Commento al Vangelo del 4 giugno 2017 – p. Silvano Fausti

Messaggio nel contesto

«Come il Padre ha mandato me, anch’io invio voi». Il Figlio, compiuta la sua missione, è presente nei fratelli con il dono del suo Spirito, perché continuino la sua opera: testimoniare l’amore del Padre suo, che è anche nostro.

Dopo il racconto del sepolcro vuoto e dell’incontro con Maria, c’è la visita di Gesù ai suoi discepoli. Nell’ultima cena aveva detto che non li avrebbe lasciati or­fani: sarebbe tornato (14,18) per donare loro la sua pace (14,27) e la sua gioia (16,20.22) e renderli suoi testimoni in forza dello Spirito (15,26s). Ora mantiene la parola. L’episodio, simile a Lc 24,36-49 (cf. anche Mt 28,16-20), culmina nel dono dello Spirito che Gesù aveva promesso (14,15-29; 15,26-27; 16,7-15). In questo modo la Pentecoste (cf. 7,37-39), già anticipata sulla croce (19,30.34), avviene la sera stessa di Pasqua. Il Vangelo di Giovanni è tutto un intreccio di anticipi e compi­menti della stessa realtà. Come nel tessuto della nostra esistenza, ciò che oggi è da­to è presagio e seme di ciò che domani fiorisce e matura.

È un testo densissimo, che fa da raccordo tra l’ora del Figlio e quella dei fra­telli, tra il tempo di Gesù e quello della Chiesa. Protagonista è sempre lo Spirito. All’inizio si posò e dimorò sull’agnello di Dio che toglie il peccato (1,12.13.16.29.32­33). Adesso è alitato anche su di noi, perché continuiamo la sua opera di riconcilia­zione. L’epoca dello Spirito, inaugurata nella carne di Gesù, prosegue in noi: la glo­ria del Figlio è trasmessa alla comunità dei fratelli.

Alla presenza del Risorto il sepolcro delle nostre paure si apre alla pace e alla gioia. La Parola, diventata carne in Gesù e tornata Parola nel Vangelo, ora anima anche la nostra carne. La sua parola infatti è Spirito e vita (6,63).

I discepoli, pur sapendo che il sepolcro è vuoto ed avendo ricevuto l’annuncio della Maddalena, non hanno ancora incontrato il Risorto. È necessario, ma non suf­ficiente, che qualcuno l’abbia visto e annunciato. Bisogna giungere all’incontro con lui. Il c. 20 rappresenta, in modo graduale, il cammino di Pasqua. È innanzi tutto un cercare Gesù nel sepolcro e trovarlo vuoto (v. 1), un contemplare i segni del suo cor­po assente, vederne il significato e credere in lui e nelle sue parole (vv. 2-10); poi è un incontrarlo, abbracciarlo ed essere inviati ad annunciarlo (vv. 11-18). Ora c’è il suo ritorno definitivo con il dono dello Spirito, che ci fa creature nuove, capaci di amare come lui ha amato (vv. 19-23). Da «come» avviene l’incontro, si passa a ve­dere «cosa» avviene nell’incontro.

Senza questo dono restiamo ancora nel chiuso delle nostre paure. Il Pastore bello entra nel nostro sepolcro, ci mostra nelle mani e nel fianco i segni del suo amo­re e ci tira fuori dalla prigione. Il Crocifisso non è un fallito, sconfitto dal male: vin­citore della morte, è realmente in mezzo a noi nella sua gloria. Ci mostra quelle fe­rite da cui sgorga la nostra salvezza. Sono le stesse che ci testimonia il Vangelo, per­ché anche noi le contempliamo e tocchiamo. In esse vediamo il Signore, da esse flui­sce quella pace che trabocca in gioia. E questa gioia è la nostra risurrezione. Infatti la gioia del Signore è la nostra forza (cf. Ne 8,10) per una vita nuova: ci fa uscire dal­la tomba, ci comunica il «profumo» del Risorto e ci fa vivere del suo amore per noi.

