o al Signore, per sapere chi e come dimorerà nella Tenda divina (v. 1a, che qui fa anche da Versetto responsorio; 83,2), e così si riposerà nella pace divina sul Monte della santità, Sion (Sal 2,6), da cui proviene ogni salvezza per il popolo (v. 1b).

La risposta è data dal Signore, ma per bocca del sacerdote, il solo che ha l’ufficio, decisivo per tutti, di custodire il santuario e di ammettervi i fedeli degni. Può accedere al Signore solo chi non abbia macchia di peccato (Pr 28,18; Ap 21,27), e sia operatore della giustizia. Biblicamente, nel Signore e negli uomini la giustizia non è distinta dalla carità (Sal 105,3). Nel Signore essa si adempie sempre nell’intervento soccorritore verso gli uomini, e negli uomini, se è autentica e quindi è l’imitazione del Signore, si adempie sempre nell’intervento soccorritore verso i fratelli (v. 2). Questa è la prima condizione da adempiere per accedere nel santuario.

Ma seguono altre condizioni severe. E allora occorre anche parlare solo la verità, che provenga dall’interiore dell’uomo. Non si deve operare mai l’inganno. Tantomeno si deve perpetrare il male al prossimo. E neppure diffondere la calunnia e propalare la detrazione, peccati gravissimi contro i fratelli (v. 3).

Non si deve tenere mai conto del malvagio, tanto da restituirgli colpo su colpo. Si deve invece onorare ed esaltare chi teme il Signore. Inoltre si deve tenere fedelmente la parola data, senza ingannare chi ha confidato in essa (v. 4).

Non si deve praticare l’usura, chiamata nell’A. T. il “morso” mortale, né si debbono accettare doni per condannare l’innocente (v. 5ab).

Chi ha adempiuto a tali condizioni, è idoneo e degno di abitare alla Presenza divina, e non ne sarà mai più allontanato (v. 5c).

Il Salmo indica, e non alla rinfusa, le azioni, positive o negative che il fedele del Signore deve adempiere. Se si fa attenzione al testo, ne risulta quasi paradossalmente che al fedele che desidera visitare degnamente il Signore nel suo santuario, e godere quindi della sua Presenza, non si chiede mai un atto di adempimento religioso verso il Signore stesso. Al contrario, tutti i precetti dati qui da adempiere ai fedeli riguardano solo il prossimo. Per così dire, la tavola I del Decalogo è ignorata, è come presupposta. Invece si insiste molto, e solo, sulla tavola II, quella che riguarda i precetti che regolano gli ordinati rapporti con i fratelli. È l’unico stile dell’A. e del N. T.

Il Signore certamente desidera più di tutto dai suoi fedeli di essere amato. Tuttavia, vuole essere amato solo attraverso il prossimo. Vuole che i suoi fedeli prima amino il loro prossimo, e poi si rivolgano a Lui, il Signore. Il Signore sa attendere l’amore dei suoi fedeli. Quanto questo sarà confluito come in un grande oceano che è la comunità di fede per riempirla totalmente, allora il Signore accoglie tutti i suoi fedeli. In sostanza, amare il prossimo è la drastica condizione previa per accedere a Lui.

Tutto questo si ritrova diffusamente nella predicazione di Gesù. Tra i tanti contesti, basterà qui rimandare al fatto riportato nel «discorso della montagna» (Mt 5,1 – 7,29), e che avviene nel santuario. Quando un fratello deve offrire il sacrificio al Signore, deve lasciare lì l’offerta e andare prima a riconciliarsi nella carità con il fratello con cui ha contrasti, e solo allora procederà all’omaggio dovuto strettamente al suo Signore (Mt 5,23-24).

In conseguenza, contro certe spietate durezze di cuore di fedeli che pure si credono pii e devoti osservanti della santa legge del Signore, Gesù due volte cita Os 6,6: «Misericordia Io voglio, non sacrifici» (Mt 9,13; 12,7). La misericordia, l’éleos, è propriamente del Signore, il quale desidera che sia di tutti i suoi fedeli, che così diventano suoi imitatori. Con questi Egli forma la sua comunità, che deve poi confluire nella corte celeste.

