Commento al Vangelo del 3 Marzo 2019 – p. Roberto Mela scj

Parole e tesori

Siracide, il poliedrico

Nella sua pregevole introduzione al “Pentateuco Sapienziale” (Pr, Gb, Qo, Sir, Sap), lo specialista Luca Mazzinghi (che ha collaborato criticamente alla nuova traduzione italiana del CEI 2008 e che in questa prima parte del nostro commento seguiamo da vicino, spesso letteralmente) ricorda che il libro del Siracide è probabilmente il primo libro “firmato” della Bibbia. Nell’Epilogo (Sir 50,27, in greco) l’autore si firma come «Gesù, figlio di Sira, figlio di Eleazaro, di Gerusalemme, che ha riversato come pioggia la sapienza del cuore», mentre nel Prologo (testo non canonico con una numerazione di 35 versetti secondo l’edizione del testo greco curata da A. Rahlfs) il traduttore (che è poi il nipote dell’autore) lo chiama «mio nonno Gesù» (v. 7). Il testo ebraico di Sir 50,27 recita invece «Simeone, figlio di Gesù, figlio di Eleàzaro, figlio di Sira» (cf. anche il testo ebraico di Sir 51,30 nella nota della Bibbia di Gerusalemme).

I codici greci titolano il libro con “Sapienza di Sirach” oppure “Sapienza di Gesù figlio di Sirach”. I moderni preferiscono la dizione ebraica di “Libro di Ben Sira (figlio di Sira)” oppure di “Siracide” (così CEI 2008). Girolamo lo traduce dandogli il titolo di Ecclesiasticus (liber) e così il libro è spesso chiamato ancora Ecclesiastico. Rufino (Iulia Concordia, 345 circa – Sicilia, 411), afferma che tale dizione è dovuta al fatto che il Siracide, pur essendo usato nella Chiesa, non è canonico, ma comunque “ecclesiastico”, a motivo del suo uso didattico nella predicazione cristiana. Naturalmente oggi, a partire dal concilio di Trento e a differenza di quello che afferma Rufino, il testo è riconosciuto come canonico, cioè appartenente alla lista dei libri normativi e approvati dalla Chiesa.

Il testo ebraico fu composto probabilmente a Gerusalemme intorno all’anno 185 a.C., negli anni tranquilli di Seleuco Filopatore (187-175 a.C.), succeduto ad Antioco III (il Grande (223-187 a.C.) e predecessore del terribile Antioco IV (175-164 a.C.) persecutore degli ebrei. L’autore dichiara apertamente di essere un saggio ebreo molto conosciuto, colto, viaggiatore, aperto alla cultura ellenistica.

Il nipote di Ben Sira, giunto ad Alessandria d’Egitto ne curò la traduzione in greco nel 132 a.C., come afferma nel Prologo (v. 28). Permise in tal modo alla profonda cultura religiosa ebraica di essere divulgata nel vasto mondo di quella greco-ellenistica, a testimonianza dei grandi traguardi da essa raggiunti, non inferiori a quelli della cultura coeva dominante.

Conosciamo un testo greco lungo e un testo greco breve. Quello breve è considerato dagli studiosi il più autorevole e seguito dalla traduzione CEI 1974 e 1978. La traduzione CEI 2008 segue, invece, il testo greco lungo (nell’edizione critica curata da J. Ziegler), mettendo in carattere tondo il testo breve e in corsivo le aggiunte del testo lungo.

L’ottima Bibbia di Gerusalemme (ed. Dehoniane Bologna, che si avvale del lavoro dei padri domenicani dell’École Biblique, situata nel Convento di Santo Stefano a Gerusalemme) riporta in corsivo nelle preziose note a piè di pagina le varianti presenti nelle parti del testo latino della Neovolgata e del testo ebraico rinvenuto. Tra il 1896 e il 1965 sono stati scoperti infatti quattordici manoscritti al Cairo, a Qumran e a Masada, che hanno restituito circa 1.098 versetti su un totale di 1.616 (67,94%). Mancano i testi di Sir 1–2 e della sezione di Sir 17–29. Siamo in presenza del testo ebraico originale, e non di una retroversione. Purtroppo, anche qui abbiamo un testo ebraico in due recensioni diverse, Ebraico I ed Ebraico II (cf. ad es., la lunga inserzione di Ebr II dopo Sir 51,12: un salmo di lode analogo al Sal 136). Del testo ebraico manca ancora l’edizione critica.

