Commento al Vangelo di domenica 2 Giugno 2019 – Sorelle Povere di Santa Chiara – Gv 14, 23-29

Benedetti e benedicenti

Per quaranta giorni Gesù si era “preparato” nel deserto per dare inizio alla sua missione pubblica (cfr. Lc 4,1-13).
Ora per quaranta giorni il Risorto “prepara” i suoi discepoli per la loro missione, come testimoni autorevoli di Lui nel mondo.

Ricevuto il “battesimo con acqua”, Gesù per quaranta giorni aveva approfondito la sua relazione con il Padre nel deserto, passando per il crogiuolo della prova a cui Satana lo aveva sottoposto (cfr. Lc 4,2.13).
Ora, dopo il battesimo della croce (cfr. Lc 12,50), il Risorto approfondisce per quaranta giorni il suo rapporto con i discepoli che sono passati per la “prova” della sua passione e morte, preparandoli ad accogliere il “battesimo di fuoco” della Pentecoste.

Sarà lo Spirito promesso dal Padre a dare loro la forza per prolungare la missione del Figlio “a Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samaria e fino agli estremi confini della terra” (At 1,8).
Secondo la tradizione ebraica, un periodo di quaranta giorni è il tempo necessario ad un rabbi per formare i suoi discepoli. Gli apostoli del Risorto quindi sono stati pienamente “formati” dalla parola e dalla presenza di Gesù in mezzo a loro, resi testimoni dell’unico “Testimone fedele” (cfr. Ap 1,5). Cosa è avvenuto durante quei quaranta giorni per fare dei discepoli dei testimoni? Per quaranta giorni Gesù “si mostra loro vivo dopo la sua passione con molte prove” (At 1,3) “aprendo le loro menti alla comprensione della necessità della sua Pasqua inscritta nelle Scritture” (cfr. Lc 24,45). L’iniziazione degli apostoli avviene attraverso la relazione con il Risorto, nella scoperta che le Scritture parlano di Lui e che la sua pasqua di morte e resurrezione è la chiave per “entrare” nel regno di Dio.
Questo tempo deve essere stata un’esperienza davvero trasformante e fondante.

Il racconto con cui si aprono gli Atti degli apostoli presenta tuttavia degli uomini che ancora non sembrano aver ben compreso di quale regno il Signore Gesù parlasse loro (ancora sono in attesa di un “regno per Israele”!). Sarà necessaria la separazione “fisica” dal Risorto per entrare nella comprensione “spirituale” (cioè nello Spirito santo) delle parole del Signore Gesù.

Ma il Risorto si è mostrato vivo ai suoi discepoli per quaranta giorni (come l’evangelista Luca ci dice in Atti) o per un interminabile giorno di Pasqua (come ci dice al termine del suo vangelo)?  Non ci devono trarre in inganno questi due dati “cronologici” così differenti che escono dalla penna dello stesso Luca, perché il suo intento non è tanto “cronologico”, ma “teologico”! Luca infatti sembra dirci che il tempo vissuto con il Risorto è stato il tempo “sufficiente e necessario” per diventare discepoli del Crocifisso Risorto. E l’evento dell’ascensione al cielo di Gesù (narrato sia al termine del Vangelo di Luca che al principio di Atti) è il collegamento vitale fra il tempo di Gesù e il tempo della Chiesa, suo corpo nella storia. L’ascensione infatti pone in continuità la vita di Gesù e quella degli apostoli chiamati a prolungare la presenza di Lui nel mondo.

Questa continuità è narrata secondo le categorie profetiche. Infatti come era avvenuto per il profeta Elia che, asceso al cielo in un carro di fuoco, aveva lasciato la sua eredità spirituale al suo discepolo Eliseo, così ora avviene ai discepoli di Gesù. Il fatto di essere ammessi alla “visione” di questo evento segna il passaggio di consegna della missione del profeta ai suoi discepoli. Infatti notiamo che il racconto di Atti è fortemente caratterizzato da verbi di “visione”: “mentre lo guardavano, fu elevato in alto e una nube lo sottrasse ai loro occhi. Essi stavano fissando il cielo mentre egli se ne andava, quand’ecco due uomini in bianche vesti si presentarono a loro e dissero: “Uomini di Galilea, perché state a guardare il cielo? Questo Gesù, che di mezzo a voi è stato assunto in cielo, verrà allo stesso modo in cui l’avete visto andare in cielo”.

