Commento al Vangelo di domenica 12 Luglio 2020 – Comunità di Pulsano

Domenica “della parabola del seminatore”

Le letture di oggi ci invitano ad approfondire in maniera unitaria il tema della parola. Nella storia della Chiesa le epoche di «aggiornamento» hanno sempre portato ad una restaurazione dell’ascolto e del confronto con la parola di Dio. Lo prova il fervore di studi provocati dal Concilio e lo conferma la riforma liturgica che si sforza di ridare alla celebrazione della parola il posto che le compete. Anche oggi, come al tempo di Gesù, è la parola che convoca e raduna la Chiesa attorno al Padre, ed è nell’approfondimento della parola che i cristiani prendono coscienza di essere famiglia di Dio, suo nuovo popolo di salvati. È ancora l’atteggiamento nei confronti della parola (di indifferenza, di rifiuto, di trascuratezza, o di accoglienza) che definisce la nostra posizione nel regno di Dio (cf evangelo).  Per tre domeniche il lezionario domenicale ci farà ascoltare alcune parabole raccolte in Matteo 13, il terzo lungo discorso di Gesù in questo evangelo, detto appunto “discorso parabolico”. Il tempo dell’ascolto entusiasta di Gesù da parte delle folle sembra esaurito e ormai si è palesata anche l’ostilità dei capi religiosi giudaici, che sono giunti alla decisione di “farlo fuori” (cf. Mt 12,14). La predicazione del regno di Dio per cui Gesù spende tutta la sua vita appare dunque fallimentare: farisei ed erodiani lo vogliono uccidere, i parenti lo ritengono pazzo, gli scribi indemoniato. Il suo ministero non è segnato dal successo, anzi! strada facendo raccoglie sempre più incomprensioni, fraintendimenti, rifiuto. Sì, è accaduto così e accade così anche oggi nei confronti di chi predica e annuncia veramente l’Evangelo. E noi possiamo essere non solo perplessi, ma a volte sgomenti: ogni domenica nella nostra terra d’Italia non solo diminuisce il numero di uomini e donne che credono, ma tra coloro che dicono di credere in Gesù Cristo e si radunano nelle chiese per ascoltare la parola di Dio e diventare eucaristicamente un solo corpo in Cristo constatiamo che a questa partecipazione alla liturgia non consegue un mutamento: non accade qualcosa che manifesti il regno di Dio veniente. Perché succede questo? La parola di Dio è inefficace? Chi la predica, predica in realtà parole sue? E chi ascolta, ascolta veramente e accoglie la parola di Dio? E chi l’accoglie, è poi conseguente, fino a realizzarla nella propria vita?

Quando Matteo scrive questa pagina che presenta Gesù sulla barca intento ad annunciare le parabole possiamo pensare che interrogativi simili risuonano anche nella sua comunità cristiana. All’atteggiamento di non-ascolto o di rigetto della parola di Dio ai tempi di Gesù, fa riscontro ai nostri giorni un atteggiamento di indifferenza e di non-comprensione della parola da parte dell’uomo moderno. A volte i pastori, i predicatori e i missionari hanno l’impressione di parlare una lingua straniera all’uomo d’oggi. I cristiani stessi hanno la sensazione che c’è una specie di divario tra la loro vita di tutti i giorni e la parola che viene loro annunciata nell’assemblea eucaristica; sembra troppo legata ad altri tempi, appare statica e senza impatto sulla vita reale. E la parola di Dio che viene messa in causa? o è soltanto l’incontro con il mondo e l’uomo moderno che non ha ancora trovato la giusta lunghezza d’onda?

I cristiani, infatti, sanno che la parola di Dio è dabar, è evento che si realizza; sanno che, uscita da Dio, produce sempre il suo effetto (cf. I lett. Is 55,10-11: «10Come infatti la pioggia e la neve scendono dal cielo e non vi ritornano senza avere irrigato la terra, senza averla fecondata e fatta germogliare, perché dia il seme a chi semina e il pane a chi mangia, 11così sarà della mia parola uscita dalla mia bocca: non ritornerà a me senza effetto, senza aver operato ciò che desidero e senza aver compiuto ciò per cui l’ho mandata»): e allora perché tanta Parola predicata, a fronte di un risultato così scarso? Ma le parabole di Gesù, racconti che vogliono rivelare un senso nascosto, ci possono illuminare. Gesù fa ricorso alla realtà, al mondo contadino di Galilea, a ciò che ha visto, contemplato e pensato, perché si dava del tempo per osservare e trovare ispirazione per le sue parole, che raggiungevano non gli intellettuali, ma la gente semplice, disposta ad ascoltare. Il racconto in parabole opera un rovesciamento di prospettive, a tutto favore di una più profonda comprensione della parola di Dio. Il messaggio deve illuminare l’esistenza. L’esperienza non viene messa a servizio del messaggio per illustrarlo, ma è il messaggio piuttosto che viene utilizzato per conferire all’esistenza tutta la significazione che ha nella fede. Solo così la parola è veramente annunciata, perché solo così risuona nel profondo dell’esperienza dell’uomo d’oggi. Avendo visto più volte il lavoro dei contadini Gesù inizia a raccontare, con parole molto note, che per questo vanno ascoltate e con ancor più attenzione: Ecco, il seminatore uscì a seminare. Mentre seminava, una parte cadde lungo la strada; vennero gli uccelli e la mangiarono. Un’altra parte cadde sul terreno sassoso, dove non c’era molta terra; germogliò subito, perché il terreno non era profondo, ma quando spuntò il sole, fu bruciata e, non avendo radici, seccò. Un’altra parte cadde sui rovi, e i rovi crebbero e la soffocarono. Un’altra parte cadde sul terreno buono e diede frutto: il cento, il sessanta, il trenta per uno. Chi ha orecchi, ascolti!