In queste ferite scopriamo quanto Dio ha amato il mondo (3,16). In esse tro­viamo la nostra dimora e la nostra identità di figli: è l’amore del Padre che il Figlio ci ha donato. Ma l’amore è sempre «missione»; infatti è relazione, che manda la per­sona fuori di sé, verso l’altro. L’amore del Padre e del Figlio ci spinge verso i fratel­li (cf. 2Cor 5,14), perché anch’essi lo scoprano e lo accolgano. Allora Dio sarà tutto in tutti (cf. 1Cor 15,28), come tutto e tutti da sempre sono in Dio.

Perché possiamo compiere ‘l.uesta missione, Gesù ci dona il suo soffio vitale: la vita di Dio diventa anche nostra. E lo Spirito nuovo, che ci toglie il cuore di pietra e ci dà un cuore di carne, capace di vivere secondo la parola di Dio e di «abitare» la terra (cf. Ez 36,24ss). Questo Spirito fa rivivere le ossa aride (Ez 37,9ss) e ci fa co­noscere il Signore: «Riconoscerete che io sono il Signore, quando aprirò le vostre tombe e vi risusciterò dai vostri sepolcri» (Ez 37,13). È quel soffio che Dio alitò nel vecchio Adamo (Gen 2,7) e che il nuovo Adamo ci consegnò dalla croce, facendo scaturire dal suo fianco sangue e acqua (19,30.34).

È lo Spirito del Figlio, che ci rende capaci di vivere da fratelli, vincendo il ma­le con il bene (cf. Rm 12,21). Per questo la missione dei discepoli consiste nel per­donare i peccati. Il perdono verso i fratelli realizza sulla terra l’amore del Padre. In questo modo la Chiesa, sacramento di salvezza per tutti, continua la missione del­l’agnello di Dio che leva i peccati del mondo (1,29).

In questi racconti di risurrezione Gesù crea la sua comunità, primizia della creazione nuova. Il testo contiene allusioni eucaristiche, che saranno ampliate nel seguito del presente capitolo e nel successivo. Il luogo è il cenacolo, dove Gesù an­ticipò il dono di sé; il tempo è la sera, quando la comunità si riunisce per far memo­ria del suo Signore; il Vivente sta al centro, mostrando le ferite della sua passione; la pace e la gioia che ne scaturiscono sono il frutto dello Spirito, che abilita i discepoli alla loro missione di riconciliazione. Il corpo di Gesù, crocifisso e risorto, forma il corpo della Chiesa: è sorgente aperta in Gerusalemme, che lava peccati e impurità (Zc 13,1).

Il testo si articola in due parti. Nei vv.19-20, con il riconoscimento di Gesù, ini­zia il tempo della gioia messianica, compimento della Pasqua. Nei vv. 21-23, con il dono dello Spirito, inizia la creazione riconciliata, compimento della Pentecoste.

Gesù, risorto e tornato al Padre, è presente nei fratelli come fonte di pace e di gioia. Con il dono del suo Spirito, li invia a continuare nel mondo la sua opera di ri­conciliazione.

La Chiesa esce dal sepolcro contemplando, attraverso le ferite, l’amore del suo Sposo: nasce dal sangue e dall’acqua, dal dono della vita di Gesù e del suo Spirito, che la invia per testimoniare al mondo l’amore del Padre nel perdono dei fratelli. La sua «nascita» indica la sua «natura» permanente.

Lettura del testo

19: Essendo dunque la sera. Per gli ebrei la sera è l’inizio del giorno nuovo.

Qui invece è il compimento del giorno «uno», «quel giorno» che è l’«oggi» di Dio, sempre presente nella Parola. Infatti chi la ascolta, si trova davanti a lui che parla. Affrettiamoci dunque a entrare in questo oggi (Eb 4,11).

La sera, inizio della notte, richiama la Pasqua, quando la nube illuminò la te­nebra (Es 14,20). Se il brano precedente, all’alba, presenta l’incontro con Gesù co­me inizio della nuova creazione, questo, di sera, lo presenta come la nuova Pasqua, che libera l’uomo dal male (v. 23). Richiama la sera e la tenebra che cadde sopra i discepoli nella tempesta, dopo che Gesù ebbe donato il suo pane (cf. 6,16-21). Adesso la luce torna a visitare la notte dei discepoli e tutte le notti dell’uomo. È l’o­ra, dopo il tramonto del sole, in cui i primi cristiani si riuniscono per celebrare la me­moria della passione del Signore.

