Commento al Vangelo del 7 Aprile 2019 – Ileana Mortari (Teologa)

Come afferma G. Ravasi nel suo ciclo “Il bello della Bibbia”, uscito anni fa su “Famiglia cristiana”, la pericope odierna non solo è tra le più belle, ma è certo una pagina indimenticabile del vangelo, perché su di essa si è persino coniato un nuovo modo di dire comune, quello dello “scagliare la prima pietra”.

E’ accertato che, come dimostra un’amplissima documentazione, tale pagina dell’adultera non appartiene a Giovanni: troppo lontana è dal suo stile, lessico, modo di esprimersi; e soprattutto non è presente nei migliori e più antichi manoscritti del 4° vangelo; manca anche in Ambrogio, Agostino, Gerolamo e in genere nei Padri greci del 1° millennio.

Essa si avvicina di più ai sinottici (come si vede dalla menzione degli “scribi”, un “unicum” di Giovanni), in particolare a Luca e al suo vangelo della misericordia e della tenerezza di Cristo nei confronti dei peccatori e degli emarginati. Pertanto non desta meraviglia che un gruppo di codici collochi il brano dopo Luca 21,38.

Nella redazione finale del Nuovo Testamento, però, il testo si trova in Giovanni e lì lo leggiamo e inquadriamo come Parola di Dio, con un suo preciso significato per la fede: anche queste scelte redazionali sono frutto dell’ispirazione dello Spirito Santo!

Scribi e farisei non ricorrono a Gesù con sincerità di cuore, ma per “metterlo alla prova”; conoscendolo come amico di peccatori e pubblicani, e in genere propenso al perdono, vogliono vedere se perdonerà anche alla donna adultera, contravvenendo così alla legge di Mosè, che per tale colpa prescriveva la lapidazione (cfr. Deut. 22,22-24). In tal modo si potrà fare contro il Nazareno una denuncia precisa e procedere di conseguenza. Essi dunque non cercano la verità; hanno già condannato Gesù a priori: cercano solo un appiglio giuridico, una copertura legale.

Per tutta risposta il Maestro si mette a scrivere per terra, cioè non perde la calma, non si lascia agitare da una fretta inconsulta. Addirittura si comporta come se essi, i tentatori, non esistessero.

Anche sul significato di questo “scrivere col dito sulla polvere” si sono versati fiumi di inchiostro (e di fantasia!). Si è portato il gesto a prova della capacità di Gesù di scrivere (sic!). Si è pensato che stesse vergando proprio la frase che poi avrebbe pronunciato. Si è spiegato il fatto con la ripresa di testi biblici, quali:

Non presterai mano al colpevole per essere testimone in favore di un’ingiustizia” (Es.23,1)

Quanti si allontanano da te saranno scritti nella polvere, perché hanno abbandonato il Signore, fonte di acqua viva” (Ger.17,13)

Ma la spiegazione più plausibile è probabilmente quella suggerita dall’uso del verbo greco “katagràpho” = “scrivo giù, butto giù qualcosa”, nonché dall’esegesi di uno dei maggiori commentatori di Giovanni, Raymond Brown: “la possibilità di gran lunga più semplice è che Gesù stia solo tracciando linee per terra, per mostrare il suo disinteresse e disgusto per lo zelo di quegli accusatori malfidenti”.

Alla reiterata insistenza degli avversari il rabbi di Galilea dà poi una risposta carica di saggezza salomonica: “Chi di voi è senza peccato, getti per primo la pietra contro di lei” (v.7 b). Cioè: solo chi ha la coscienza pulita può scagliare per primo una pietra; e il vergognoso allontanamento degli astanti è di per sé eloquente.

Così la legge di Mosè non è infranta e l’autorità giudaica non ha nulla da ridire. Nessuno è messo a morte, e l’autorità romana può starsene tranquilla. Eluso il tranello, affiora il vero valore dell’atteggiamento di Gesù, venuto a perdonare e a ridare fiducia: “Va’ e d’ora in poi non peccare più” (Giov.8,11)

E qui ritroviamo alcuni capisaldi della novità del messaggio di Gesù.

Anzitutto Egli opera una fondamentale distinzione, che sarebbe stata ripresa e divulgata da S.Agostino: quella tra peccato e peccatore, che invece per l’antica Legge erano un tutt’uno.

In secondo luogo supera un’errata distinzione che ai tempi andava per la maggiore: quella tra “giusti” e “peccatori” per antonomasia. Nel giudaismo dell’epoca questa distinzione segnava la stessa società ebraica; è noto che certe categorie di lavoratori (i famosi “pubblicani”, ad esempio) erano di per sé esclusi dalla misericordia divina.

Gesù invece viene a dirci: purtroppo tutti gli uomini sono capaci di fare il male e di fatto lo compiono, sia pure a diversi livelli e con differenti gradi di gravità. Ma, proprio perché il peccato è generalizzato, Gesù è venuto per salvare tutti, proprio tutti, da questo nefasto influsso del Maligno.

Gesù è venuto a donare il perdono di Dio. Che cosa significa il “perdono di Dio”? non certo che il peccato venga cancellato bellamente, a buon mercato, lasciando intatta la natura “peccatrice” del soggetto. No, perché Gesù vuole chiaramente che ognuno prenda coscienza del “suo” peccato e del suo “essere peccatore”. Lo si vede molto bene dalla pagina che stiamo esaminando: “Quelli, udito ciò [chi di voi è senza peccato……], se ne andarono uno per uno, cominciando dai più anziani” (v.9)

A questo punto ecco “la buona notizia” (o “evangelo”): “va’ e d’ora in poi non peccare più”.

La grande novità portata dal Nazareno è questa: la possibilità di scrollarsi di dosso il marchio infamante del “peccatore” per antonomasia, una denominazione addirittura “sociale” dei tempi (quanto belli gli episodi evangelici della chiamata del pubblicano Matteo, quello della peccatrice in casa di Simone il fariseo, l’incontro con Zaccheo, etc. !) e poi, in ogni epoca successiva e oggi, la possibilità – infinite volte – di ricominciare da capo, di ricevere questo straordinario dono che è il “perdono” (= dono perfetto), perché sempre Dio si getta dietro le spalle tutti i nostri peccati, grandi o piccoli che siano (cfr. Is.38,17 e Sal.64/5,4).

Forse non ci rendiamo veramente conto di quale sia la grandezza e la potenza del perdono e può aiutarci a recuperarla la bella testimonianza di un coreano convertito dal buddhismo al cristianesimo: “Uno dei motivi più forti che mi hanno spinto a convertirmi al cristianesimo è certamente il fatto che nella Chiesa cattolica il sacerdote perdona i peccati in nome di Dio. Per me questa è stata una scoperta sconvolgente. Nel buddhismo non esiste perdono: si fanno cerimonie purificatorie, si danno offerte e si recitano preghiere, ma nessuno perdona i peccati. Il fedele buddhista che ha un animo sensibile rimane tutta la vita con il peso dei propri peccati, lo ricorda, si tormenta, non è mai sereno. Quando ho saputo che la Chiesa cattolica perdona i peccati in nome di Dio, ho capito che questa fede faceva per me”.

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