La tradizione sapienziale

La tradizione ebraica più antica si era incanalata in modo equilibrato fra la teologia deuteronomistica (Dt/dtr) che si fondava sulle possibilità dell’uomo di osservare la Legge e la traduzione sacerdotale (P), fondata più sulla promessa e quindi sul culto. La tradizione apocalittica rimandava invece tutto ad un intervento radicale, futuro, di Dio. Giobbe e Qohelet contestano le due prospettive teologiche tradizionali, rifiutando però anche quella dell’apocalittica.

Siracide non nega la fiducia nell’intervento divino e non minimizza il valore del culto. Recupera tuttavia la libertà dell’uomo e quindi anche il grande tema dell’osservanza della legge di Dio, senza però appiattirsi su di essa. Siracide ci appare così un felice tentativo di sintesi tra le prospettive tradizionali di Israele (il patto e la promessa) e, insieme, l’approccio sapienziale alla realtà (l’esperienza della vita), senza prendere mai la via proposta dall’apocalittica.

Struttura

Secondo Mazzinghi, la struttura letteraria del Siracide può essere così definita a grandi linee:

Inno introduttivo alla sapienza: Sir 1,1-10; tutto il resto di Sir 1,1–2,18 è in realtà dedicato alla sapienza;

Prima Parte: Sir 3–23: prima collezione sapienziale (temi sapienziali diversi); – Inno con la sapienza personificata come protagonista: Sir 24,1-29; in Sir 24.30-34 è il sapiente stesso che si presenta;

Seconda parte: Sir 25,1–42,14: nuova raccolta di temi sapienziali diversi; – Inno a Dio per la sua creazione: Sir 42,15–43,33;

– Terza parte: Sir 44b–50: l’elogio dei padri;

Inno conclusivo: Sir 51: salmo conclusivo sul dono della sapienza.

Nel pregevole commentario maggiore a Siracide curato da Maria Carmela Palmisano (ed. San Paolo, Cinisello B. [MI] 2016), sorella della comunità di Loyola e dottore in Esegesi al Pontificio Istituto Biblico con una tesi proprio su Siracide, si troverà alle pp. 13-14 una struttura letteraria più ampia. Attualmente la studiosa lavora all’edizione della Bibbia di Gerusalemme in lingua slovena.

L’uso della parola

All’interno dell’ampia sezione di Sir 25,1–42,14 (“Istruzioni su varie situazioni di vita ed esempio offerto ai discepoli”), dopo la valutazione di varie situazioni e istruzioni sulla brava e cattiva moglie (25,1–26,27), all’interno della sottosezione di Sir 26,28–28,26 viene riportato un trattato sugli errori nell’attività sociale (26,28–27,3: tre situazioni di perversione; l’attività commerciale) e nell’uso della lingua (27,4-29).

L’unità dedicata alle istruzioni sull’uso della parola (27,4-29) è articolata in tre strofe: vv. 4-10 (“Il parlare rivelatore dell’uomo”); vv. 11-21 (“Istruzione sull’uso improprio della parola”); vv. 22-29 (“Conseguenze del parlare falso”).

È questo il quadro generale in cui si inserisce la breve pericope proclamata nella liturgia odierna (Sir 27,5-8).

Il parlare rivela l’uomo

Nella letteratura sapienziale non ci sono narrazioni riguardanti la storia della salvezza – anche se esistono belle riflessioni sapienziali su di essa –, ma riflessioni sull’arte del ben vivere, secondo la sapienza instillata da Dio nel creato e soprattutto nell’uomo. Anche la riflessione della sapienza umana, con il suo procedere talvolta ondivago e non sempre progressivo, diventa strumento della rivelazione pedagogica e graduale di Dio al suo popolo e all’umanità intera.

In Sir 27,4-7 l’autore illustra con tre belle immagini come il parlare dell’uomo riveli la sua natura, le sue caratteristiche, i suoi pregi e, purtroppo, anche i suoi difetti. La pericope proclamata nella liturgia (vv. 5-7) si limita alle ultime due immagini.