In questa parabola stupisce la quantità di seme gettato dal seminatore, e chi non sa che in Palestina prima si seminava e poi si arava per seppellire il seme, potrebbe pensare a un contadino sbadato! Invece il seme è abbondante perché abbondante è la parola di Dio, che deve essere seminata, gettata come un seme, senza parsimonia. Ma il predicatore che la annuncia sa che ci sono innanzitutto ascoltatori i quali la sentono risuonare ma in verità non l’ascoltano. Superficiali, senza grande interesse né passione per la Parola, la sentono ma non le fanno spazio nel loro cuore, e così essa è subito sottratta, portata via. Ci sono poi ascoltatori che hanno un cuore capace di accogliere la Parola, possono addirittura entusiasmarsi per essa, ma non hanno vita interiore, il loro cuore non è profondo, non offre condizioni per farla crescere, e allora quella predicazione appare sterile: qualcosa germoglia per un po’ ma, non nutrito, subito si secca e muore. Altri ascoltatori avrebbero tutte le possibilità di essere fecondi; accolgono la Parola, la custodiscono, sentono che ferisce il loro cuore, ma hanno nel cuore altre presenze potenti, dominanti: la ricchezza, il successo e il potere. Questi sono gli idoli che sempre si affacciano, con volti nuovi e diversi, nel cuore del credente. Queste presenze non lasciano posto alla presenza della Parola, che viene contrastata e dunque muore per mancanza di spazio. Ma c’è anche qualcuno che accoglie la Parola, la pensa, la interpreta, la medita, la prega e la realizza nella propria vita. Certo, il risultato di una semina così abbondante può sembrare deludente: tanto seme, tanto lavoro, piccolo il risultato. Ma la piccolezza non va temuta: ciò che conta è che il frutto venga generato!

Dunque, a noi che ogni domenica ascoltiamo la Parola e accogliamo la sua semina nel nostro cuore, non resta che vigilare e stare attenti: la Parola viene a noi e noi dobbiamo anzitutto interiorizzarla, custodirla, meditarla e lasciarci da lei ispirare; dobbiamo perseverare in questo ascolto e in questa custodia nel nostro cuore; dobbiamo infine predisporci alla lotta spirituale per custodirla, farle spazio, difenderla da quelle presenze che ce la vorrebbero rubare. In breve, basta avere fede in essa: la Parola, “l’evangelo è potenza di Dio” (Rm 1,16).

Dall’eucologia:

Antifona d’Ingresso Sal 16,15

Nella giustizia contemplerò il tuo volto,

al mio risveglio mi sazierò della tua presenza.

Nell’antifona d’ingresso, dal Sal 16,15, SI, l’orante che dal Signore ha ricevuto la sorte d’essere giusto, adesso vuole «comparire davanti al Volto», espressione che indica la volontà di visitare il Signore nel santuario, dove dimora in modo invisibile, imperscrutabile, misterioso sull’arca tra i Cherubini (62,3). Il salmista sa che dal Volto della divina Bontà emana la Luce trasformante (1 Gv 3,1-2). Questa supplica diventa oggi il nostro canto e la nostra preghiera, anche noi vogliamo stare “davanti al Volto”, ricevere la Luce trasformante che proviene dalla teofania, la manifestazione divina mediata dall’insegnamento della Parola e dal sacrificio seguito dal convito, unico cibo, unica sazietà meravigliosa per ogni fedele (15,11; Is 26,19; Dan 12,2).

Canto all’Evangelo Cf Mt 13,19.23

Alleluia, alleluia.

Il seme è la parola di Dio

e il seminatore è Cristo:

chiunque trova lui, ha la vita eterna.

Alleluia.

L’alleluia all’Evangelo è la chiave di lettura di tutti i testi proposti questa Domenica. La composizione, anticipando la parabola evangelica, dichiara che il Seme fecondo è la Parola divina rigenerante (1 Pt 1,23; Giac 1,18), e il Seminatore buono è Cristo Signore. E vive in eterno chi trova Lui.

Anche in questa Domenica continua l’evangelizzazione di Gesù che con la Parola e i segni, prepara gli uomini all’incontro con il Padre. Siamo al terzo discorso programmatico dell’evangelo di Matteo; la formula consueta di chiusura del v. 53 lo indica chiaramente. È la «giornata» delle parabole.

