Commento al Vangelo di domenica 1 Agosto 2021 – Comunità di Pulsano

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DOMENICA «I DEL DISCORSO EUCARISTICO»

La mancanza di appetito è sempre un segno preoccupante per la salute fisica o morale di una persona. L’uomo nasce affamato ed è la sua fortuna. Ha fame di sua madre, del latte che essa gli offre e dell’affetto di cui lo circonda. Ha bisogno di amare e di essere amato. Va incontro alla vita portando dentro di sé questa fame. Leggiamo oggi l’inizio del lungo discorso rivolto da Gesù alla folla che voleva farlo re, dopo l’episodio della moltiplicazione dei pani. La reazione della gente è comprensibile di fronte a uno che distribuisce gratuitamente da mangiare a tutti! Ma Gesù si sottrae al loro equivoco entusiasmo e in seguito prende la parola per mettere in chiaro le cose. «Voi mi cercate, ma non avete capito che cosa suggeriva a proposito della mia persona il segno del pane moltiplicato», rimprovera loro prima di tutto.

Quindi prosegue, facendo riferimento a una delle preoccupazioni fondamentali della religione giudaica: «L’opera che dovete fare, non consiste nel rincorrere un cibo che perisce, ma nel riconoscere nel segno che ho compiuto l’intervento del Padre che mi indica come il suo inviato. Credere in me, ecco ciò che dovete fare!». Credere in lui? La folla è stupefatta: ha saziato la loro fame, è vero, ma come può pretendere di saziare anche il loro cuore, di colmare la loro vita? Tanto più che il pane moltiplicato non era che comune pane d’orzo: non era la manna venuta dal cielo, che Mosé aveva ottenuto da Dio nel deserto dell’esodo. «lo sono il pane della vita»: ecco finalmente la grande affermazione, la rivendicazione suprema, la verità che Gesù voleva rivelare alla folla attraverso il segno della moltiplicazione dei pani.

Mentre nell’antico testamento la Sapienza diceva: «Quanti si nutrono di me avranno ancora fame» (Sir 24,20), Gesù ora può affermare: «Chi viene a me non avrà più fame e chi crede in me non avrà più sete». Se dunque avete fame di qualcosa di diverso dal pane, se avete dentro di voi una sete inesprimibile, non limitatevi ad aspettare da Gesù un cibo che perisce. La chiave del nostro futuro è lui, lui solo! È lui che dobbiamo cercare, non i pani del miracolo.

Seguiamo ora le indicazioni dell’eucologia:

Antifona d’Ingresso Sal 69,2.6

O Dio, vieni a salvarmi.

Signore, vieni presto, in mio aiuto.

Sei tu il mio soccorso, la mia salvezza:

Signore, non tardare.

All’inizio della Divina Liturgia di questa Domenica questo celebre testo che è posto, come molti sanno, all’inizio dell’officiatura delle sante Ore. L’orante chiede con due epiclesi parallele che il Signore venga in soccorso, anzi che si affretti ad aiutare. Non tardare, le necessità dei suoi fedeli sono così urgenti e Lui è l’unico soccorso, l’unico liberatore, che non tardi, se non vuole che si perisca. L’Onnipotente viene in soccorso, come sempre, infatti l’Evangelo ci presenta il Signore che procede nel suo programma battesimale, ecco l’insegnamento, massima opera della carità del Regno con cui strappa gli uomini al regno del male, a satana e riporta al culto immacolato al Padre e va verso la Croce per acquisirsi la Sposa diletta.

Canto all’Evangelo Mt 4,4b

Alleluia, alleluia.

Non di solo pane vivrà l’uomo,

ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio.

Alleluia.

La contestazione del Signore tentato dal diavolo, che non di solo pane vive l’uomo, bensì di ogni Parola che proviene da Dio (Mt 4,4, che cita Dt 8,3), orienta la proclamazione dell’Evangelo di oggi, ma deve servire anche a condurre l’intera esistenza cristiana.

La pericope di questa XVIII Dom. T. O. è ancora presa dal quarto evangelo (e sarà così sino alla XXI). La lettura evangelica prosegue la sequenza continua iniziata con il racconto della moltiplicazione dei pani (Gv 6,1-15) e comprendente l’intero discorso sul pane della vita (Gv 6,24-69).