La pericope di oggi (per il contesto cf Dom. precedenti) ci propone due scene:

  1. la prima scena ci presenta Maria (sorella di Marta) mentre è seduta ai piedi del Signore tanto amato e venerato (v. 39);
  2. la seconda scena riguarda Marta che per ben accogliere l’Ospite divino si affanna in molte faccende di casa (v. 40).

Il resto dell’episodio è storia nota che ha visto l’immancabile affanno di Padri, teologi e spirituali nel trarre il vero insegnamento del Signore (cf la lotta tra gli schieramenti di vita contemplativa contro quelli di vita attiva).

Le due scene sono descritte da Luca con sapiente abilità; Maria è presentata nell’atteggiamento tipico dei discepoli nelle scuole ebraiche, che con attenzione e reverenza, un gradino al di sotto, ascoltano il loro maestro, prendendo appunti e interrogandolo in un dialogo utile e costruttivo. Ricordiamo come anche in un’altra occasione Maria, quando viene Gesù per la morte di Lazzaro, suo fratello, si precipita ai piedi del Signore (Gv 11,32). Con questo atteggiamento Maria manifesta che si è fatta discepola fedele del Signore che invariabilmente come prima azione dispensa la sua Parola, con gli uomini, con le folle, dovunque vada e dovunque si fermi.

La seconda scena presenta Marta che come una madre di famiglia prepara ed apparecchia il cibo buono per il Signore e la sua numerosa brigata.

Quello di Marta è un atteggiamento di ospitalità vera e cordiale, che guardando all’aspetto fa consistere il centro del ricevimento in un buon pranzo e magari rimandando la conversazione alla fine.

Nel rimprovero di Marta a Gesù (v. 40) il verbo servire è diakonéò, l’opera buona per gli altri (cf Lc 8,1-3, il gruppo delle donne fedeli che seguivano Gesù e gli prestavano la diaconia, il servizio necessario).

«Maestro non ti curi che noi periamo?» (Mc 4,38) come i discepoli della tempesta sedata (con i medesimi termini!) anche Marta non ha messo la mente per seguire quello che il Signore sta dicendo e non solo a Maria.

Sempre il Signore insegna realtà grandi e la prima vera accoglienza è quella della sua dottrina divina, affinché a partire da essa chi ascolta fedelmente possa far derivare con frutto tutto il resto. Ma occorre prima ascoltarlo!

Gesù non dice che le faccende degli uomini siano inutili o dannose; il verbo thorybazò esprime un movimento agitato, addirittura scomposto di Marta (v. 41), il senso è invece che fra tutte le faccende degli uomini, tutte buone e tutte utili, esiste una più stringente, di cui si ha vero bisogno: ascoltare la Parola Divina accogliendola nel cuore! Le altre faccende della vita vanno fatte e bene, ma debbono derivare da quell’unica; «la parte buona» dalla quale deriva la qualità della vita e dell’opera degli uomini. Certamente il Signore non pensava alla penosa divisione tra vita attiva e vita contemplativa (dopo la parabola del buon samaritano: «Va e anche tu fa lo stesso»). Contemplazione ed azione non sono due realtà nemiche, al contrario sono due aspetti di un’unica operazione e che tale devono essere percepite dai discepoli del Signore. Esse sono divinamente disposte così, che dalla pienezza della contemplazione e dalla preghiera scaturisca l’efficacia dell’azione, e questa efficacia sia autentica perché torna subito alla contemplazione e alla preghiera. E così di seguito.

Un esempio: la lectio divina quotidiana e personale, forma fondamentale di vera Liturgia della Chiesa.

Gesù non privilegia altro che la completezza di chi vuole seguirlo; nessuna operazione della Chiesa sarà efficace, producendo frutti copiosi, se non parte prima dalla continua contemplazione della Parola di Dio e dall’ininterrotta epiclesi al Padre per ottenere lo Spirito Santo.