Nella narrazione dell’evangelista Matteo continua il clima di incomprensione e di rifiuto che circonda Gesù: i capitoli 11 e 12 presentano la sempre crescente ostilità dei farisei e delle autorità giudaiche fino al punto di attribuire l’opera del Cristo all’intervento stesso di Satana (12,22-32). La rottura definitiva sta diventando inevitabile. A questo punto si colloca il discorso centrale dell’evangelo di Matteo, il discorso in parabole contenuto nel capitolo 13 e concluso dall’estremo rifiuto riservato a Gesù dai suoi compaesani di Nazaret (13,53-58). L’uso delle parabole non è nuovo nell’ambiente in cui vive Gesù: l’antico testamento offre molti esempi di questo modo di esprimersi, utilizzato normalmente dai rabbini del tempo. Eppure la maniera in cui Gesù se ne serve suscita sorpresa. Dopo una predicazione che aveva annunciato apertamente l’avvicinarsi del regno dei cieli, e quindi la necessità di convertirsi al Signore, l’insegnamento in parabole ritorna sugli stessi contenuti, ma questa volta in forma velata. Gesù non si serve delle parabole soltanto per adottare un linguaggio più immediato. Le immagini sono eloquenti, senza dubbio, ma possono anche confondere. Per capire bisogna cercare, riflettere, interrogarsi, accettando la provocazione di un narratore che raggiunge i suoi ascoltatori nelle pieghe più nascoste del loro intimo. Ogni evangelista ha spiegato a suo modo il perché delle parabole. Secondo Matteo, per comprenderle bisogna avere il cuore aperto alla rivelazione, sinceramente desideroso di accogliere e di mettere in pratica la Parola, nonostante le opposizioni che essa incontra e i suoi apparenti insuccessi. Dobbiamo ammettere che anche noi conosciamo dei momenti in cui tutto sembra concorrere ad impedirci di ricevere l’evangelo e a farci dubitare del suo futuro nel mondo. Sono passati ormai duemila anni da quando «il seminatore uscì a seminare», e a volte siamo tentati di dire: che spreco di semi, che grosse perdite! Ma la nostra risposta alla folle prodigalità di Dio dovrebbe consistere piuttosto nell’afferrare senza indugio la parola udita, per lasciarci a nostra volta afferrare da essa, impegnandoci nel cammino dell’obbedienza e dello zelo missionario al suo servizio. Non sarà proprio questo ciò che Gesù chiama «comprendere» le parabole?

Il capitolo presenta una struttura abbastanza chiara:

  • una breve introduzione (l-3a) inquadra tutto il discorso parabolico;
  • questo è diviso in due parti:
  1. La prima (3b-23) è costituita dalla parabola del seminatore, dall’indicazione del perché dell’uso delle parabole e dalla spiegazione della parabola;
  2. la seconda (24-50) comprende la parabola della gramigna (24-30), a cui sono aggiunte altre due, del grano di senape (31-32) e del lievito (33), l’indicazione del perché del discorso parabolico (34-35) e la spiegazione della parabola della gramigna (36-43), con raggiunta finale di altre tre parabole, del tesoro (44), della perla (45-46), della rete (47-50).

Come si vede, nelle due parti ricorre lo stesso schema tripartito:

  1. parabola,
  2. perché della parabola,
  3. spiegazione della parabola.

Una breve conclusione, anche essa in forma parabolica, chiude la raccolta (51-52). Matteo 13,1-52 presenta sette (o otto cf v. 52) parabole. Prendendo parte del materiale da Mc 4,1-34, Matteo ha ampliato e completato la sua fonte per farne il terzo lungo discorso di Gesù. Nella posizione di terzo dei cinque discorsi principali di Gesù e messo a metà dell’Evangelo, il «giorno delle parabole» assume un’importanza centrale. Con questo discorso il pubblico al quale è diretto l’insegnamento di Gesù passa dalle folle e dai suoi discepoli ai discepoli in genere. Per la sua importanza, la parabola del seminatore è patrimonio comune dei tre Sinottici (Lc 8,4-13; Mc 4,1-20). La nostra pericope, la prima parte del «giorno delle parabole» di Matteo (13,1-23), segue Mc 4,1-20 molto fedelmente. La struttura generale è la stessa: l’ambientazione (Mt 13,l-3a = Mc 4,1-2), la parabola del seminatore (Mt 13,3b-9 = Mc 4,3-9), il motivo del parlare con parabole (Mt 13,10-17 = Mc 4,10-12), e l’interpretazione della parabola (Mt 13,18-23 = Mc 4,13-20). Mentre sostanzialmente riproduce i testi di Marco per quanto riguarda la parabola e la sua interpretazione, Matteo ha leggermente ampliato l’ambientazione e ha aggiunto vari elementi al motivo del parlare per mezzo di parabole. Questo indica che ciò che interessa in particolare a Matteo è il motivo per cui Gesù parla con parabole e le contrastanti reazioni alle sue parabole.