(di) quel giorno. Questa notte appartiene a «quel giorno» nel quale «non ci sa­rà né giorno né notte; verso sera risplenderà la luce» (Zc 14,7). La notte ormai è di­ventata giorno.

(il giorno) uno dei sabati (cf. v. 1). Siamo sempre al «giorno uno» della crea­zione (cf. Gen 1,5). «Quel giorno» è un unico giorno che non conosce tramonto, ap­punto perché la luce brilla verso sera: è l’ottavo giorno senza fine, il giorno del Signore. Ormai viviamo sempre in quel giorno. Ma c’è buio fino a quando non apriamo gli occhi alla luce del mondo, che viene per stare in mezzo a noi.

essendo sprangate le porte. La scena non è più fuori, nel giardino, dove sta la Maddalena. Siamo invece dentro, nel cenacolo, dove Gesù anticipò il dono di sé e donerà il suo Spirito e la sua missione. I discepoli ne hanno fatto una tomba. Il se­polcro di Gesù è aperto e vuoto; la loro casa sprangata e piena di morte, come il loro cuore. Le pecore sono rinchiuse, in attesa del Pastore bello che le conduca ai pa­scoli della vita. Sono in questa situazione perché non hanno dato credito all’annun­cio della Maddalena (v. 18; cf. Lc 24,9-11).

dove erano i discepoli. Non si dice che i discepoli stanno «insieme» (cf. At 1,14). Non sono in comunione. Sono tutti orfani e soli, a porte chiuse. Dopo il Venerdì e il Sabato santo, morto e sepolto Gesù, anch’essi sono morti e sepolti, in preda alla sfiducia e alla disperazione. Fin che c’è speranza, c’è vita; dove non c’è speranza, regna la morte.

Giovanni non parla di apostoli, ma di discepoli, termine più ampio che ab­braccia tutti i credenti in Gesù, di ogni tempo. Dice «i» e non «alcuni» discepoli, per indicare che essi si trovano e si troveranno sempre tutti in questa situazione: è illuo­go in cui incontrano il Signore.

per la paura dei giudei (cf. 7,13; 19,38). La paura divide le persone; ognuno, chiuso in se stesso, è in difesa e attacco contro gli altri. Essa impedisce ai discepoli di stare insieme tra loro e di aprirsi agli altri. Paura e fiducia, come tristezza e gioia, muovono ogni azione, rispettivamente chiudendo nella morte o aprendo alla vita.

venne Gesù. In questa situazione, per molti aspetti opposta a quella di Maria, viene Gesù. Egli non si vergogna dei suoi fratelli (cf. Eb 2,11), anche se l’hanno ab­bandonato, rinnegato e tradito. Li ha scelti e si è legato a loro non perché siano bra­vi e forti, ma perché sono piccoli e deboli (cf. Dt 7,7), bisognosi di lui.

Dalla Maddalena che lo cerca, Gesù si fa trovare. Dai discepoli invece viene di sua iniziativa, non cercato, anche se amato. Mentre il popolo è chiuso, ognuno nella sua stanza, il Signore esce dalla sua dimora e viene a visitarlo (Is 26,20s). Nessuna chiusura ferma il Risorto: la luce entra nelle tenebre dei discepoli. Il Signore non li sal­va dalla morte – non ha salvato neanche se stesso -, ma nella morte in cui si trovano.

Il tempo che va dalla sepoltura a questo incontro è il breve tempo in cui non lo vediamo (16,16). Ora lo vediamo di nuovo, perché lui vive e noi vivremo (14,19). Infatti non ci ha abbandonati: il suo andare al Padre nella carne è il suo tornare a noi con il dono dello Spirito.

stette (in piedi) nel mezzo. Gesù non entra dalla porta, sprangata. Non è un ostacolo per lui, come non lo è stato il muro della morte né la pietra del sepolcro. È lui stesso la porta della vita (cf. 10,7-10). Sta ritto in piedi, vittorioso sulla morte (cf. v. 14). È nel mezzo, al centro dei discepoli e nel cuore di ciascuno: è luce che dissol­ve le tenebre, amore che scaccia ogni paura (1Gv 4,18). Dove prima regnava la mor­te, ora c’è il Vivente. Colui che ci ama fino all’estremo, mostra la sua gloria. Dio è in mezzo al suo popolo. Il Signore vuole stare sempre con noi, addirittura in noi (cf. 15,4-11; 17,17-26). Per questo è entrato là dove noi eravamo: nella morte e nel se­polcro.