Sulla struttura di questo lungo discorso si è discusso e si discute ancora; giova molto alla divisione del brano partire non dalla critica letteraria, ma da uno studio[1] (fra i tanti) della struttura redazionale.

Il risultato di tale studio evidenzia come il discorso di Cafarnao sia strutturato in cinque brani[2] costruiti nella forma chiastica[3] tipica del discorso giovanneo. Di questi cinque brani, uno rimane letterariamente distaccato (6,36-40), mentre gli altri si intersecano come una specie di incastro in modo che la finale del primo è anche inizio del secondo[4].

Il primo brano (vv. 26-35a), che è contenuto nella nostra lettura, si può considerare come la parte introduttiva del discorso e tratta della rivelazione di Gesù, vero pane di vita. Evidenziamo ora la struttura chiastica:

  1. i segni e i pani (v. 26);
  2. il cibo che rimane (v. 27a);
  3. il Padre ha posto il sigillo sul Figlio (v. 27b);
  4. quali opere operare? credere (vv. 28-29);

d’) che cosa operi tu? (vv. 30-31);
c’) non Mose, ma il Padre dà il vero pane (v. 32);
b’) il pane che dà la vita al mondo (v. 33);
a’) dacci… Io sono il pane della vita (v. 34-35).

La volta scorsa abbiamo rilevato come il c. 6 di Giovanni avesse alcuni brani anche negli evangeli sinottici; la moltiplicazione dei pani, la traversata del mare e la confessione di Pietro. Inoltre in Gv 6,51 abbiamo alcune espressioni che riecheggiano molto da vicino la formula tradizionale dell’istituzione dell’eucarestia[5].

Il confronto sinottico dell’omelia di Gesù sul pane della vita (vv. 2658) rivela una composizione originalissima del quarto evangelista e non vi è nulla di simile negli altri scritti del N.T. Tuttavia in questa pericope troviamo delle frasi e dei passi che si riscontrano in forma analoga negli evangeli sinottici: la mormorazione dei giudei riportata in 6,42 sembra riecheggiare le espressioni di meraviglia dei nazaretani di Mc 6,3 (vedi XIV Dom.; cf anche Mt 13,55 e Lc 4,22)[6]. Questo accostamento con gli altri evangelisti è più interessante, se si riflette che le due espressioni di meraviglia, ora richiamate, si hanno durante un servizio liturgico nella sinagoga (cf. Gv 6,59; Mc 6,2 e parall.).

Questo discorso contiene certamente elementi dottrinali antichi ma Giovanni ha rielaborato profondamente ed ampliato molto il dato tradizionale; non abbiamo tuttavia a nostra disposizione argomenti scientificamente validi per provare la storicità di questo sermone nel suo complesso[7].

Che la sostanza del discorso risalga a Gesù in persona non è improbabile, non possediamo però prove per dimostrarlo; si può altresì supporre, con buona attendibilità, che i quattro brani (che provengono da contesti anche letterariamente diversi e con uditori diversi), i quali si legano strutturalmente fra loro, fossero così legati anche in una tradizione[8] precedente, orale o scritta. È certo che il discorso sul pane della vita nella sua forma attuale appare una composizione altamente drammatica e profondamente teologica del quarto evangelista. Ciò che è importante comprendere è che abbiamo un discorso redazionalmente composito (sul tipo di quelli di Matteo, anche se non dello stesso genere) e che il redattore ha composto (non inventato!), utilizzando il materiale di tradizione, tramandato con sistemi mnemonici.

I lettura: Es 16,2-4.12-15

L’insegnamento è a non voltarsi indietro. La moglie di Lot volge uno sguardo ansioso sulla casa che abbandona, Pietro getta uno sguardo geloso sul discepolo prediletto, il contadino mette mano all’aratro volgendosi indietro, e gli ebrei rimpiangono le cipolle d’Egitto. Presa una decisione, bisogna rimanervi fedeli; offerto un dono, non lo si deve riprendere. A questa condizione soltanto si potrà gustare la presenza di Dio. Dio è con coloro che costruiscono l’avvenire; non ama quelli che trovano sempre che ai loro tempi era meglio.