La fornace e la cottura

La fornace prova (dokimazei) gli oggetti del ceramista (cf. v. 5), li “testa”, li mette alla prova col fuoco, facendone emergere con la cottura la loro bellezza, ma anche i possibili difetti di fabbricazione, la povertà del materiale di provenienza, le incrinature, la diversità di spessore, le smagliature, i buchi veri e propri, l’inconsistenza di alcune parti… Nella cottura finale si manifesta esternamente la qualità del prodotto e della sua lavorazione.

Nella camera di combustione parallela a quella di cottura, e separata da essa normalmente da una parete, il calore diffuso uniformemente può andare dagli 800 gradi fino ai 1.400 gradi necessari per cuocere le porcellane artistiche dure. Una cottura a calore eccessivo può portare alla formazione di bolle e di rugosità della superficie.

A partire da questa esperienza di vita constatabile da tutti, a prescindere dal loro tipo di cultura, religione, di differenza di livello culturale e sociale…, l’autore afferma che allo stesso modo (kai) nel suo conversare (dialogismos) (è presente) la prova/il banco di prova (peirasmos) dell’uomo (v. 5b). Il modo di ragionare e di esprimersi di una persona rivela all’esterno, conferma, rende incontrovertibile, “rassoda”, “sigilla” il suo essere come uomo, la sua “umanità” (o meno…) interiore.

Il ragionamento fatto da una persona, l’eloquio mostrato nella scelta delle parole, nel tono usato, nel quadro culturale a cui si fa riferimento implicito (il patto linguistico comune, la “lingua”) rivela all’esterno le qualità interne, invisibili dell’uomo.

Certamente verba volant scripta manent, questo lo sapeva forse già anche il saggio Gesù Ben Sira. Nell’epoca dei mass media e dei social odierna neppure questo è sicuro, in quanto si arriva a negare spudoratamente persino l’evidenza ripresa in video e fonicamente, avanzando sempre come scusa un mostruoso fraintendimento, l’estrapolazione dolosa dal contesto…, che fa passare per stupidi milioni di ascoltatori o telespettatori. E la menzogna, ripetuta ossessivamente in TV, diventa verità, con grave manipolazione dell’opinione pubblica. Anche i verba che dovrebbero “rimanere” possono esser manipolati al computer, i verbali possono esser fatti sparire, sbianchettati, anneriti… Tant’è, mala tempora currunt.

Siracide, modernissimo, invita saggiamente alla vigilanza e a non portare la testa all’ammasso, trattenendosi solo la “pancia” come sede unica dei ragionamenti.

Molto moderno il Siracide…

Il frutto dell’albero e la coltivazione

Il frutto dell’albero rivela come è coltivato l’albero. Letteralmente: «(La) coltivazione/ de(ll’) albero (geōrgion xylou, oggetto) manifesta (ekphainei) il suo frutto (ho karpos autou, soggetto)» (v. 6). I frutti di una piantagione manifestano la qualità con la quale essa è stata coltivata, i processi messi in opera e i tempi programmati per la produzione, i prodotti usati per favorire la crescita e quelli impiegati per debellare malattie e infestazioni varie.

L’uomo di oggi è ipersensibile alla trasparenza della filiera produttiva e alla genuinità del prodotto, con una ricerca a volte ossessiva del “biologico” e dei prodotti a “chilometro zero”. Si è attenti a consultare l’etichetta che indica il paese di provenienza, i componenti presenti nel prodotto finale. Il prodotto finale attesta la qualità inerente al prodotto ed, eventualmente, anche le manipolazioni subite in precedenza, tramite sbiancamento, falso “rinfrescamento”, colorazione artificiale, ceratura, lucidatura…

«Allo stesso modo (houtōs) la parola (ho logos) (rivela, verbo qui seguito dal caso genitivo) il pensiero del cuore dell’uomo». La parola pronunciata pubblicamente, all’esterno dall’uomo manifesta la qualità del ragionamento, del pensiero, delle idee, del metodo logico seguito dal locutore che manifesta in tal modo ciò che sta nel suo “cuore”, ciò che precede il suo dire.

