Commento al Vangelo del 9 ottobre 2016 – Paolo Curtaz

Il commento al Vangelo di domenica 9 ottobre 2016 (il brano del Vangelo è a fine articolo) XXVIII Domenica del Tempo Ordinario, a cura di Paolo Curtaz.

Lodando a gran voce

Sale a Gerusalemme Gesù, tutta la sua vita è proiettata all’incontro con quella città, la culla della fede ma anche il nido delle vespe della religiosità aggressiva e ottusa.

Sale con determinazione, col volto indurito, scrive Luca.

Ma il suo cuore è compassionevole e tenero, capace di accogliere chi sta peggio di lui.

A Gerusalemme si giocherà la sfida. A Gerusalemme si deciderà la misura dell’empietà degli uomini, anche degli uomini di fede. E la larghezza del suo sguardo e la forza del suo coraggio, capace di morire per difendere il vero volto di Dio.

Avrebbe di che starsene chiuso in se stesso, a meditare e a riflettere.

E invece.

Sulla strada gli si fanno incontro dieci lebbrosi che urlano a distanza.

Se siamo in cammino l’intera umanità ci si fa incontro, gridando. Possiamo fare come il ricco che non vede Lazzaro, o raccogliere la sfida di chi attende salvezza.

[ads2] Lebbre

La lebbra è una malattia terribile e devastante, che marcisce il corpo, lo spirito e le relazioni.

I rabbini dicevano che un lebbroso era come un morto e poteva solo contaminare chi lo toccava.

E che la lebbra era la massima punizione che Dio infliggeva al peccatore.

Sono dieci. Dieci sono le dita di una mano, il numero dieci indica, in Israele, la totalità. Siamo tutti malati, tutti lebbrosi, tutti bisognosi.

La loro vita si consuma nel vedere il loro corpo cadere a pezzi, marcio. La loro anima, da tempo, è morta, divorata dal giudizio della gente e dai sensi di colpa che li fanno credere colpevoli davanti al dio impietoso dei farisei.

Dei dieci uno è straniero, nemico, un samaritano.

La malattia e il dolore accomunano ogni uomo, senza distinzioni di religione o di etnia. La sofferenza è e resta l’esperienza più comune del vagare umano. Ce ne ricordassimo.

Urlano il loro dolore, il loro abbandono, il loro lento ed inesorabile imputridire.

Chiedono pietà, la compassione che nessuno offre loro. E, forse, sperano un un’elemosina.

Gesù chiede loro di andare dai sacerdoti per essere guariti.

A volte Gesù ci guarisce a rate, ci chiede di metterci in cammino per vedere dei risultati.

A volte Gesù, simpaticone, ci chiede di andare da un prete per essere guariti.

Norme

È un retaggio dell’antico Israele, quando il sacerdote fungeva anche da ufficiale medico: solo lui poteva attestare la guarigione e il reinserimento di un lebbroso.

Li manda dai sacerdoti, il Signore, porta rispetto per il passato di Israele, non è venuto a cambiare un iota o un segno, ma a dare compimento, a riportare alla propria origine il progetto di Dio.

La guarigione non è istantanea, richiede un cammino, obbliga a fidarsi; Dio non ama i miracoli eclatanti, chiede sempre consapevolezza, cammino, fiducia, mediazione.

Ci vuole tutta la vita per guarire dalla lebbra del peccato e della solitudine. Non esistono cambiamenti definitivi che non richiedano tempo e pazienza, costanza e fiducia.

I dieci vanno, forse delusi dal non avere ricevuto nemmeno uno spcciolo e, mentre camminano, si accorgono di essere guariti.

Anche a molti di noi accade di guarire per strada, quando la smettiamo di porre condizioni a Dio e a noi stessi.

Stupiti, straniti, sconvolti, i lebbrosi guariti adempiono la richiesta di Gesù e vanno dal sacerdote. Eccetto uno, colui che non ha tempio, che non ha sacerdoti, non ha religione.

Il suo tempio, sul monte Garizim, è stato raso al suolo dagli ebrei.  

Non sa dove andare e torna sui suoi passi.. Non ha un tempio dove andare. Torna al Tempio.

La lebbra dell’ingratitudine

Uno solo torna a ringraziare, pieno di fede.

