Commento al Vangelo del 31 marzo 2018 – p. Alessandro Cortesi op

Sabato santo è giorno di silenzio. I segni tacciono, la liturgia è sospesa. E’ giorno di attesa, tempo di interruzione. Sono ore segnate dalla memoria del dolore e da una domanda che rimane aperta e sospesa. E’ tempo che provoca a mantenersi aperti all’ultimo.

C’è in questo giorno un rinvio al passato, alla memoria e a tutto ciò che la sepoltura reca con sè, il rinvio a tutta la vita di Gesù, il ricordare e ritornare ai suoi gesti e alle sue parole. E’ giorno del silenzio della morte, del vuoto del distacco. Esso racchiude in sé anche la mancanza che sempre rimane, attitudine di attesa nel grido soffocato e nel pianto.

Sabato è memoria di Cristo e di tutti coloro che sono entrati nel passaggio della morte, è silenzio della morte dopo lo scatenarsi del male e dell’ingiustizia, ed è silente denuncia della violenza e del dominio che schiaccia ed elimina.

E’ giorno di un rimanere nel silenzio, nel ricordo, di un vivere lo stare sotto, il sopportare resistendo al male, dando spazio al pensiero, alla preghiera, all’ascolto. Racchiude il silenzio di Gesù entrato nella morte; ma anche il silenzio di Dio che sembra non rispondere. Questo giorno reca con sé il silenzio della sofferenza di tutti coloro che nel cuore sperimentano il vuoto. E’ tempo di mancanza e del dolore per l’assenza di Gesù, amico e fratello.

Il sabato santo è memoria di una discesa: la discesa dalla croce, la discesa nel sepolcro, la discesa sino agli inferi. Paolo vede la croce di Gesù come il termine ultimo di una discesa verso il basso: “umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce” (Fil. 2,8)

La prima lettera di Pietro parla di un annuncio di salvezza da parte di Cristo a coloro che erano rinchiusi in prigione: “anche Cristo è morto una volta per sempre per i peccati, giusto per gli ingiusti, per ricondurvi a Dio; messo a morte nel corpo, ma reso vivo nello spirito. E nello spirito andò a portare l’annuncio anche alle anime prigioniere, che un tempo avevano rifiutato di credere, quando Dio, nella sua magnanimità, pazientava nei giorni di Noè…” (1Pt 3,18-20).

Nel vangelo di Matteo con riferimento alla vicenda di Giona si allude ad un discendere: «Come infatti Giona rimase tre giorni e tre notti nel ventre del pesce, così il Figlio dell’uomo resterà tre giorni e tre notti nel cuore della terra» (Mt 12,40).

Il vangelo di Nicodemo, ne parla offrendo una plastica descrizione: “E subito, a quella parola, le porte bronzee si frantumarono e le sbarre di ferro fu­rono infrante. Tutti i morti legati furono sciolti dalle catene […]. Il re della gloria entrò come un uomo. I luoghi bui tutti dell’ade s’illuminarono::: II re della gloria, porgendo la sua destra, prese e sollevò il progenitore Adamo. Quindi, volgendosi agli altri, disse: ‘Orsù, venite con me voi tutti che subiste la morte per il legno che costui ha toccato. Ecco io vi faccio risorgere tutti per mezzo del legno della croce’”. (M.Erbetta, Apocrifi del Nuovo Testamento, 268-269)

La tradizione orientale ha sviluppato questo motivo teologico. Esso sottolinea la discesa di Cristo come un movimento di accoglienza, di recupero. E’ un andare incontro che coinvolge tutta l’umanità e il cosmo e non lascia nessuno perduto sin negli abissi, negli inferi, per liberare tutti i prigionieri. Nessuno viene dimenticato e perso agli occhi di Dio.

Per questo Ireneo scrive: “Il Signore rimase tre giorni nel luogo in cui soggiornavano i morti, secondo quanto ha detto di Lui il profeta: il Signore si è ricordato dei suoi santi morti i quali si addormentarono prima nella terra di sepoltura e discese presso di loro per liberarli e per salvarli”. (Contro le eresie, V,31,1)

La discesa di Cristo è immaginata come uno scendere sino a prendere per mano Adamo ed Eva, rompendo i cardini delle porte che chiudevano luoghi di prigione. Non solo Gesù discende verso il basso nelle profondità più buie della terra, ma anche scende nel tempo a riprendere tutto il passato. Nulla va perduto, tutto può essere rinnovato.

La Pasqua viene così raffigurata nelle icone come un prendere per mano, un rialzare, in un movimento di rialzamento e di liberazione. Gesù Cristo sale allora ma non da solo, insieme a lui c’è una moltitudine. E sale recando sulle spalle, come pastore, l’umanità, la pecora perduta, aprendo spazi nuovi. Nessuno può rimanere prigioniero della morte.

Efrem, nelle sue poesia e inni vede nel volto di Gesù il profilo di quell’Adamo pensato come immagine che compie Cristo genere-umano: “Quell’Agnello vivente aprì ai sepolti una via dal sepolcro, con il grido che gettò… la festa che ci fu nel mese di Nisan lacerò i sepolcri con un grido, il grido che fa vivere tutti. Lo udì la morte che tutti uccide: essa venne meno e abbandonò i suoi scrigni”. (Efrem Il Siro).