Nella Bibbia il “cuore” è la sede dell’intelligenza, della coscienza, della volontà, dell’intenzionalità, della qualità morale delle scelte compiute nella vita personale e sociale. La parola e i discorsi di una persona manifestano le sue idee interiori, la sue scelte morali, le manipolazioni subite o i troppi fitofarmaci assimilati, le strumentalizzazioni che in modo anche involontario può produrre, la qualità del “nutrimento” che nel desiderio intende portare all’interlocutore e alla società nel suo insieme.

Non c’è chi non veda come l’opacità dei processi produttivi delle idee imposte ossessivamente all’opinione pubblica, anche a livello subliminale da “piattaforme” più o meno democratiche e controllabili, possa contaminare il tessuto connettivo dell’interlocuzione umana, avvelenando i pozzi della comunicazione vera, costruttiva, documentata, non manipolata e non strumentalizzatrice.

«Prima (di aver sentito) del ragionamento (logismou) non elogiare (mē epainesēiis) un uomo, questo infatti (è la) verifica (pierasmos) de(gli) uomini» (v. 7)

Tornano gli elementi fondamentali presenti nel v. 5 (peirasmos, dialogismos), producendo una bella inclusione. In precedenza si constatava che la parola, il ragionamento rivelano, portano a giusta cottura”, “testano” le qualità di un uomo (cf. v. 5). Ora si invita a non procedere oltre, a non elogiare e a non inneggiare in modo intempestivo un uomo, prima cioè di averlo sentito esporre concretamente i suoi ragionamenti.

La parola rivela l’uomo. Il problema è che oggi la parola, la comunicazione, i codici verbali, gli strumenti massmediali sono impostati in modo tale da far leva solo sulla parola, senza dare la possibilità di comprendere se l’uomo che la pronuncia pensi effettivamente quello che dice oppure si serva in modo surrettizio delle parole, dei suoi strumenti e dei suoi effetti per ingannare l’interlocutore in vista solo di carpirgli consenso sociale, voti politici, supporto finanziario…

Tante cose si possono evidentemente capire già da come uno parla, e spesso questo è più che sufficiente per eliminarlo (non fisicamente!) dalla propria vista per pura igiene mentale e salvaguardia della salute del proprio fegato. Il discorso per slogan, i ragionamenti semplificati e gridati, le urla “sgarbate”, le analisi approfondite bypassate fanno correre però oggi il pericolo di credere troppo presto alle parole – e solo a quelle –, alle false promesse che non possono essere mantenute, alla demonizzazione dell’avversario, all’incapacità e alla non volontà dell’ascolto e del dialogo… Oggi è necessaria l’attenzione alla parola, alla modalità della sua elaborazione e diffusione, alla corrispondenza con il reale pensiero interno complessivo del locutore, alle finalità ultime dei suoi ragionamenti e dei suoi progetti, all’adeguazione successiva dei fatti alle idee esposte in precedenza…

Si tratta di sapienza puramente umana, ma al giorno d’oggi il problema è proprio quello di rimanere almeno umani.

Molto moderno il Siracide, ma evidentemente da aggiornare…

Guide cieche?

Gesù prosegue nel suo discorso “pianeggiante” (Lc 6,17-49), ma non troppo… I suoi ragionamenti dai tratti sapienziali, oltreché biblici, sfruttano la ricchezza del tesoro della sapienza di Israele – racchiusa anche nel libro del Siracide –, così come quella della sapienza umana ricavabile da un’attenta valutazione della realtà, in collegamento vitale con la sapienza delle generazioni precedenti che hanno già prodotto una mole imponente di osservazioni che aiutano muoversi nel mondo in modo soddisfacente e “produttivo” nella vita, illuminati anche da un’“arte del buon vivere” quale vuole essere la sapienza biblica.

La prima lettura insisteva sulla parola e sul ragionamento, sul loro buon uso e su una loro retta valutazione.

Nella pericope evangelica Gesù insiste su un organo e una facoltà umana integrabile con la parola: gli occhi e la vista.