È quanto avviene ancora oggi, quando la comunità si trova riunita non più nel proprio nome, lamentando i propri guai, ma nel suo nome, celebrando il suo amore. Giovanni qui non racconta tanto un’apparizione di Gesù, che si rende visibile e poi torna invisibile. Narra piuttosto l’inizio di una nuova presenza: mentre prima era con noi, ora stabilisce la sua dimora in noi (cf. v. 17).

dice loro: Pace a voi. «Pace» (ebraico shalom) non è semplicemente il saluto abituale degli ebrei. Indica la pienezza di ogni benedizione messianica. È il dono di Gesù che dice: «Vi lascio la pace, vi do la mia pace» (14,27), quella pace che il mondo non conosce. È la pace dell’amore che vince l’odio: «Abbiate pace in me. Voi avrete tribolazione nel mondo; ma abbiate fiducia: io ho vinto il mondo» (16,33).

20: mostrò le mani e il fianco. Le mani forate e il fianco trafitto sono l’iden­tità del Risorto: è il Crocifisso, il Verbo diventato carne, che ha esposto, disposto e deposto la sua vita e l’ha ripresa di nuovo (10,11-18), dopo aver affrontato il regno della morte. Le sue ferite sono la sorgente di questa pace: riportano all’unità i figli di Dio dispersi (cf. 11,52). Sono le piaghe che ci guariscono (Is 53,5), ostensione del suo amore estremo.

Le mani sono segno di potere: con esse l’uomo fa e disfa tutto. Nelle sue mani sta ogni potere che il Padre ha dato al Figlio (cf. 3,35; 13,3). Esse, che hanno lavato e asciugato piedi, sono inchiodate all’amore e al servizio di ogni perduto. Sono quel­le mani dalle quali nessuno può rapirci (10,28). Sono infatti le stesse del Padre (10,29): «lo e il Padre siamo uno» (10,30).

Il suo fianco squarciato è carne da cui nasciamo, ferita da cui siamo genera­ti. In coloro che guardano a colui che hanno trafitto, si riversa uno Spirito di gra­zia e di consolazione (Zc 12,10). Dalla fessura della roccia che ci salva sgorga la sorgente zampillante (cf. 4,14), aperta in Gerusalemme per lavare peccato e im­purità (Zc 13,1; cf. 14,8). Da lì viene il fiume d’acqua viva, che sgorga dal fianco del tempio. È un fiume immenso che feconda la terra e risana le acque amare, fa­cendo rivivere quanto è morto. Sulle sue rive cresce ogni sorta di alberi da frutto, le cui fronde non appassiscono e i cui frutti maturano ogni mese; e i frutti sono vi­ta e le foglie medicina per l’uomo (Ez 47,1-12). «Chi ha sete, venga a me e beva. Chi crede in me, come dice la Scrittura, fiumi d’acqua viva sgorgheranno dal suo seno» (7,37s).

«Quel giorno», verso sera, la tenebra diventa luce (cf. Zc 14,7), come il giorno «uno» della creazione (cf. Gen 1,3-5). I discepoli, contemplando le mani e il fianco, memoria perenne dell’amore di Dio, vedono la luce del mondo: ricevono pace e gioia imperitura. Allora «il Signore sarà re di tutta la terra e ci sarà il Signore sol­tanto, e soltanto il suo nome» (Zc 14,9).

Qui Gesù, attraverso le sue ferite, è presentato come l’agnello pasquale, che toglie il peccato del mondo (1,29): il suo sangue ci libera dalla morte e il suo corpo è nutrimento per l’esodo (Es 12,8-13).