La scena (Mt 13,l-3a) è ripresa da Marco ed abbellita per legare il racconto a ciò che precede. Dato che in Mt 12,46-50 Gesù si trova in casa, ora deve uscire di casa e andare in riva al mare. La pittoresca scena di Gesù seduto su una barca a qualche distanza dalla riva con la folla che lo osserva dalla riva è presa da Marco. Il lettore di Matteo può immaginarsi un’insenatura lungo la sponda occidentale del Mare di Galilea. La scena offre un’ambientazione adatta per l’ultima parabola della serie, quella della rete da pesca (Mt 13,47-50).

Il tema principale della presentazione che fa Matteo delle parabole di Gesù è dunque il mistero del rifiuto e dell’accoglienza della Parola di Gesù sul Regno. Così Matteo mette in relazione ciò che era sicuramente una realtà tanto durante il ministero pubblico di Gesù quanto all’interno della propria esperienza verso la fine del primo secolo d.C. Per Matteo le parabole contribuivano a far luce su ciò che era una dolorosa realtà per i giudeo-cristiani: non tutti i Giudei accettavano le rivendicazioni cristiane riguardo a Gesù. La parabola è uno dei mezzi espressivi più caratteristici impiegati da Gesù per esporre ai contemporanei il suo insegnamento. Le radici di questa forma letteraria affondano nell’A.T. particolarmente nella letteratura sapienziale e in quella rabbinica. L’aneddoto immaginario induce l’ascoltatore ad accettare una verità che egli non vede immediatamente applicabile a se stesso (cf 2 Sam 12,1-14; 1 Re 20,35-40).

Il racconto ha anche la funzione di intensificare la curiosità e di attirare l’attenzione degli uditori per indurli alla ricerca, facendo intuire la profondità e l’importanza dell’insegnamento che si vuole dare. Ma le parabole evangeliche del regno, oltre alla funzione didattica di «chiarificare» o di incitare gli uditori alla riflessione, hanno soprattutto uno scopo teologico: esse nascondono agli occhi di chi è mal disposto il mistero: «affinché – è l’amara esperienza fatta dal profeta Isaia di fronte all’ostinata insensibilità del popolo eletto, che ora si ripete nella predicazione di Gesù -vedendo non vedrete, udendo non comprenderete e si convertano e sia concesso loro il perdono (Is 6,9-10).

Le parabole furono modificate nell’insegnamento della comunità; queste modificazioni emergono chiaramente quando si mettono a confronto le differenti versioni della stessa parabola nei diversi evangeli. I commenti alle parabole (vedi 13,18-23.36-43) e gran parte delle caratteristiche allegoriche sono quasi universalmente considerati dagli studiosi moderni come elaborazioni fatte dalla Chiesa primitiva. La raccolta di parabole costituisce uno dei due grandi discorsi di Marco e Matteo usa l’interà raccolta eccetto Mc 4,26-29, aggiungendo altre parabole attinte sia da Qumran, sia da una fonte propria. Qui Matteo segue Marco nel collocare l’insegnamento in una barca sulla spiaggia del lago; la scena di Luca è diversa.

Esaminiamo il brano

1-3 «In quel giorno»: formula non precisata ma che indica un momento importante (è in quel kairos tra 11,25; 12,1 e 14,1) per Gesù e per i discepoli. Matteo modifica Marco 4,1 («Di nuovo si mise a insegnare lungo il mare») in diversi modi: «Quel giorno» collega Mt 13,1-52 con il capitolo precedente e fa dell’intero testo «il giorno delle parabole».

«Uscì di casa» fa seguito al soggiorno di Gesù in casa di Mt 12,46-50. Sedendosi in riva al mare, Gesù adotta l’abituale posizione del maestro che è al centro dell’attenzione della folla.

Siamo nella “giornata” delle parabole; cornice creata dall’evangelista per raccogliere in una unità letteraria le rivelazioni, sotto forma di parabole, fatte dal Signore in circostanze diverse.

Rispetto a Marco, Matteo evidenzia che Gesù è passato dalla casa al lago: il particolare ha un significato simbolico, indica il passaggio dalla rivelazione speciale riservata ai discepoli alla rivelazione pubblica aperta alla folla.

2 «egli salì su una barca»: La pittoresca scenetta è ripresa da Mc 4,1. Dobbiamo immaginarci una folla tanto grande che l’unico modo per Gesù di poter essere visto e ascoltato da tutti era di salire su una barca e parlare alla folla da una certa distanza dalla riva. Il pubblico del «giorno delle parabole» è la «folla». Il senso di molte delle parabole sarà il modo in cui i componenti della folla rispondono alla predicazione di Gesù.

«parlò»: mentre per Marco Gesù insegna, Matteo qualifica il suo linguaggio come un parlare; qui siamo in un discorso di rivelazione della realtà nascosta del regno di Dio. Si distingue nettamente dal discorso della montagna (5,2), dove riserva l’insegnamento all’esposizione che Cristo fa delle esigenze divine in quanto maestro della legge.