La brevissima parabola dei due ciechi illustra chiaramente l’impossibilità per un cieco di guidarne un altro per le strade pericolose della Palestina di allora e di quelle impossibili del nostro tempo. Se per assurdo accadesse, tutti e due cadrebbero nel fosso. Questo non toglie che un cieco possa “guidare” sapienzialmente molte altre persone proprio anche per la sua esaltata sensibilità per i suoni, la musica, il silenzio, la contemplazione, la riflessione, la capacità di ascolto…

Questo è applicabile al rapporto discepolo-maestro. Ognuno, ben preparato, può superare il proprio maestro delle elementari, delle medie inferiori e superiori, anche del proprio professore con cui si è discussa la tesi di dottorato e di post-dottorato. Ma non lo può diventare tutto di un colpo, bruciando le tappe, senza elaborare a fondo il pensiero di coloro che lo hanno preceduto. Non si può arrivare a una meta senza che nessuno ti abbia in precedenza acceso una scintilla, instillato la passione, fatto intravedere una meta, fatto sognare un sogno, insegnato un metodo di studio… La vita è sapienza, e non solo quella fatta di conoscenze libresche. E la sapienza della vita non la si può acquisire autonomamente, da autodidatti. Quello che si è, lo si è per le relazioni intessute, le frequentazioni avute, le amicizie condivise, gli insegnamenti ricevuti, gli smacchi elaborati con l’aiuto di altri… Così è della vita spirituale.

Pagliuzze e travi

L’occhio e la vista concorrono nel poter camminare nella vita e, talvolta, anche a guidare altri nel cammino dei loro giorni. Indicare con umiltà e serenità la via ad altri, aiutare le persone con valutazioni e buoni consigli implica però conoscere con una giusta autovalutazione se stessi e coltivare un rapporto di verità misericordiosa verso gli altri.

Nella vita, anche in quella spiritale, molte volte è indispensabile il discernimento per intravedere il meglio possibile da compiere in una situazione ben concreta, in vista di proseguire un percorso positivo già iniziato verso una giusta (e per i credenti, evangelica) autorealizzazione. Il discernimento e la correzione fraterna, in ambito familiare, amicale, di comunità religiosa e parrocchiale richiede fra gli altri elementi un amore di fondo (o anche del suo grado minore, l’empatia), la condivisione del cammino e della sua meta, l’assenza di pregiudizi o di giudizi trancianti…

Il giudizio blocca una parola definitiva sull’interno dell’uomo, sul suo “cuore”, identificando il valore della sua persona con le sue eventuali mancanze commesse, finendo per appiattirla su di esse. Il giudizio come tale spetta solo a Dio, che conosce il cuore dell’uomo e le sue intenzioni profonde.

Il discernimento invece non giudica, ma valuta comportamenti, parole, risultati confrontandoli col desiderio di felicità che alberga profonda nel cuore dell’uomo, col suo progetto esistenziale di fondo e aiuta a fare verità fra i propri desideri di felicità e le vie intraprese, le scelte compiute, gli atteggiamenti coltivati, alcuni risultati parziali più o meno raggiunti…

Chi vuole aiutare nel discernimento o chi vuole porsi in un atteggiamento di correzione fraterna deve evidentemente essere dapprima in pace con se stesso, nella verità del proprio cammino, nell’accoglienza di fondo dell’interlocutore… Tutti hanno almeno qualche pagliuzza nel proprio occhio, vizi e comportamenti sbagliati, scelte immature e inappropriate, bersagli mancati (in linguaggio biblico questi sono i “peccati”).

Per aiutarsi veramente nella correzione fraterna, molto difficile persino in ambienti ben predisposti, occorre essere consapevoli della propria fragilità personale, aver un cuore grande e misericordioso, un rispetto e una stima di fondo delle persone, delle quale si vuole unicamente il loro bene. Medicati dal vangelo, dalla preghiera, dalla vita fraterna, gli occhi del credente sono consapevoli delle proprie travi e delle proprie pagliuzze, ma troveranno la modalità concreta di una fede che si rende dinamica nella carità (Gal 5,6), di «una verità che si realizza nella carità» (cf. Ef 4,15) per poter aiutare gli altri a proseguire e a crescere nel proprio cammino.

Nessuno può crescere bene – cioè nella verità, nella bontà e nella bellezza – senza l’aiuto del discernimento fraterno attuato da amici veri.

Alberi e frutti

Con degli esempi parabolici, che non contengono una vera e propria storia e la richiesta di un giudizio su di essa da applicare successivamente alla propria vita, Gesù riprende gli esempi sapienziali conosciuti nella sua cultura e in quella universale.