E così antiche omelie sul sabato santo ripetono: «Che cosa è avvenuto? Oggi sulla terra c’è grande silenzio, grande silenzio e solitudine. Grande silenzio perché il Re dorme: la terra è rimasta sbigottita e tace perché il Dio fatto carne si è addormentato e ha svegliato coloro che da secoli dormivano. Dio è morto nella carne ed è sceso a scuotere il regno degli inferi. Certo egli va a cercare il primo padre, come la pecorella smarrita. Egli vuole scendere a visitare quelli che siedono nelle tenebre e nell’ombra di morte. Dio e il Figlio suo vanno a liberare dalle sofferenze Adamo ed Eva che si trovano in prigione. Il Signore entrò da loro portando le armi vittoriose della croce. Appena Adamo, il progenitore, lo vide, percuotendosi il petto per la meraviglia, gridò a tutti e disse: « Sia con tutti il mio Signore ». E Cristo rispondendo disse ad Adamo: « E con il tuo spirito ». E, presolo per mano, lo scosse, dicendo: “Svegliati, tu che dormi, e risorgi dai morti, e Cristo ti illuminerà. Io sono il tuo Dio, che per te sono diventato tuo figlio; che per te e per questi, che da te hanno avuto origine, ora parlo e nella mia potenza ordino a coloro che erano in carcere: Uscite! A coloro che erano nelle tenebre: Siate illuminati! A coloro che erano morti: Risorgete! A te comando: Svegliati, tu che dormi! Infatti non ti ho creato perché rimanessi prigioniero nell’inferno. Risorgi dai morti. Io sono la vita dei morti. Risorgi, opera delle mie mani! Risorgi mia effige, fatta a mia immagine! Risorgi, usciamo di qui! Tu in me e io in te siamo infatti un’unica e indivisa natura. Antica « Omelia sul Sabato santo ». (PG 43, 439. 451. 462-463).

“Il Sabato Santo è la “terra di nessuno” fra la morte e la Risurrezione ma in questa “terra di nessuno” è entrato Uno, l’Unico, che l’ha attraversata con i segni della sua passione per l’uomo. Qui Gesù Cristo ha condiviso non solo il nostro morire ma anche il nostro rimanere nella morte. Si è trattato della solidarietà più radicale. In quel tempo oltre il tempo Gesù Cristo è disceso agli inferi. Questo vuol dire che Dio, fattosi uomo, è arrivato fino al punto di entrare nella solitudine estrema dell’uomo, dove non arriva alcun raggio di amore, dove regna l’abbandono totale senza alcuna parola di conforto: gli inferi. Gesù Cristo, rimanendo nella morte, ha oltrepassato la porta di questa solitudine ultima per guidare anche noi ad oltrepassarla con Lui. Ecco, proprio questo è accaduto nel Sabato Santo: nel regno della morte è risuonata la voce di Dio. È successo l’impensabile: che cioè l’amore è entrato negli inferi. Anche nel buio estremo della solitudine umana più assoluta noi possiamo ascoltare una voce che ci chiama e trovare una mano che ci prende e ci conduce fuori. L’essere umano vive per il fatto che è amato e può amare. E se anche nello spazio della morte è penetrato l’amore, allora anche là è arrivata la vita. Nell’ora dell’estrema solitudine non saremo mai soli” (Benedetto XVI, visita alla Sindone, Torino 2.05.2010)

Così Carlo Maria Martini riflettendo sul sabato santo ricordava: “Siamo dunque nel sabato del tempo, incamminati verso l’ottavo giorno: fra “già” e “non ancora” dobbiamo evitare di assolutizzare l’oggi, con atteggiamenti di trionfalismo o, al contrario, di disfattismo. Non possiamo fermarci al buio del Venerdì santo, in una sorta di “cristianesimo senza redenzione”; non possiamo neanche affrettare la piena rivelazione della vittoria di Pasqua in noi, che si compirà nel secondo avvento del Figlio dell’uomo”.

Così pregava ricordando Maria colei che nel sabato visse la fedeltà dell’attesa, della memoria, e della speranza: “Tu, o Madre della speranza, hai pazientato con pace nel Sabato santo e ci insegni a guardare con pazienza e perseveranza a ciò che viviamo in questo sabato della storia, quando molti, anche cristiani, sono tentati di non sperare più nella vita eterna e neppure nel ritorno del Signore. L’impazienza e la fretta caratteristiche della nostra cultura tecnologica ci fanno sentire pesante ogni ritardo nella manifestazione svelata del disegno divino e della vittoria del Risorto. La nostra poca fede nel leggere i segni della presenza di Dio nella storia si traduce in impazienza e fuga, proprio come accadde ai due di Emmaus che, pur messi di fronte ad alcuni segnali del Risorto, non ebbero la forza di aspettare lo sviluppo degli eventi e se ne andarono da Gerusalemme (cf Lc 24,13ss.). Noi ti preghiamo, o madre della speranza e della pazienza: chiedi al tuo Figlio che abbia misericordia di noi e ci venga a cercare sulla strada delle nostre fughe e impazienze, come ha fatto con i discepoli di Emmaus. Chiedi che ancora una volta la sua parola riscaldi il nostro cuore (cf Lc 24, 32). Intercedi per noi affinché viviamo nel tempo con la speranza dell’eternità, con la certezza che il disegno di Dio sul mondo si compirà a suo tempo e noi potremo contemplare con gioia la gloria del Risorto, gloria che già è presente, pur se in maniera velata, nel mistero della storia” (Lettera pastorale, La madonna del sabato santo, 2000-2001).

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