Il Signore opera il prodigio al Mar Rosso e fa passare il popolo suo dalla schiavitù egiziana alla libertà, che sarà completa nella terra della promessa dove adesso lo conduce (Es 14-15). Israele giunge poi al deserto di Sin, che è orrido e invivibile (Es 16,1). Incombono le privazioni, ed esso nella sua impotenza prosegue la lunga serie delle mormorazioni nel deserto, peccato gravissimo. La prima è in massa contro Mosé e Aronne (vedi già 15,24; 17,2, etc). Dopo l’entusiasmo iniziale per la recuperata libertà (la constatazione, Es 14,30-31, e l’inno della vittoria, 15,1-18), la folla promiscua adesso comincia a considerare i loro capi, Mosé e Aronne, come veri temerari caporioni di un’insensata avventura, che porta un intero popolo dentro un deserto sconosciuto e impraticabile per natura, essendo il luogo tipico della fame e della sete, della calura giornaliera e del gelo notturno, delle belve feroci, dei serpenti velenosi e degli scorpioni, dei predoni sempre in agguato (v. 2). Nell’A. T., ma non meno nel N. T., “mormorare” sia contro Dio, sia contro i fratelli è considerato uno dei peccati più gravi, consistendo nella non fede e nella sfiducia e anche nell’avversione e nel rigetto. Israele nel deserto avrà per questo punizioni esemplari, e l’atroce, ultima punizione, che la generazione sopra i 40 anni non sarebbe entrata nella terra della promessa, in questo travolgendo anche Mosé (Num 14).

Così la mormorazione assume l’aspetto di una contestazione giudiziaria contro Mosé e Aronne. Prima sono enunciati i fatti (v. 3a): la folla stava bene in Egitto, dove l’abbondanza tipica di quella terra, con pane e carne senza fine, era ben goduta nella sazietà, anche se si era schiavi (Num 11,4-5). E magari il Signore poteva far morire tutti lì, ma nella pace (14,11; Num 20,3-5; Lam 4,9). Poi viene l’accusa formale: i due a disegno hanno portato la folla nel deserto per farla morire di fame, vero premeditato e spietato omicidio di massa (v. 3b). Mosé e Aronne corrono il pericolo della reazione violenta. Ma il Signore sta in ascolto e viene in soccorso di Mosé parlandogli e annunciandogli che farà piovere il “pane”, che significa il cibo, dal cielo, ossia in modo miracoloso e inaspettato (v. 4a; Sal 77,24-25; 104,40; Sap 20; Neh 9,15; Gv 6,31-32; 1 Cor 10,3-4). E dà anche le istruzioni per raccogliere questo pane. Il popolo deve raccoglierne solo la quantità sufficiente per nutrirsi per una giornata (Pr 30,8; Mt 6,11 : il «pane quotidiano», che fa vivere giorno per giorno). Questo è tuttavia un “segno” severo, il Signore “tenta”, mette alla prova questo suo popolo, se procederà o no secondo la sua Legge santa (v. 4b; 15,25; e vedi il grande testo di Dt 8,1-3). Poi parla di nuovo a Mosé, rammaricandosi per le mormorazioni del popolo, e inviandolo ad annunciargli che la sera mangerà carne e la mattina si sazierà di pane. In questo modo tutti conosceranno che si rende presente il Signore, il Dio dell’alleanza (v. 12). Così quella sera viene un passo stagionale di pernici, che si posa in massa sull’accampamento (v. 13a; fatto rievocato in Num 11,31, e dal Salmista, Sal 77,27-28; 104,40). La cacciagione in ogni tempo è stato un cibo avidamente ricercato.

La mattina dopo gli Ebrei trovano anche una strana rugiada che ha cosparso il terreno intorno all’accampamento (v. 13b; Nm 11,9), e che appare come una sostanza minuta di consistenza, quasi come grani battuti, simili alla brina (v. 14; Nm 11,7; Di 8,3; Neh 9,15; Sal 77,24; 104,40; Sap 18,20; Gv 6,31.49.59). Allora si interrogano: «Man, hu’», che in ebraico significa alla lettera «Chi [è], questo?», da cui viene il fatidico nome “manna”. Essi ancora non conoscevano questa sostanza (Dt 8,3). Mosè pazientemente spiega che è il pane dono del Signore per nutrire il suo popolo (v. 15). La manna poi accompagnerà il cammino d’Israele nel deserto e terminerà di nutrirlo quando esso sarà entrato nella terra della promessa e comincerà a mangiarne i prodotti (Gios 5,10-12).