Non ci sono che alberi “buoni (kalon)” e “cattivi” (sapron, “marcio/putrido/inutilizzabile/cattivo), con i loro corrispettivi frutti. L’esempio ha di mira l’uomo e le conseguenze delle sue scelte, delle sue azioni, dei valori/disvalori che guidano le sue vie. C’è una corrispondenza sequenziale innegabile, comunque, tra albero “buono” e frutto “buono”, così come per l’albero “cattivo”. In ordine inverso, c’è corrispondenza incontrovertibile, a livello sapienziale, tra un frutto “buono” e la “bontà” dell’albero da cui è stato prodotto. La natura di ogni albero/uomo la si può riconoscere dai frutti che genera.

Gesù dimostra le proprie affermazioni con la negazione del suo contrario. Propone due esempi di consequenzialità impossibile: è impossibile che i fichi siano prodotti dalle spine e che si vendemmi uva dai rovi. Le diavolerie dell’ingegneria genetica applicate alla botanica e all’agricoltura riserveranno delle sorprese in futuro, certamente, ma si dovranno poi cercare gli acquirenti di simile prodotti “di plastica da laboratorio”…

Sono “l’uomo buono” (ho agathos antrōpos) e “il cattivo” (ho ponēros, colui che si identifica completamente col suo “male”) quelli che Gesù ha di mira con i suoi esempi parabolici.

Dal tesoro del loro cuore – cioè dalla loro mente, intelligenza, volontà e coscienza – essi producono (propherei) “il bene” o “il male”. Questo perché il loro “cuore” è un caveau, un deposito prezioso, uno scrigno, la parte più intima e profonda da dove una persona è diretta nelle sue scelte e nei propri atteggiamenti. C’è una linea diretta che collega l’intimo con l’esterno, il pensiero con la parola, le scelte morali con le azioni corrispondenti a valori e disvalori…

Gesù conclude le sue osservazioni sapienziali ricollegandosi a quelle presenti nel brano del Siracide, insistendo sulla parola. Essa è lo strumento principe, nobile, insuperabile a disposizione dell’uomo per potersi ex-premere, premere cioè sul proprio intimo per far uscire la ricchezza dell’interiorità, di ciò che lo muove nel profondo, di ciò che lo emoziona e lo affascina, di ciò che lo impaurisce e che lo blocca.

Coltiva bio

La bocca parla dell’abbondanza di ciò che c’è nel cuore. La parola deve essere sempre collegata – nel sentire biblico – alla sede dell’intelligenza, della coscienza e della volontà, e mai solamente alle passioni, alle emozioni pure, men che meno alle nude pulsioni del momento, più o meno solleticate e sovrastimolate da agenti esterni.

L’uomo è anche sentimento, certamente, e la Bibbia onora e loda l’amore paterno e materno di Dio, sorgente e modello di quello dell’uomo e della donna. Ma intriga certamente sottolineare come nell’universo biblico la parola sia collegata principalmente con la sede che guida coscientemente e volontariamente l’uomo, nel bene e, purtroppo, anche nel male.

Tenerlo presente in tempi calamitosi di slogan urlati nei social, di urla sorde e monodirezionali dei talk show, di spettacoli penosi esibiti nei parlamenti di democrazie di lunga data (se non proprio bimillenarie…) è igiene mentale che non può far che bene.

Si cerca quasi da maniaci i pasti vegetariani, vegani, i prodotti biologici, e poi ci si avvelena il fegato con quel che si sente e si dice. Si sviluppa l’intelligenza artificiale, mentre ancora si razzola a livello di abbaiamenti e grugniti animaleschi. C’è poi chi, per distinguersi, trimbula come il coccodrillo, landisce come la giraffa, gruga come il piccione, pulpa come un avvoltoio, guaiola come la volpe, polpotta come il furetto, gloglotta come il tacchino, bomba come il bombo, ziga come il coniglio, crocida e gracchia come una cornacchia, zirla come un tordo, ciarla come il codirosso, garrisce come la rondine o addirittura paupula come il pavone sperando di farsi notare per l’elevatezza dell’eloquio…

Coltiva bio, pensa bio, parla bio.

Tutta igiene mentale.

Ne guadagneremo tutti.

Commento a cura di padre Roberto Mela scj
Fonte del commento: Settimana News

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