Quel giorno è ormai l’oggi in cui viviamo pure noi: celebrando l’eucaristia, fac­ciamo memoria dell’amore del Signore, riceviamo il suo Spirito e siamo inviati nel mondo a portare riconciliazione. La comunità mangia e beve, mastica e assimila il cibo e la bevanda di vita, che fa dimorare lui in noi come noi in lui (6,53-58). Il tema del memoriale eucaristico, qui solo accennato con le ferite del Crocifisso, sarà svi­luppato nella scena seguente e in 21,12ss.

allora gioirono i discepoli. La gioia del Signore è la nostra forza (Ne 8,10): scaccia paura e morte. La gioia è propria di chi dimora nell’amore: uniti a lui, come il tralcio alla vite, la sua gioia è in noi e la nostra gioia è piena (15,10.11; 17,13).

Dopo un breve tempo la tristezza dei discepoli è mutata in danza: è nato l’uo­mo nuovo (16,20s), il Signore che viene a noi (16,22). Questa gioia nessuno ce la può rapire (16,23). Viene infatti da un amore che ha resistito allo Sheol: è un fuoco che le grandi acque non possono estinguere (cf. Ct 8,6s).

In quel giorno i discepoli non gli domanderanno più nulla (16,23); da lui infat­ti ricevono tutto: pace e gioia, Spirito e capacità di perdono.

avendo visto il Signore. Ora anche i discepoli, contemplando le ferite della sua passione per noi, hanno visto e riconosciuto il Signore: le sue ferite d’amore lo rive­lano Io-Sono. Questo sarà il modo nel quale si renderà visibile anche a noi nella fe­de, mentre facciamo memoria di lui nella celebrazione eucaristica.

I discepoli, raccontando a Tommaso la loro esperienza, diranno: «Abbiamo vi­sto il Signore!» (v. 25; cf. v. 18). Eppure l’evangelista, più che sul vedere, insiste sul gioire. Infatti «avendo visto» è un gerundio passato subordinato all’indicativo «gioi­rono», che pone direttamente la gioia come segno dell’incontro con il Risorto. Nel racconto i verbi all’indicativo che descrivono l’azione di Gesù sono: «venne/stette e dice, mostrò e disse, insufflò e dice». La Parola stessa dice ciò che dà. Anche qui, co­me sempre, l’autore scrive ciò che accade al lettore.

21: disse loro [Gesù} di nuovo. C’è una successiva comunicazione del Risorto. Nella prima viene, sta nel mezzo e mostra la sua identità nei segni delle pia­ghe, dove vediamo il Signore e gioiamo. Da questa contemplazione e comunione d’amore, propria dell’eucaristia, viene il dono dello Spirito e scaturisce la missione.

pace a voi. Il Risorto si presenta come datore di pace (vv. 19.21.26). La gioia e la pace, pace gioiosa e gioia pacificante, sono i modi propri della presenza del Signore, che ci assimila a lui.

come il Padre ha mandato me, anch’io invio voi. Dopo aver gioito alla vista del Signore, i discepoli lo ascoltano. Se l’occhio vede e il cuore gioisce, l’orecchio ascol­ta: la contemplazione si fa amore e obbedienza.

La missione dei fratelli è la stessa del Figlio, che ha lavato i piedi e ha detto: «Vi diedi un esempio, affinché come io feci a voi, anche voi facciate» (13,15) e: «Vi do un comandamento nuovo: [ … ] come io amai voi, anche voi amatevi gli uni gli al­tri» (13,34). I discepoli sono inviati, come lui, a testimoniare l’amore del Padre (cf. 3,16; 17,6.26): «(Padre,) come tu mi mandasti nel mondo, anch’io li mandai nel mondo» (17,18). Per questo li ha scelti (cf. 15,16). L’invio rende gli inviati uguali a chi invia: «Chi accoglie colui che io manderò, accoglie me» (13,20).

Colui che è mandato, è chiamato a fare come lui: amare e lavare i piedi (cf. 13,13-17), compiendo le sue stesse opere (14,2). Associato al suo destino, è come il chicco di grano che cade sotto terra e porta molto frutto (12,24; cf. 15,5).