Ma perché è necessario “vedere”?
E’ necessario “vedere” e “sedere a mensa” (At 1,3.4) con il Risorto perché la relazione con Lui apra gli occhi dei discepoli a riconoscere una “presenza altra” di Lui con loro.
Era accaduto alle donne il mattino di pasqua, ai due discepoli lungo la via e a mensa a Emmaus ed ora avviene per gli “Undici e gli altri che erano con loro” (Lc 24,33). Il Risorto si mostra ai suoi vivo.
Si tratta di quella familiarità a cui il Risorto ci chiama ancora oggi nella partecipazione alla mensa della sua Parola e del suo Corpo nelle nostre eucarestie domenicali. Qui siamo alla presenza del Risorto per poter “vedere” “Lui elevato in alto e una nube che lo sottrae ai nostri occhi” (cfr. At 1,9).

Luca ci dice che l’ascensione di Gesù è esperienza che chiama in causa il nostro sguardo perché non continuiamo a “guardare il cielo”, cioè il Signore nella sua relazione con il Padre, ma impariamo a spostarlo “altrove”, là dove Lui continua la sua  relazione con noi.

Il racconto di Atti infatti ci dice che mentre Gesù è “elevato in alto” una nube lo sottrae ai loro occhi. La nube vela la Sua presenza, ma al tempo stesso rivela il modo di una “presenza altra”, che è quella di Dio in cammino nella storia con il suo popolo. Infatti durante l’esodo di Israele dall’Egitto, la nube manifestava la presenza di Dio che accompagnava e guidava il suo popolo (la colonna di nube luminosa) o che riempiva la tenda del convegno della Sua gloria.

Gesù, separandosi dai suoi, rimane in mezzo a loro con una presenza di “nube” che i due uomini in bianche vesti così spiegano ai discepoli: “Colui che sale al cielo è Colui che verrà dal cielo” (cfr. At 1,11). Così questa solenne liturgia di commiato da Gesù si trasforma in un solenne annuncio della venuta di Lui. Per Luca, Gesù è colui che se ne va ma che è presente “altrimenti” (Massimo Grilli).

Il modo in cui Gesù si farà presente (“verrà”), lo descrive molto bene Luca nella conclusione del suo vangelo: il Risorto conduce i suoi ad uscire “fuori verso Betania” in quel medesimo movimento di uscita che lo Spirito santo imprimerà alla missione degli apostoli.
E qui li benedice.

Per tre volte in due versetti Luca insiste su questo gesto di benedizione con cui Gesù, staccandosi dagli apostoli, si lega in modo permanente a loro.
La benedizione ha a che fare con la fecondità della vita che, poiché è benedetta, fiorisce e rinasce con energie nuove e inaspettate. Benedire è un gesto con cui Dio si pone in relazione continua con la sua creazione perché la vita ricevuta possa svilupparsi “secondo il progetto di Dio”: così era accaduto in principio, al termine dell’opera creazionale, quando Dio benedice le sue creature (Gen 1,22.28); così era accaduto dopo il diluvio, quando la vita rifiorisce attraverso Noé (Gen 9,1); così era avvenuto ad Abramo, posto da Dio come “benedizione” in mezzo al mondo: “in lui saranno benedette tutte le famiglie della terra” (cfr. Gen 12,1-3).
Ora Gesù benedice i suoi in continuità con la promessa di vita impressa nella creazione da Dio stesso, portandola a compimento. S. Paolo canterà il dono di questa benedizione in un bellissimo inno nella lettera agli Efesini: “Benedetto Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo, che ci ha benedetti con ogni benedizione spirituale nei cieli in Cristo” (Ef 1,3). L’uomo, in Cristo asceso al cielo, è benedetto da Dio “nello Spirito santo” (con ogni benedizione spirituale) e questo legame spirituale è il modo “altro” con cui il Risorto continua a rimanere in un rapporto duraturo e stabile con noi. Gesù, benedicendo i suoi, tiene le sue mani stese su di noi e questo gesto prolunga nel tempo e nello spazio la sua relazione con ogni uomo. Questo finché “non vi sarà più maledizione” (Ap 22,3) e ogni uomo scoprirà di essere amato e benedetto in Cristo.

Allora i discepoli tornano al loro quotidiano sotto la benedizione di Dio ricevuta in Cristo e la riflettono, diventando essi stessi benedizione (Daniel Attinger). In quel movimento di benedizione dell’uomo che Dio ha iniziato e compiuto in Cristo, ora i discepoli di Gesù benedicono a loro volta Dio. Chi si scopre benedetto da Dio non può non restituire nella benedizione ciò che ha ricevuto da Lui (“tornarono a Gerusalemme con grande gioia e stavano sempre nel tempio lodando Dio”). Un benedizione che torna a Dio come lode e che li aprirà ai fratelli.

Infatti, se lo Spirito del Risorto li troverà “benedetti e benedicenti”, quei discepoli non potranno non divenire testimoni di Lui fino agli estremi confini della terra.

Commento a cura delle Clarisse di S. Gata Feltrie

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