Il Salmo responsoriale: 77,3.4bc,23-24.25.54, Dst (Didattico storico)

Il Versetto responsorio: «Donaci, Signore, il pane del cielo » (v. 24b), fa cantare il frumento caduto dal cielo. Il contenuto di questo Salmo in sé è assai negativo e quindi è appropriato solo in rapporto alla Profezia di oggi, con le sue mormorazioni del popolo contro Mosé e contro il Signore. Tuttavia, interpretati in nesso con l’Evangelo di oggi, va detto che presi alla lettera e nel loro contesto salmico, i versetti qui scelti con forbici ingegnose dicono il contrario rispetto alla pericope evangelica di oggi e gli si fa significare quello che non dicono. In questo caso il Salterio contiene grande quantità di testi per esprimere la meraviglia per i doni del Signore elargiti con abbondanza ai suoi fedeli. Vige qui forzato “adattamento” di testi non adattabili a credute necessità celebrative. Si tradisce la “didattica storica” del salmo.

Il Salmista, che è anche sapiente in Israele, intende insegnare alle giovani generazioni i fatti del passato, affinché non cadano negli errori mortali dei padri quando vissero nel deserto (vv. 1-8), sotto i benefici divini immeritati ma anche male accolti. I giovani tuttavia tramandandosi la tradizione, debbono saper ricavarne le lodi del Signore per i fatti prodigiosi che operò allora (vv. 3-4bc). Tra questi prodigi, il Signore inviò nubi di cibo, avendo come aperto le porte all’abbondanza del cielo (v. 23) e il risultato fu la manna, una specie di “pane”, ossia di “cibo” che proveniva dal cielo e qui si può intendere anche delle pernici (v. 24). Così gli uomini si nutrirono in forte abbondanza di «pane dei ‘abirim» (v. 25), che in ebraico significa dei “forti”, dei capi dei forti soldati; in greco il termine è reso con “angeli”, da non intendere, come fu poi inteso per traslato non autorizzato, il Pane divino degli Angeli di Dio, ma solo un cibo prelibato che mangiano persone superiori e che quindi gli uomini non conoscevano. Ai vv. 29-31 questo «pane dei forti o degli angeli», ottenuto dopo le mormorazioni, fu proprio la causa della punizione esemplare che il Signore riservò a quei “mangiatori”; l’amputazione del Salmo non considera questi fatti.

Così il Signore condusse Israele dentro i confini del suo santuario, che è la terra della promessa, fino a donare ad esso il Monte Sion, che Egli si acquistò liberandolo dai pagani che prima lo occupavano (v. 54).

Esaminiamo il brano

22-25: Questi brevi vv. introduttori che descrivono il viaggio della folla dal luogo della moltiplicazione dei pani a Cafarnao, in cerca di Gesù, costituiscono uno dei tanti sommari storici presenti nell’evangelo di Gv (cf nota 4).

Per la problematica stuttura logica e grammaticale certamente è il più difficile fra i sommari di Giovanni avendo anche subito, molto probabilmente, successive rielaborazioni.

Il taglio della pericope di oggi resta a metà strada dalle affermazioni della prima parte del complesso discorso. La narrazione dà la situazione topografica e la successione dei fatti iniziali. Dall’oriente del Lago di Genesaret, dove era avvenuta la moltiplicazione dei pani e dei pesci (Gv 6,1-15), la sera i discepoli in barca tornano ad occidente del lago, traversandolo in diagonale, verso Cafarnao, sono sorpresi dalla tempesta ma sono soccorsi da Gesù, che opera il “segno” di camminare sulle acque (6,16-21). Il giorno dopo la folla che aveva goduto della moltiplicazione operata da Gesù, scopre che i discepoli erano partiti, e che Gesù non era salito sulla barca (6,22). Intanto vengono barche da Tiberiade (sulla riva occidentale in basso al lago) a rilevare la folla, la quale si fa trasportare in diagonale a Cafarnao, alla riva settentrionale del lago, alla ricerca di Gesù (vv. 23-24). L’intuito è premiato, perché la folla trova Gesù, lo attornia e gli chiede quando era arrivato lì (v. 25).