«loro»: Secondo l’unanime testimonianza degli evangeli sinottici, i destinatari delle parabole sono le folle. Secondo la precisazione di Mc 4,33 Gesù usa questo tipo di linguaggio per rendere più comprensibile il suo insegnamento: a gente semplice parola semplice.

«con parabole»: Il modo caratteristico di Gesù di insegnare alla folla è quello delle «parabole», termine che nelle lingue semitiche ha diversi significati, dalla «storiella» alla «similitudine» all’«indovinello». I motivi per cui Gesù adotta questa tecnica di insegnamento sono spiegati in Mt 13,10-17 e 13,34-35. Aggiungendo alcune citazioni bibliche (Is 6,9-10; Sal 78,2) alla fonte di Marco, Matteo suggerisce che si trattava della volontà di Dio espressa nelle Scritture.

La più chiara definizione della parabola è quella data da C. H. Dodd: «una metafora o una similitudine tratta dalla natura o dalla vita quotidiana che colpisce l’ascoltatore con la sua vivezza e originalità e lo lascia in quel minimo di dubbio riguardo il significato dell’immagine sufficiente a stimolare il pensiero» e le reazioni aggiungiamo noi [cf ad es. la reazione di Davide alla parabola di Natan (2 Sam 12,1-14)].

L’argomento delle parabole è il Regno dei cieli. Tutte le parabole di Mt 13,1-52, eccettuata quella del seminatore, cominciano con la frase: «Il regno dei cieli…» (vedi 13,24.31.33.44.45.47.[52?]). E non c’è dubbio che anche quella del seminatore riguarda le reazioni al messaggio del Regno dei cieli.

vv. 3-9 Questa parabola, riportata senza variazioni notevoli da tutti e tre i sinottici è una semplice descrizione del processo di aratura in Palestina, del tipo di terreno su cui viene gettato il seme, e dei soliti risultati. La parabola è da attribuire personalmente a Gesù (come fa la maggior parte degli interpreti), bisogna dire che è particolarmente adatta per un pubblico costituito in larga misura da agricoltori galilei. In una società agricola anche i non coltivatori dovevano avere qualche nozione della semina e dei raccolti. Possiamo a ragion veduta supporre che anche i lettori di Matteo fossero al corrente di tali attività e vi si trovassero a loro agio.

«il seminatore»: è il protagonista del racconto parabolico; la presenza dell’articolo, che per sé potrebbe intendersi come un articolo di categoria, sta forse ad indicare già dalle prime battute Gesù che «uscito» dal Padre è venuto nel mondo a gettare il seme salvifico della Parola.

La «strada» non è la strada principale, ma quella parte del campo che a forza di camminarvi sopra si trasforma in un sentiero di campagna.

Le «spine», l’erbaccia più comune nei campi, non vengono strappate prima dell’aratura ma vengono sotterrate dall’aratro insieme al seme.

Il «seme» viene sparso su tutto il campo, anche alle estremità e agli angoli dove la roccia arriva quasi in superfìcie.

Nonostante il titolo tradizionale della parabola: «il seminatore» (vedi Mt 13,18), il vero punto d’interesse della parabola è il seme e la resa che esso dà nei vari tipi di terreno. Più importante ancora che il risultato delle quattro diverse semine è il contrasto tra le tre semine infruttuose e la quarta semina eccezionalmente fruttuosa.

Il seminatore non fa altro che seguire la normale prassi agricola palestinese secondo cui la semina si fa prima dell’aratura. In altre parole, il contadino prima semina e poi sotterra il grano con un’aratura superficiale. Questa è per molti la spiegazione, inizialmente attraente, in realtà non corrisponde a ciò che poi avviene nella parabola. Piuttosto che cercare di sostenere la verosimiglianza della parabola, è meglio considerare il peculiare comportamento del seminatore come parte dell’«originalità» della storiella. La descrizione di ciò che accade al grano seminato sui vari tipi di terreno mostra una buona conoscenza della terra e dell’agricoltura. Ma in tutti i casi descritti non c’è nessuna indicazione che il seminatore intenda poi tornare sul campo ad arare o a fare qualsiasi altra cosa. Una volta seminato, il seme è lasciato a se stesso. Il modo migliore di spiegare la prodigalità del seminatore è che essa fa parte del carattere «insolito» della similitudine, che ha lo scopo di attirare l’attenzione dell’ascoltatore e di creare tensione e aspettativa.

«il cento, il sessanta, il trenta»: la triplice infruttuosità è controbilanciata, e in modo sovrabbondante (in numeri sono indici di fruttuosità impensabili in Palestina), dalla triplice fruttuosità del seme caduto in terreno adatto. Il pessimismo iniziale cede il posto in modo del tutto insperato alle prospettive più rosee sulla sorte della predicazione evangelica. Matteo ha invertito l’ordine ascendente di Marco («ora il trenta… il sessanta… il cento per uno») dando così maggior risalto all’insolita resa.