Padre sapiente e misericordioso,

donaci un cuore umile e mite,

per ascoltare la parola del tuo Figlio

che risuona ancora nella Chiesa,

radunata nel suo nome,

e per accoglierlo e servirlo come ospite

nella persona dei nostri fratelli.

Per il nostro Signore Gesù Cristo,..

(nuova colletta per le Dom. del Tempo Ordinario)

Esaminiamo il brano

38 – «Mentre erano in cammino»: Il riferimento al cammino ricorda al lettore che siamo nella sezione del grande viaggio, dell’esodo del Profeta verso Gerusalemme. Da altri racconti, conosciamo inoltre il nome del villaggio e la sua localizzazione: si tratta di Betania, nelle vicinanze di Gerusalemme (Mc 14,3; Mt 26,6; Gv 12,1). Luca, dunque, non sembra seguire una struttura geografica: non pone l’episodio verso la fine del viaggio come sarebbe logico, ma lo inserisce come un nodo narrativo tra la parabola del ‘buon samaritano’ e l’insegnamento sulla preghiera. Il racconto deve dunque essere letto alla luce di ciò che precede e di ciò che segue.

La parabola del buon samaritano ha messo a confronto due posizioni umane. Sacerdote e levita conoscono la Parola e sono consacrati al suo servizio. Tuttavia, la Parola non li spinge all’azione; non plasma il loro cuore sul cuore “misericordioso” del Padre; non li educa a “farsi prossimo” dell’uomo ferito. Il samaritano, apparentemente lontano dalla Parola, «fa misericordia», manifestandosi come un uditore attento, sintonizzato con il cuore stesso della Legge. Su questo sfondo dobbiamo ora leggere il testo, come un richiamo a valutare il nostro rapporto con la Parola, per comprendere se essa sia il “centro unificante” ed il motore della nostra esistenza.

«Marta, lo accolse nella sua casa»: Nell’evangelo di Luca Marta compare soltanto in questo passo. In Gv 11,1-39 e 12,2 Marta e Maria sono le sorelle di un uomo di nome Lazzaro. Gli altri Sinottici omettono questo racconto come pure qualsiasi accenno a questi personaggi. Luca, dopo aver sorpreso il suo lettore presentando donne-discepole al seguito di Gesù (8,1-3), lo destabilizza ancora una volta con il ritratto di Marta. Non è qualificata in relazione ad un uomo come sposa, vedova, figlia…, ma appare sulla scena come una donna indipendente e intraprendente. Marta è chiaramente la padrona di casa e il secondo personaggio, Maria, è qualificato in rapporto a lei: «sua sorella». L’ospitalità offerta a Gesù ed ai suoi pone Marta in una luce favorevole. Dopo il rifiuto dei Samaritani (9,53), l’apertura della propria casa a Gesù la pone tra coloro che collaborano alla sua missione (9,4; 10,5-7).

39 – «Maria sedutasi ai piedi di Gesù, ascoltava la sua parola»: Maria è attenta a ciò che dice Gesù e perciò lo accoglie così com’è: un profeta che annuncia «la parola di Dio» (8,11). In Luca-Atti lo star seduti ai piedi di qualcuno indica sempre un riconoscimento della sua autorità (7,38; 8,35. 41; 17, 15-16; At 4,35.37; 5,2; 22,3).

Il versetto che segue offre al lettore un’icona vivace e contrapposta delle due sorelle: Maria, «seduta ai piedi del Signore, ascoltava la sua parola. Marta invece era distolta per i molti servizi». Sembra che le due sorelle abbiano diviso tra loro la responsabilità dell’accoglienza: mentre Maria intrattiene l’ospite, Marta gestisce le varie attività connesse alla preparazione del cibo. La posizione «ai piedi del Signore» pone Maria nell’atteggiamento del discepolo l’unica azione riferita a lei è l’ascolto della Parola, non la parola di Gesù, ma del “Signore”, Maria ascoltava.