L’osservazione del v. 22, che Gesù non era salpato con i suoi discepoli, nè poteva essere partito con altre barche perchè non ve n’erano, serve a preparare la domanda, piena di meraviglia e di pagana curiosità, che la folla rivolgerà al maestro al v. 25. La folla assicuratasi che il maestro non era più sul luogo del segno salpa verso Cafarnao in cerca di lui. Se pensiamo al numero delle persone che seguiva Gesù (cfr. v. 10) sarebbe occorsa una intera flotta per il trasporto indicato dall’evangelo. Forse si tratta di un brano di tradizione storica (si pensi alla provenienza non comune delle barche) che tuttavia, nell’economia generale del racconto ha la funzione di portare un uditorio intorno a Gesù. Che l’insieme sia costruito artificiosamente con pezzi diversi di tradizione lo dimostra anche la conclusione del racconto dove, inaspettatamente, dalla riva del lago ci troviamo trasferiti nella sinagoga di Cafarnao (6,59).

Questo popolo sembra pieno di fede come i primi discepoli (cf. Gv l,38s) e come Maria Maddalena (cf. Gv 20,15); in realtà essi non credono nel Cristo, la loro non è fede, ma solo curiosità o simpatia superficiale, come risulterà dal seguito del racconto.

«Rabbi, quando sei arrivato qui?»: la folla ritrova il Maestro a Cafarnao e subito vuol appagare la propria curiosità. L’atteggiamento di queste persone verso il Maestro è analogo a quello di Nicodemo (cf. Gv 3,lss). Non è improbabile che l’uso del medesimo appellativo rabbi nei due episodi voglia insinuare la somiglianza delle situazioni spirituali. Non sembra fortuito che nei due casi la simpatia per Gesù, fondata sui segni, ben presto si dilegui.

Merita attenzione il fatto che a Gesù qui viene dato il semplice titolo di rabbi (titolo ufficiale degli scribi palestinesi), quasi non ricordando che, subito dopo il miracolo, la gente lo aveva dichiarato profeta e volevano «prenderlo per farlo re» (Gv 6,14-15).

26-30 Qui abbiamo forse dei detti di Gesù legati nella tradizione orale mediante il sistema mnemonico della parola-aggancio. I termini (verbo e oggetto) che ricorrono più frequentemente sono operare – opera, che s’incontrano cinque volte e nel discorso di Cafarnao si trovano solo in questo brano.

26 – «In verità, in verità»: traslitterazione dell’eb. amen = certamente; Marco lo usa 12 volte; Mt 30; Lc 5, Gv 25 ma nella forma raddoppiata. In Gv 6 la ritroviamo per quattro volte (cf vv. 26.32.47.53).

Spiegando la fine del brano della moltiplicazione dei pani e dei pesci (vv. 14-15; vedi Domenica precedente), si era annotato che Gesù diffidava dalla folla, con i suoi entusiasmi improvvisi e i suoi inaspettati mutamenti di umore. E anche adesso, qualche ora dopo, cerca con calma di portarla a ragionare. E iniziando con il solenne «amen amen» risponde in modo grave che essi Lo cercano non perché dai “segni” che opera hanno riconosciuto la missione divina, ma per l’abbondanza con cui furono sfamati, ritenuto un indizio prognostico della venuta del Messia umano atteso da molti (v. 26).

27 – «Procuratevi»: (= operate) medio imp. presente; Il verbo indica un darsi da fare che non deve cessare (ora che hanno trovato il pane del corpo) ma continuare (imp. pres.) per ottenerne un altro (quello che dura per la vita eterna).

Il Signore comincia il suo discorso sulla fede. E così anzitutto li richiama alla Parola di Dio donata attraverso le Profezie, e quindi ad attivarsi per il Cibo che non perisce, perché viene dal Signore (Is 55,2; vedi Lc 10,42), quello che dura fino alla Vita eterna (Gv 6,35.50.52.69; vedi 4,14).

«il Figlio dell’uomo»: Questa espressione greca traduce due espressioni ebr-aram, diverse fra di loro di significato: la prima (bar adam) indica l’uomo in quanto creatura, debole (cf. Nm 23,19 e Sal 8,5); la seconda (bar nash) indica il principe ereditario e colui che è cittadino di pieno diritto, libero (in confronto allo schiavo). Quest’ultima espressione con Daniele (7,13-14) passò ad indicare il capo del popolo di Dio, diventando così un titolo specifico messianico, (cf. Solennità Ss. Pietro e Paolo).

«ha messo il suo sigillo»: equivale a dire diede la sua approvazione a tutto ciò che Egli ha fatto e farà; quindi di Gesù ci si deve fidare. Il tempo storico passato (ha dato, pose, ecc;) indica forse un riferimento al battesimo (1,33), alla consacrazione-missione (10,36) e al fatto conseguente che egli è il rivelatore del Padre (3,33-34).