Gesù, sconfortato, constata che dieci sono stati sanati, ma uno solo salvato.

Una volta guariti, le differenze tornano (mistero dell’umana fragilità!): nove vanno al tempio e il samaritano, di nuovo solo, senza un tempio in cui essere accolto, corre dal Tempio della gloria di Dio che è Gesù.

Il samaritano torna indietro lodando Dio a gran voce, non può tacere, urla la sua gioia, la sua solitudine e la sua emarginazione sono finalmente finiti. E gli altri? Chiede Gesù.

Nulla, spariti, scomparsi.

Guarire gli uomini dalla loro ingratitudine è ben più difficile che guarirli dalle loro malattie.

La gratitudine, la festa, lo stupore, sono atteggiamenti connaturali all’uomo, eppure troppo poco spesso manifestati nella nostra vita. Siamo tutti molto lamentosi, sempre pronti a sottolineare il negativo che pesa come un macigno nelle nostre bilance.

Diamo tutto per scontato: è normale esistere, vivere, respirare, amare; normale e dovuto nutrirsi, lavarsi, abitare, lavorare…

Il nostro sguardo, un po’ assuefatto dalle cose scontate e dovute, non sa più aprirsi alla gratitudine. Come vorrei vedere uscire dalle chiese – almeno d’ogni tanto! – qualcuno che torna a casa lodando Dio a gran voce…

Come vorrei vedere più sorrisi sulle labbra dei cristiani, più lode nelle loro preghiere, più gratitudine nei gesti di coloro che, guariti dalle loro solitudini interiori e dalla lebbra che è il peccato, sono anche salvati e fatti Figli di Dio!

Come vorrei, io, peccatore, vedere più le meraviglie di Dio che i miei limiti!

Attenti all’ingratitudine, incontentabili discepoli del Signore.

Guarigioni

Essere guariti non significa essere salvati.

I nove ingrati sono la perfetta icona di un cristianesimo molto diffuso, che ricorre a Dio come ad un potente guaritore da invocare nei momenti di difficoltà. Che triste immagine di Dio si fabbricano coloro che a lui ricorrono quando c’è bisogno, che lasciano Dio ben lontano dalle loro scelte, dalla loro famiglia, salvo poi arrabbiarsi e tirarlo in ballo quando qualcosa va storto nei loro (badate, non nei suoi) progetti.

I nove sono guariti: hanno ottenuto ciò che chiedevano, ma non sono salvati.

Rimasti chiusi nella loro parziale e distorta visione di Dio, guariti dalla lebbra sulla pelle, non vedono neppure la lebbra che hanno nel cuore.

Il Dio che hanno invocato è il Dio dei rimedi impossibili, non il Tempio in cui abitare, il Potente da corrompere e convincere, non il Dio che, nella guarigione, testimonia che è arrivato il tempo messianico.

È tempo di tornare indietro gridando a gran voce la gloria di Dio e le opere che compie in noi.

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XXVIII Domenica del Tempo Ordinario – Anno C

Lc 17, 11-19
Dal Vangelo secondo Luca

Lungo il cammino verso Gerusalemme, Gesù attraversava la Samarìa e la Galilea.
Entrando in un villaggio, gli vennero incontro dieci lebbrosi, che si fermarono a distanza e dissero ad alta voce: «Gesù, maestro, abbi pietà di noi!». Appena li vide, Gesù disse loro: «Andate a presentarvi ai sacerdoti». E mentre essi andavano, furono purificati.

Uno di loro, vedendosi guarito, tornò indietro lodando Dio a gran voce, e si prostrò davanti a Gesù, ai suoi piedi, per ringraziarlo. Era un Samaritano.
Ma Gesù osservò: «Non ne sono stati purificati dieci? E gli altri nove dove sono? Non si è trovato nessuno che tornasse indietro a rendere gloria a Dio, all’infuori di questo straniero?». E gli disse: «Àlzati e va’; la tua fede ti ha salvato!».

C: Parola del Signore.
A: Lode a Te o Cristo.

  • 09 – 15 Ottobre 2016
  • Tempo Ordinario XXVIII, Colore verde
  • Lezionario: Ciclo C | Anno II, Salterio: sett. 4

Fonte: LaSacraBibbia.net

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