La missione verso i fratelli esprime la natura del figlio: è amando il fratello che si diventa figli. Se il Figlio è necessariamente inviato dall’amore del Padre verso i fratelli, chi a sua volta va verso i fratelli conosce l’amore del Padre e diventa figlio. La relazione che c’è tra Gesù e il Padre («come il Padre ha mandato me»), è la stes­sa che c’è tra lui e noi («anch’io invio voi»). È come dire: «Voi siete me, se fate ciò che io ho fatto a voi: come avete ricevuto pace e gioia, date pace e gioia, perdonan­do anche voi». I suoi discepoli non sono superuomini. Sono come noi, pavidi e infi­di, segnati da fragilità e peccato. Ma proprio in questa nostra situazione lui ci viene incontro e ci salva. Per questo Paolo si gloria della sua debolezza, in cui ormai di­mora la potenza del Risorto (cf. 2Cor 12,1-10).

22: detto questo, insufflò. «Insufflare», parola unica nel NT, ricorre due volte nell’AT: Dio, soffiandogli dentro il suo alito vitale, crea l’uomo (Gen 2,7; Sap 15,11) e fa risorgere le sue ossa aride (cf. Ez 37,9). È lo Spirito della nuova ed eterna al­leanza, stipulata nel perdono (Ger 31,33s), che ci dà un cuore nuovo, capace di vi­vere secondo la Parola (cf. Ez 36,25ss).

accogliete (= prendete) Spirito Santo. Gesù parla di «Spirito Santo», senza arti­colo (vedi anche 1,33), non perché sia una realtà vaga e indeterminata. Lo Spirito Santo è il suo amore: ce lo dona in pienezza, non a misura (cf. 3,34). Ma noi ne ab­biamo quanto ne accogliamo; e possiamo accoglierne sempre di più, senza determi­nare limiti a ciò che è infinito.

Gesù ci chiede di accoglierlo. La forma imperativa «accogliete» è una supplica pressante del Figlio alla nostra libertà, perché accogliamo il dono che ci fa essere ciò che siamo: fratelli suoi e figli del Padre suo e Padre nostro, Dio suo e Dio nostro. È quello Spirito che il mondo non può accogliere, perché non lo conosce. I discepoli invece lo conoscono perché ha dimorato presso di loro in Gesù e ora desidera di­morare in loro (cf. 14,17).

Sulla croce già ci ha consegnato lo Spirito (19,30.34). Ma non basta: ogni dono è tale solo quando qualcuno lo accoglie. Ora i discepoli, contemplando le sue ferite, si arrendono al suo amore e lo «accolgono». Nel dono dello Spirito si realizzano le promesse di Gesù nell’ultima cena (cf. 14,15-26; 15,26s; 16,7-15). La sua gloria è tra­smessa ai discepoli, che diventano una cosa sola tra di loro (cf. 17,22), per testimo­niare al mondo l’amore del Padre. Si realizza così per grazia l’antico sogno dell’uo­mo che fallì per inganno: diventare come Dio (cf. Gen 3,5).

La sera di Pasqua accogliamo la sorgente di acqua viva promessa nel grande giorno della festa di Pentecoste (cf. 7,37-39): accogliamo lo Spirito del Figlio e di­ventiamo figli di Dio (1,12-13), perché capaci di perdonare i fratelli.

Dopo che Gesù ha ricevuto il «suo» battesimo sulla croce, anche noi siamo battezzati in Spirito Santo (cf. 1,33). Immersi nel suo amore, possiamo amare come lui ci ha amati. Il fine dell’opera del Figlio è che noi partecipiamo sempre più al suo amore per il Padre e per i fratelli.

Per Giovanni la Pentecoste, iniziata sulla croce, esplode nel giorno di Pasqua, quando i discepoli ricevono il suo Spirito. Da allora comincia l’epoca del­lo Spirito; in essa vive chiunque contempla la Gloria, aperta a tutti nelle ferite del Trafitto.

23: a chi rimettete i peccati (cf. Mt 18,18). Lo Spirito del Signore è perdono.

Infatti se l’amore è dono, il per-do:r:lO è un super-amore. La comunità dei discepoli riceve il potere esclusivo di Dio: perdonare i peccati (cf. Mc 2,7p). Le è donata la possibilità di separare, slegare e assolvere il peccatore dal suo peccato, liberando il presente da ogni ipoteca del passato.