Il 100 è il numero della benedizione plenaria, come avvenne a Isacco quando seminò a Gerar (Gen 26,12). Nei numeri simbolici 100 (multiplo di 5 e di 50), la pienezza, 60, altra forma di pienezza (5 x 12) e 30, ennesima forma di pienezza (3 x 10).

«Chi ha orecchi intenda»: è un detto inserito per indicare che quanto fu affermato ha un significato più profondo di quanto sembri a prima vista. È questo il richiamo sapienziale, indica l’intendimento di tutta la persona.

La storia di Israele è un lungo ed insistente invito divino ad ascoltare con gli orecchi docili, che percepiranno così la divina Sapienza (Dt 5,1; Prov 2,2; Bar 3,9; Sal 78(77),1; ecc.). È la frase ammonitrice ricordata in ognuna delle sette lettere che il Cristo indirizza alle «Chiese» (Ap 2,7.11 ecc.).

10-17 Mt omette l’annotazione di Mc 4,10 secondo cui questa spiegazione fu data quando Gesù era solo con i discepoli; il carattere della spiegazione rimane comunque identico.

«a voi è dato conoscere… a loro non è dato »: il fatto che la conoscenza sia «data »ai discepoli e non sia concessa a «loro» non è dovuto a un rifiuto nel dare, ma a un rifiuto nel ricevere. In Dio non esiste preferenze di persone, ripete la Scrittura. Alla domanda dei discepoli, sintetica ed essenziale, fa seguito la ben articolata risposta di Gesù, che sottolinea drammaticamente una netta divisione fra «voi» e «loro», cioè fra i discepoli che accolgono la persona e l’opera del Cristo e gli altri che la rifiutano. Questo rifiuto è spiegato come una volontaria ostinazione perché, pur vedendo non vedono e non arrivano così alla comprensione;

Quale deve essere allora la lettura della nostra pericope. Tradizionalmente le parabole sono lette come riguardanti:

  1. i rapporti tra giudeo-cristiani (con i loro associati pagano-cristiani) e gli altri Giudei, tra quelli che accettano «la parola del regno» di Gesù e quelli che la rifiutano;
  2. il carattere «misto» dei cristiani all’interno della comunità matteana; ossia, della presenza del male nella comunità stessa.
  3. una contrapposizione tra la Chiesa e Israele (un filone di interpretazione tragicamente molto comune).

Una riflessione critica recente (cf Il Vangelo di Matteo di Daniel J. Harrington, ELLEDICI 2005) propone un approccio diverso: la comunità matteana vede se stessa come parte d’Israele, anzi, la parte «migliore» e deve spiegare a se stessa e a chiunque altro cui possa interessare perché alcuni Giudei accettano l’evangelo ed altri no. Così il problema che deve affrontare Matteo è una situazione intergiudaica, non dissimile dal problema incontrato da Gesù stesso nella sua predicazione. La differenza, ovviamente, scaturisce dalla croce e dalla risurrezione, dalle eccelse rivendicazioni attribuite a questi fatti dai cristiani e dallo scandalo che questi costituiscono per gli altri Giudei.

La situazione con cui dovevano confrontarsi Matteo e la sua comunità era pertanto simile a quella trattata da Paolo in Romani 9-11. Nella sua lettera Paolo ha cercato di risolvere il problema del rifiuto dell’evangelo da parte dei Giudei e la sua accettazione da parte dei pagani con l’analogia dell’ulivo. Il rimanente (i cristiani giudei come Paolo) rappresentava il principio della continuità. I cristiani di origine pagana sono stati innestati sull’ulivo, mentre i Giudei non cristiani ne sono stati tagliati. Che questo mistero rappresenti la volontà di Dio è «dimostrato» da molte citazioni delle Scritture.

Il problema di Matteo era identico a quello di Paolo: il mistero delle diverse reazioni all’evangelo e di come affrontarle. È improbabile che Matteo abbia avuto occasione di parlare direttamente con Paolo di queste cose. E comunque dimostra di non essere a conoscenza dell’originale soluzione data da Paolo al mistero: «l’indurimento di una parte d’Israele è in atto fino a che saranno entrate tutte le genti. Allora tutto Israele sarà salvato» (Rm 11,25-26). Matteo sfrutta anche lui il motivo dell’«indurimento» (vedi Mt 13,10-17), ma senza mostrare alcun interesse per un determinato numero di pagani («tutte le genti») né per la salvezza finale (escatologica) di tutto Israele. Matteo scrive circa trent’anni dopo Paolo e in un luogo diverso dal suo. Il problema della diversa accoglienza dell’evangelo rimane però attuale. La soluzione di Matteo è più limitata di quella data da Paolo e si concentra sul passato e sul presente, non sul futuro.

11 «Perché a voi è dato conoscere»: Qui dobbiamo probabilmente supporre una costruzione col «passivo divino», ossia, il soggetto sottinteso è Dio («Dio vi ha dato di conoscere…»). Tipica dello stile ebraico, la costruzione serve anche a mantenere un’aria di «mistero» nel trattare di un qualcosa di misterioso. Per i lettori di Matteo, tuttavia, il soggetto era ben chiaro.