28 – «Che cosa dobbiamo compiere…»: I presenti non possono ancora comprendere tutte queste realtà, che però come Ebrei dovrebbero conoscere perché provengono dall’A. T.: il Cibo che porta alla Vita, il “Padre” che sigilla con lo Spirito Santo del Figlio dell’uomo, e l’opera di questo che consiste nel grande Dono. Così chiedono solo che cosa debbono fare in concreto per operare secondo Dio (1 Cor 15,58; Ap 2,26).

29 – «Questa è l’opera di Dio»: non molte opere; una una sola è l’opera di Dio per eccellenza: credere in colui che egli ha mandato. La locuzione greca (hína pisteúēte) indica non solo il fatto di credere, ma anche lo sforzo per raggiungere la fede, sforzo inteso come decisione che coinvolge globalmente tutta la persona. Questo è opera di Dio. Il credere, che è l’azione più personale, la decisione più radicale dell’uomo e coinvolge al massimo la sua libertà, è opera di Dio che diventa, accolta dall’uomo, opera dell’uomo in Dio e con Dio.

30 – «Quale segno?»: L’opera di Dio, che come tale si deve compiere, è credere (1 Gv 3,23) in Colui che Egli inviò nel mondo (3,16-17, per immenso amore; 5,58). I presenti sono Ebrei, e hanno imparato dalla Legge che l’Inviato di Dio si deve presentare con i “segni” autoritativi della sua missione, tali che operando conferiscono autenticità (Dt 18,15.18), e chiedono quali “segni” Gesù operi, così che possano credere. Infatti i padri nel deserto ebbero il “segno” grande della manna per 40 anni (v. Es 16,15; Num 11,7-9), e i figli loro ne hanno la conferma dalle Scritture: «Pane dal cielo donò ad essi da mangiare» (Gv 6,31, con citazioni di Sal 77,25-26; 104,40; Esr 9,15; vedi 1 Cor 10,3-4).

Quello che Gesù ha fino ad allora fatto non basta, non è sufficiente. Occorre dell’altro; si giustifica la richiesta citando il fatto della manna. Secondo le aspettative giudaiche il salvatore escatologico avrebbe rinnovato i miracoli dì Mosé.

31 – «sta scritto…»: La citazione che segue non riferisce un passo esatto dell’AT, ma è un’amalgama di vari testi: Es 16,4; 16,15; Sal 78,24; Sap 16,20 che introduce il commento omiletico di Gesù il quale inizia a parlare con la formula solenne dell’«Amen, Amen», «Io parlo a voi». È l’insegnamento impartito con autorità ed autonomia.

32 «non Mosé…»: Gesù precisa che non Mosé diede la manna, ma il quel cibo passeggero fu il dono divino della misericordia del Padre verso il popolo disperato per la fame.

v. 33 «pane di Dio»: è di Dio per distinguerlo da quello degli uomini, infatti non è prodotto dalla terra ma «discende dal cielo» e «dona la vita al mondo».

«colui che discende dal cielo»: la scelta grammaticale possibile è riferire quel “discendere” al pane oppure a Gesù. L’aggiunta di « n didoùs » (dare vita) orienta verso Gesù più che verso il pane; la mancanza dell’articolo nel nome “vita” mette in risalto la natura e la qualità di questa: si intende non la vita individuale, ma la vita in senso qualitativa, una sfumatura speciale della frase per dire che si parla di una vita diversa e superiore a quella fisica-morale.

La frase « ho katabaínōn ek toû ouranou» (colui che discende dal cielo) in questo discorso ricorre ben sette volte e il Concilio di Nicea scelse di introdurla nel Simbolo: ..Per noi uomini e per la nostra salvezza discese dal cielo…

34 – «dacci sempre di questo pane»: Come noi oggi (cf versetto al Salmo responsoriale) anche i presenti allettati dalla promessa chiedono di ricevere questo “pane” di cui però non conoscono ancora le qualità, è infatti una novità come ci ricorda anche l’imperativo aoristo positivo del verbo ” dídōmi” (dare).

La richiesta ci ricorda quella della Samaritana al pozzo che non conosceva il Dono (Gv 4,10) ma chiedeva “l’Acqua Viva” che disseta sempre per evitare la fatica quotidiana di venire ad attingere al pozzo (Gv 4,15). Anche questi non vogliono lavorare più per guadagnarsi il pane. Anche la nostra richiesta è forse tarata da questa filosofia?