Perdonare i peccati è miracolo più grande che risuscitare i morti. Chi perdo­na fa vivere l’altro, perché lo riconosce fratello; così nasce lui stesso come figlio uguale al Padre, perché ama come lui (cf. Mt 5,44-48; Lc 6,35-38). Lo Spirito, a­more che tutto crea e ricrea, è principio di creazione e di redenzione: il perdono fa nuove tutte le cose.

gli sono rimessi. È un passivo divino. Dio rimette ciò che noi rimettiamo: affi­da a noi il suo servizio di perdono. La nostra missione è fare in terra ciò che lui fa in cielo: donare e perdonare. Ciò che il Padre fa di sua natura, è il compito di noi, suoi figli, per diventare ciò che siamo.

Il perdono dei peccati, insieme alla morte/risurrezione di Gesù e alla conver­sione, fa parte del primo annuncio cristiano (cf. Lc 24,47) ed è strettamente connes­so con la risurrezione: «Se Cristo non è risorto, è vana la vostra fede e voi siete an­cora nei vostri peccati», dice Paolo a quelli di Corinto (lCor 15,17). In verità noi sappiamo di essere passati dalla morte alla vita se amiamo i fratelli (cf. 1Gv 3,14): l’amore svela la sua essenza di gratuità e assolutezza proprio nel perdono.

a chi li ritenete, sono ritenuti. Queste parole, complementari alle precedenti, possono essere intese in vari modi. A noi è dato il potere divino di perdonare; tut­tavia, mentre Dio sempre e solo perdona, noi invece – l’esperienza lo dimostra ­possiamo anche non perdonare. Gesù ci ammonisce circa l’importanza del nostro perdono, perché ciò che non perdoniamo non è perdonato. Ma, se non perdoniamo, siamo ancora nel nostro peccato: non viviamo il perdono di Dio (Mt 6,14s; Mc Il,25). L’amore del Padre vive in noi se amiamo i fratelli.

Si può intendere anche che la comunità ha il potere di dichiarare quando il peccato è tolto o meno, a seconda che il peccatore abbia accolto o meno il perdono (cf. 3,18s.36b). Anche Gesù dichiara ai farisei che il loro peccato rimane, perché, non riconoscendolo, non accettano il perdono (9,41). È un grande atto di miseri­cordia denunciare il male, perché uno desideri uscirne. Infatti lo Spirito convince il mondo di peccato (16,8): la denuncia/conoscenza del peccato è fondamentale per la salvezza.

In Giovanni si vedono i vari atteggiamenti di Gesù nei confronti dei peccato­ri, che tutti ama e vuoI liberare. Al paralitico dice: «Non peccare più, perché non ti accada di peggio» (5,14). Infatti non è così dalla nascita: la sua condizione di parali­si è collegata alla sua connivenza con il male (cf. 5,6s). Solo chi ascolta la Parola del Figlio ha vita eterna e non va incontro al giudizio: è passato dalla morte alla vita (5,24). Al cieco dalla nascita invece, che non è tale per colpa sua, il Signore si rivela aprendogli gli occhi con il suo fango (cf. 9,1ss). Ai farisei, come già detto, che non ammettono la loro cecità, Gesù dichiara che il loro peccato rimane (9,41), perché non accettano il dono della luce.

Inoltre la coppia di verbi opposti «rimettere/ritenere» indica la totalità del po­tere, come legare/sciogliere (Mt 16,19), entrare/uscire (10,9b). Gesù ci conferisce la pienezza del potere di perdono. Nella misura in cui non lo usiamo, abusiamo di Dio, amore infinito, e impediamo la sua glorificazione nel mondo.

Questo potere è concesso ai «discepoli» (cf. v.19), a ogni discepolo, non ad al­cuni in particolare. Paolo intende la sua missione come «ministero della riconcilia­zione»: si dichiara «servo» e «ambasciatore» di colui che fu fatto «peccato in nostro favore», perché noi ottenessimo in lui «la giustizia di Dio» (2Cor 5,18-21).