Ricordiamo che l’ascolto della Parola è uno dei temi più cari a Luca. Pensiamo ad un’altra Maria, la madre di Gesù. Alle parole dell’angelo risponde definendo se stessa come donna al servizio del progetto di un Altro, perché la sua Parola divenisse persona: «Eccomi, sono la serva del Signore, si compia in me la sua Parola» (Lc 1,38). Nell’incontro con Elisabetta, è proclamata beata perché «ha creduto nell’adempimento delle parole del Signore» (Lc 1,42). A Betlemme, mentre pastori e presenti commentano stupiti gli avvenimenti meravigliosi legati alla nascita del bambino, la madre è caratterizzata come colei che «tesoreggia» nel suo cuore ogni avvenimento cercando di coglierne la logica nascosta, il messaggio di salvezza (cf 2,19). Lo stesso atteggiamento la caratterizzerà nell’incontro con Simeone (2,51). Nel suo ministero pubblico Gesù dichiara che la propria famiglia è costituita da «coloro che ascoltano la parola di Dio e la mettono in pratica» (Lc 8,19-21). L’ascolto rende dunque Maria di Betania discepola, madre e sorella di Gesù.

Aggiungo che in un contesto culturale “patriarcale”, in cui non era consentito ad un Rabbi d’insegnare alle donne, la sottolineatura lucana indica l’avvento di una modalità nuova di rapporti: nella famiglia di Gesù giudei e gentili, uomini e donne, possono riappropriarsi della propria vocazione originale di immagine e somiglianza di Dio, possono tornare ad essere semplicemente figli nel Figlio. Forse proprio l’atteggiamento “fuori luogo” di Maria attira l’ira di Marta che, avvicinandosi al Signore con brusca familiarità, rimprovera indirettamente la sorella, manifestando la convinzione che Gesù condivida il suo punto di vista.

40 – «Marta…tutta presa dai molti servizi»: Il verbo perispaō ha il senso di «essere distratti». E il motivo è perché ci sono troppe cose da fare. Notare che il narratore indica che si tratta di un fatto oggettivo (pollēn diakonian), non di un’ossessività nevrotica di Marta.

«Signore, non ti curi»: Da confrontare con la domanda posta a Gesù nel racconto di Marco della tempesta sedata (4,38). La «domanda» di Marta in realtà è un’accusa contro sua sorella: «mi ha lasciata sola a servire».

«Dille dunque che mi aiuti»: A Gesù verrà di nuovo chiesto di intervenire in una disputa domestica, questa volta in materia di possedimenti, in 12,13; qui come là, Gesù risponde con una dichiarazione di altro genere. Questo ci ricorda anche la lamentela avanzata dal risentito fratello maggiore in 15,28-29.

41 – «Il Signore le rispose: Marta, Marta tu ti preoccupi e ti agiti»: Il termine «preoccuparsi» (merimnaó) è usato in altri passi per le convulsioni della vita nel mondo (Mt 6,25-34; 1 Cor 7,32-34; Lc 12,26; vedi anche l’inno cherubico della liturgia bizantina cantato durante la processione dei doni). Il secondo termine «agitarsi» (thorubazomai) è più spesso usato come verbo attivo invece del riflessivo nel senso di «sollevare un tumulto», come farebbe una folla esagitata. Nel NT il verbo non è usato in nessun altro luogo e alcuni scrivani hanno cercato di sostituirlo con un verbo più comune. Ma questo è più colorito: «ti metti in agitazione».