35 – «Io sono il pane della vita»: la nostra pericope si chiude con una rivelazione che si compone di due parti:

«Io sono»: la formula rimanda alla rivelazione del Nome divino fatta a Mosé (Es 3,14)

«il Pane della Vita»: il Cibo che nutre conducendo alla vita eterna. Lo ripeterà ancora tra poco (cf vv. 41.48.51).

«Chi viene a Me non avrà fame e chi crede in Me non avrà più sete»: questo splendido parallelismo annuncia le condizioni per godere di questo Pane. Il periodo richiama frasi, profetiche e sapienziali che gli ascoltatori avevano famigliari e rendono il linguaggio di Gesù più suggestivo (cf Sir 24,20; Is 49,10).

Alla festa dei tabernacoli Gesù lo riannuncerà ancora (7,37-39); le sue parole sono la suprema chiamata alla Vita (cf Gv 5,40; Mt 11,28; Ap 7,16).

«chi crede»: la condizione fondamentale è accettare la fede in Lui in modo definitivo. Lo stesso Paolo rivela ai Corinzi che chi riceve l’iniziazione battesimale «aderisce a Cristo, diventa con Lui unico Spirito» (1 Cor 6,17). È questa l’opera del Padre: ha mandato il Figlio e indirizza gli uomini verso di Lui sul quale lo Spirito Santo discende e fa dimora (Gv 1,29-34); il Figlio ci accoglie e promette la Resurezione nell’ultimo giorno (Gv 6,44).

La preghiera II di colletta ci fa fare epiclesi attraverso il simbolo ora del pane, ma della carne, dell’acqua, del vino, del miele della Parola-cibo, realtà efficace. Come il cibo nelle sue varie forme indica la necessità vitale primaria dell’uomo: il nutrimento e la sua assimilazione per vivere. La Parola cibo indica la comunione assimilante dove i fedeli in certo senso con “l’ascolto-manducazione” pur restando se stessi, tuttavia sono perfezionati e diventano quello che assumono.

II Colletta

O Dio, che affidi al lavoro dell’uomo

le immense risorse del creato,

fa’ che non manchi mai il pane

sulla mensa di ciascuno dei tuoi figli,

e risveglia in noi il desiderio della tua parola,

perché possiamo saziare la fame di verità

che hai posto nel nostro cuore.

Per il nostro Signore Gesù Cristo…

[1] – cf. Giuseppe Segalla, Giovanni, ed. Paoline, 1980

[2] – 1) vv. 26-35a; 2) sulla fede i vv. 35. 41-48; 3) dialettica vita-morte i vv. 47-51b; 4) eucarestia i vv. 51-58; 5) i vv. 36-40 costituiscono un brano aggiunto e incluso negli altri quattro.

[3] – Dal greco chiasmòs dalla forma della lettera chi (X); in linguistica indica la figura retorica per la quale si dispongono in ordine inverso i membri corrispondenti di una frase.

[4] – Questa duplicità di funzione si può notare anche nei sommari storici (cf. 2,12; 2,23-25; 4,1-3.43-45; 6,22-25; 10,40-42).

[5] – Cf. 1 Cor ll,23s e Le 22,19.

[6] – Il testo giovanneo appare originale; la locuzione «questi non è Gesù il Figlio di Giuseppe» si trova in forma simile nel terzo evangelo, mentre la madre di Gesù è ricordata dagli altri due sinottici.

[7] – Se prendiamo il secondo segno descritto in Gv 6,16-21, Gesù che cammina sulle acque, la sua storicità non può essere contestata perchè il racconto ha profonde radici nella tradizione antica.

La concordanza sostanziale con il racconto dei sinottici, pur nell’autonomia delle tradizioni tramandate, mostra il valore storico del fatto: Gesù ha camminato realmente sulle acque del lago di Tiberiade. Quanto detto vale anche per il segno della moltiplicazione dei pani e per la confessione di Pietro (vv. 66-71; cf. Mc8,27-30; Mt 16,13-20; Lc9,18-21).

[8] – È da ricordare che gli elementi tradizionali pre-giovannei non necessariamente devono risalire al Cristo storico, ma possono risentire della prassi e della dottrina della Chiesa primitiva nel suo nascere.