Il perdono, ricevuto e accordato (cf. Mt 18,21-35), costituisce il mondo nuovo, la comunità dei fratelli che vivono la pace e la gioia di Gesù. Chi perdona, diventa figlio, uguale al Padre; chi è perdonato, se accoglie il perdono, diventa a sua volta fi­glio, capace di perdonare e dire in Spirito e verità: «Padre nostro» (Mt 6,14s). L’amore e il perdono del Padre sono sempre mediati dal Figlio e da chiunque si ri­conosce suo fratello.

Il testo parla del perdono, senza specificare come lo si esercita. I modi di cele­brarlo possono essere diversi: il battesimo, il sacramento della riconciliazione, il per­dono fraterno. In verità il pane quotidiano, che rende possibile la vita tra gli uomi­ni, è il perdono ricevuto e dato non sette volte al giorno (cf. Lc 17,4), ma settanta volte sette (cf. Mt 18,22).

Il cristianesimo non è legge: è la buona notizia del perdono del Padre e del­la libertà dei figli. «È stato Dio infatti a riconciliare a sé il mondo in Cristo, non imputando agli uomini le loro colpe e affidando a noi la parola della riconcilia­zione» (2Cor 5,19). Da qui l’appello rivolto a tutti: «Lasciatevi riconciliare» (2Cor 5,20b): «Ecco ora il momento favorevole, ecco ora il giorno della salvezza» (2Cor 6,2).

Quando l’uomo accetta l’amore del Figlio, è riconciliato con Dio, con sé e con gli altri. È rinsaldata la frattura originaria, che ci divise da lui, da noi e tra di noi. Allora «il lupo dimorerà con l’agnello» (Is 11,6) e «la saggezza del Signore riempi­rà il paese come le acque ricoprono il mare» (Is 11,9).

Tutta la creazione geme da sempre nelle doglie del parto, in attesa che nel­l’uomo si riveli la gloria del Figlio (cf. Rm 8,19-23). Questa si manifesta quando noi, perdonando, diventiamo suoi fratelli.

Pregare il testo

  • Entro in preghiera come suggerito nel
  • Mi raccolgo con i discepoli nella stanza del cenacolo.
  • Chiedo ciò che voglio: gustare la gioia di chi riconosce il Signore dalle ferite del suo amore, accogliere il suo Spirito di perdono e perdonare.
  • Traendone frutto, con i discepoli guardo e ascolto Gesù.

Da notare:

  • è la sera di quel giorno
  • le porte sprangate e la paura dei discepoli
  • Gesù viene e sta nel mezzo
  • pace a voi
  • Gesù mostra le mani e il fianco
  • i discepoli gioiscono a vedere il Signore
  • come il Padre ha mandato me, anch’io invio voi
  • Gesù insufflò
  • accogliete lo Spirito Santo
  • se rimettete i peccati, sono rimessi
  • se li ritenete, sono ritenuti.

Testi utili

Sal 23; Zc 14,1ss; Gv 7,37-39; 10,1-18; 14,15-26; 15,26s; 16,7-15; 17,17-26; Gai 5,22; Mt 18,21-35; 2Cor 5,14-6,2

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Domenica di Pentecoste

Gv 20, 19-23
Dal Vangelo secondo Giovanni

La sera di quel giorno, il primo della settimana, mentre erano chiuse le porte del luogo dove si trovavano i discepoli per timore dei Giudei, venne Gesù, stette in mezzo e disse loro: «Pace a voi!». Detto questo, mostrò loro le mani e il fianco.

E i discepoli gioirono al vedere il Signore. Gesù disse loro di nuovo: «Pace a voi! Come il Padre ha mandato me, anche io mando voi». Detto questo, soffiò e disse loro: «Ricevete lo Spirito Santo. A coloro a cui perdonerete i peccati, saranno perdonati; a coloro a cui non perdonerete, non saranno perdonati».

C: Parola del Signore.
A: Lode a Te o Cristo.

  • 04 – 10 Giugno 2017
  • Tempo di Pasqua VII, Colore – Rosso
  • Lezionario: Ciclo A | Salterio: sett. 1

Fonte: LaSacraBibbia.net

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