L’uso del termine “Signore” insieme alla doppia ripetizione del nome Marta, conferisce un tono solenne alla risposta di Gesù. La risposta di Gesù conferma l’intuizione iniziale: il confronto non è tra ascolto e servizio, ma tra «molte cose» e «una cosa». Si tratta dunque dell’opzione tra uno stile di vita frammentario, o unificato attorno a ciò che è necessario; un’esistenza divisa tra molte cose o “semplificata”, focalizzata in una persona: il Signore. Pensiamo all’esperienza di Paolo: «Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me» (Gal 2,20). L’io di Paolo è Cristo: tutto il resto è considerato da lui “spazzatura”: «…ritengo che tutto sia una perdita a motivo della sublimità della conoscenza di Cristo mio Signore. Per lui ho lasciato perdere tutte queste cose e le considero spazzatura, per guadagnare Cristo» (Fil 3,8). Matteo definisce questa stessa realtà come «cuore puro»: si tratta di un cuore unificato, trasparente; coloro che vivono così sono beati perché «vedranno» Dio, lo riconosceranno presente in ogni situazione, realtà, persona (Mt 5,8).

Per chi possiede un cuore puro, per chi ha fatto suo l’io del Cristo, non esiste distinzione tra attività diverse: il servizio esprime l’obbedienza alla Parola. In questa luce Luca descrive il servizio come la caratteristica del discepolo, in quanto condivisione dello stile di vita del Maestro: «Chi tra voi è più grande diventi come il più giovane, e chi governa come colui che serve. Infatti chi è più grande, chi sta a tavola o chi serve? Non è forse colui che sta a tavola? Eppure io sto in mezzo a voi come colui che serve» (cf Lc 22,24-27). Marta, dunque, non è invitata ad abbandonare il servizio per sedersi con Maria ai piedi di Gesù, ma a vivere il servizio con un cuore unificato. Non diverrà allora una sequenza di “molte cose” capaci di “distoglierla” dall’accoglienza del Signore, ma la risposta libera e obbediente al suo Signore, colui che può dare ad ogni istante un valore eterno. In questo senso, Maria sta già “aiutando” Marta a donare ad ogni cosa il proprio valore: fissa lo sguardo sul Signore e servilo…

42 – «una sola è la cosa di cui c’è bisogno»: L’incapacità di afferrare il significato di questa breve frase nel contesto dato ha indotto gli scrivani ad operare diversi emendamenti. Ritenendo che Gesù si riferisse all’abbondanza delle portate, alcuni copisti hanno sostituito «una sola cosa» con «poche cose», e altri ancora hanno combinato le due frasi in una sola ottenendone una gran confusione. Gesù si riferisce invece al segno essenziale dell’ospitalità, che consiste nel prestare attenzione all’ospite; quella è la sola cosa necessaria: tutto il resto è in sovrappiù.

«Maria si è scelta la parte migliore»: Meglio ancora: «Maria ha fatto la scelta migliore» nel preferire ciò che è necessario. Luca usa agathos invece di kalos per dare una dimensione morale alla sua scelta: con il suo ascoltare, Maria ha accolto la persona del Messia, poiché il Messia è definito dalla sua «parola».

Possiamo comprendere meglio l’atteggiamento delle due sorelle, se ripercorriamo la parabola del seminatore. Pensiamo alla distinzione tra «coloro che, dopo aver ascoltato, strada facendo si lasciano soffocare da preoccupazioni, ricchezze e piaceri della vita e non giungono a maturazione» (8,14) e «coloro che, dopo aver ascoltato la Parola con cuore integro e buono, la custodiscono e producono frutto con perseveranza» (8,15).

Non conosciamo la risposta di Marta: come spesso accade, Luca lascia alcune righe vuote dove ognuno di noi può scrivere la propria reazione all’invito di Gesù.

 

I Colletta

Sii propizio a noi tuoi fedeli, Signore,

e donaci i tesori della tua grazia,

perché, ardenti di speranza, fede e carità,

restiamo sempre fedeli ai tuoi comandamenti.

Per il nostro Signore Gesù Cristo…

[1]          Il precedente “tre staia” è sembrato incomprensibile al lettore contemporaneo; si è allora preferito lasciare un calco dall’ebraico “sea”. Le antiche misure di capacità sono di difficile identificazione. Un sea dovrebbe corrispondere a circa 15 litri.

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