«i misteri del regno dei cieli»: L’uso di «dei cieli» al posto di «di Dio» è tipico dello stile di Matteo. La stessa abitudine si nota in 1 Maccabei ed è dovuta al rispetto che avevano gli Ebrei per il nome divino. I «misteri» vanno intesi in senso apocalittico come in Daniele 2: i disegni di Dio per quanto concerne il suo regno. Potrebbe esserci anche un parallelo con Rm 11,25 dove il termine è usato in relazione al rifiuto di Gesù da parte dei Giudei.

«a chi ha sarà dato»: espressione dura che ad alcuni può apparire deludente come spiegazione. Chi possiede, riceverà di più e abbonderà (Mt 25,29; Gv 15,2). La parabola dei talenti (25,14-30) in realtà lo spiega bene: tutti hanno ricevuto dall’inizio i loro talenti. Tutti hanno. Alcuni li commerciano, e dunque abbondano nella gioia del Signore; altri li immobilizzano e li rendono sterili. A questi è tolto tutto, poiché è come se non avessero mai avuto. La delusione non esiste più, dove esiste una coscienza accorta e vigile.

«profezia di Isaia»: Il motivo dell’«indurimento» espresso in Is 6,9-10, l’allusione a questo testo in Mc 4,12 è ripresa in Mt 13,13, seguita poi dal testo completo in Mt 13,14-15. Il contesto biblico è quello dell’incarico dato da Dio al profeta Isaia. Al termine della visione di Isaia della maestà, il profeta viene mandato a predicare con il paradossale incarico di aumentare la pertinacia di quelli ai quali manifesta la volontà di Dio. Il profeta deve procedere così fino a quando non venga la distruzione e l’esilio e non rimanga che un «ceppo» (Is 6,13) o un resto. Il testo doveva essere un efficace strumento per i primi cristiani nel loro impegno di mettere Gesù in relazione ai grandi personaggi biblici (come il profeta Isaia) e di spiegare perché non tutti i Giudei hanno accettato il messaggio di Gesù. Il testo è riportato anche in At 28,26-27 e in Gv 12,40 ed è dato per scontato in Romani 9-11. Senza spiegare esattamente perché il messaggio di Isaia (e di Gesù) venga respinto, la citazione descrive il fenomeno dell,«indurimento» da parte del popolo e lo presenta come conforme alle Scritture e perciò alla volontà di Dio.

I motivi dell’«indurimento» del popolo sono spiegati nella cosiddetta interpretazione «allegorica» della parabola (Mt 13,18-23) ripresa da Mc 4,13-20. La terminologia è certamente più tipica delle Epistole che degli Evangeli. Le situazioni descritte probabilmente rispecchiano le mancanze di alcuni dei primi cristiani. Il testo viene spesso preso come una specie di «esame di coscienza» o come lo schema di una predica basata sulla parabola del seminatore. Perfino il più erudito e strenuo sostenitore dell’autenticità delle parole di Gesù ha attribuito questo testo non a Gesù ma alla Chiesa primitiva[1].

Nella concezione biblica il rifiuto della fede diviene esso stesso il castigo per il rifiuto della fede. In Matteo il detto si inserisce perfettamente nella crescente ostilità dei giudei nei confronti di Gesù (hanno raggiunto l’apice nella controversia su Beelzebul, 12,25-37).

La Parola è predicata continuamente, dai profeti nell’A.T., da Gesù e dagli apostoli nel N.T.; ogni generazione è lasciata alla sua responsabilità di scelta, accettare o rifiutare (cf anche reazione del faraone in Es 4,21; 7,3.22; ecc..alla Parola del Signore e alla sua potenza). Ogni generazione è preavvertita, e non avrà alcuna scusa.

18-23 Questo brano è ora considerato da quasi tutti i commentatori come l’interpretazione data alla parabola dalla comunità cristiana primitiva.

Che la parabola del seminatore riguardi qualcosa che va oltre all’agricoltura è suggerito da due testi di 4 Esdra, uno scritto giudaico palestinese composto attorno al 100 d.C. che riflette sulle implicazioni teologiche della distruzione di Gerusalemme e del suo Tempio nel 70 d.C. In quest’opera, grossomodo contemporanea con l’Evangelo di Matteo, la metafora del seme/raccolto è un motivo di spicco: «Perché proprio come il contadino semina molti semi nel terreno e pianta una moltitudine di piantine, eppure non tutto ciò che è stato seminato spunterà a tempo debito e non tutto ciò che è stato piantato metterà radici; così non tutti coloro che sono stati seminati nel mondo saranno salvati» (4 Esdra 8,41).

In 4 Esdra 9,31 il seme è equiparato alla Legge («Io ho seminato la mia Legge in te»), e si fa una distinzione tra il carattere eterno del seme (la Legge) e il carattere perituro di quelli che hanno ricevuto la Legge ma peccano (9,32-37). Nel contesto cristiano degli Evangeli il seme è «la parola del regno» predicata da Gesù, ma tanto nell’apocalittica giudaica quanto nelle prime tradizioni cristiane c’è la preoccupazione di spiegare perché non tutte le piantine danno un abbondante raccolto e perché solo alcune lo fanno.

19 «il Maligno»: In Matteo è usato solo qui e in 13,38; questo modo di chiamare il diavolo è più comune nell’evangelo giovanneo (vedi Gv 17,15; 1 Gv 2,13-14; 3,12; 5,18-19). Nei testi paralleli Marco 4,15 usa «satana» e Luca 8,12 «il diavolo». Il «cuore» comprende sia l’aspetto intellettuale sia quello emotivo; nella scrittura indica ciò che fa muovere l’uomo, la sua volontà.

21 «radici»: Il termine «radice» è usato come metafora per la stabilità interna (vedi Col 2,7; Ef 3,17). Gran parte della terminologia usata in questo passo – «seminare» nel senso di «predicare», «è incostante», «seduzione», «ricchezza», ecc. – è insolita per gli Evangeli ma tipica delle Epistole. Questo fenomeno ha suggerito che l’interpretazione della parabola rispecchi le esperienze della Chiesa primitiva e deve essere attribuita ad essa

La Chiesa primitiva, senza alterare il significato originale, ha dunque messo in risalto non tanto la figura del seminatore, quanto piuttosto il seme, che trova diversi terreni. Essi riflettono i vari atteggiamenti dei fedeli, i quali hanno accettato di convertirsi al Regno, alla Parola di Dio, ma poi col sopraggiungere delle varie prove perdono il coraggio e la fede (cf I lett. dove il «resto d’Israele» è vittima delle persecuzioni dei vincitori e di coloro che hanno abbandonato la fede; II lett. Paolo che si rivolge ai primi cristiani).

Matteo propone un elenco di motivi per cui alcuni Giudei non hanno accettato e agito secondo la predicazione di Gesù:

  1. l’attività del Maligno (Mt 13,19),
  2. la superficialità personale (13,20-21),
  3. le preoccupazioni mondane e la seduzione della ricchezza (13,22).

Questi motivi sono messi dall’evangelista a confronto con il discepolo ideale che «ascolta la Parola e la comprende» (13,23). Mentre l’interpretazione originale può benissimo essere stata usata per spiegare alcuni problemi all’interno della comunità cristiana dopo la morte e risurrezione di Gesù, Matteo la fa risalire al ministero terreno di Gesù e la usa per far luce sulla misteriosa situazione per cui alcuni Giudei hanno accettato ed altri hanno rifiutato la predicazione di Gesù.

Il regno (o la proclamazione del regno) è certamente il tema centrale della parabola. Il regno si attuerà malgrado tutti gli ostacoli; come la crescita del raccolto, che arriva a maturazione e anche con abbondanza malgrado le difficoltà che sembrano insormontabili. È l’ottimismo che dovrebbe ispirare i predicatori dell’evangelo.

La parabola viene presentata come un tema sul quale è possibile fare delle riflessioni e dal quale si possono ricavare tutti i significati che si desiderano; è su questa base che fu composta la più antica spiegazione della parabola.

II Colletta

Accresci in noi, o Padre,

con la potenza del tuo Spirito

la disponibilità ad accogliere

il germe della tua parola,

che continui a seminare nei solchi dell’umanità,

perché fruttifichi in opere di giustizia e di pace

e riveli al mondo la beata speranza del tuo regno.

Per il nostro Signore Gesù Cristo… 

Antifona alla Comunione Sal 83,4-5

Il passero trova la casa,

la rondine il nido dove porre i suoi piccoli,

presso i tuoi altari, Signore degli eserciti,

mio re e mio Dio.

Beato chi abita la tua casa:

sempre canta le tue lodi.

La preghiera della nuova colletta e l’antifona alla comunione (Sal 83,4-5) ci ricordano il desiderio del cristiano di rinnovare “oggi” l’accoglienza della Parola per dare nuovi e buoni frutti. Come gli uccelli dell’aria, nella loro apparente spensieratezza, sono molto preoccupati di trovare il nido per loro e per i piccini, il fedele anche deve avere il suo nido sicuro. La nostra costante dimora sono gli altari, quello del sacrificio, quello dell’aroma soave che brucia gradito al Signore, quello del Pane. Così abitando alla presenza del Signore e avendo fatto delle nostre comunità e del nostro cuore il santuario della Divina Presenza del Signore possiamo per i secoli eterni glorificare il nostro Signore.

È la situazione dei fedeli «oggi qui», che nel santuario divino ricevono la Parola, la Mensa e la Comunità Madre nostra, pronti a restituire al Signore i frutti abbondanti per la grazia dello Spirito Santo.

[1]          – Così Joachim Jeremias confessa: «Per lungo tempo io mi sono rifiutato di accogliere l’idea secondo la quale questa spiegazione della parabola era opera della Chiesa primitiva. Ma questa idea, anche soltanto per ragioni linguistiche, ormai s’impone» (Parabole, 90).

Fonte: Abbazia di Santa Maria a Pulsano

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