Commento al Vangelo del 24 Marzo 2019 – p. Roberto Mela scj

Fortificato dalla vittoria di Gesù sulle tentazioni patite e vinte nel deserto

Quadrilateri gnoseologici e dinamici

Durante la schiavitù degli israeliti in Egitto, un altro faraone se ne va alle porte degli inferi, portando con sé la sua malvagità necrofila (Es 2,23). Se già quello che aveva comandato di uccidere tutti i neonati maschi degli ebrei «non aveva conosciuto Giuseppe» (Es 1,8), tanto meno ci si può aspettare che il nuovo conosca i figli di Giuseppe e li tratti un po’ meglio.

Dal profondo del loro “servizio di schiavitù/hā‘ăbōdāh” gli israeliti “alzano il loro grido/wayyiz‘āqû”, la loro “querela giuridica”, verso l’alleato potente. YHWH deve intervenite e soccorrere il suo partner in tragica difficoltà… E YHWH “udì/wayyišma‘”, “si ricordò/wayyizkōr”, “vide/wayyar’” e “seppe/wayyēda‘” (Es 2,24-25). Un quadrilatero conoscitivo potente, inattaccabile, incrollabile. Ma sembra un quadrilatero greco, fatto tutto di essenzialità ontologica fissa e ben definita.

YHWH non aveva parlato la lingua sacra mentre creava? Dov’è la sua anima dinamica, il suo spirito “ebraico”? Come diventerà operativo il quadrilatero gnoseologico? L’“essere” di YHWH non coincide forse con il suo “esserci-per”? Tramite chi YHWH interverrà per liberare gli israeliti?

Il pastore e il roveto ardente

Fuggito dall’Egitto dopo che il suo tentativo di liberare i fratelli ebrei con la violenza era naufragato, Mosè si era riparato in Madian dal sacerdote Ietro, che divenne suo suocero dopo che questi gli diede in moglie la figlia Sipporà (Es 2,21). Ma tutte le volte che guardava il volto del suo bimbo, Ghersom/Gērešōm (2,22), a Mosè saliva un groppo alla gola perché gli riapriva la ferita nel cuore, facendogli sentire un ritornello amaro: «Straniero residente sono in terra straniera/gēr hāyîtî be’ereṣ nokriyyāh». La carne della sua carne gli faceva rivivere ogni giorno la sua situazione precaria, parente prossima già più fortunata della schiavitù patita dai suoi fratelli in Egitto. Questo rimuginava di continuo Mosè mentre era al pascolo con le greggi del suocero. Sovrappensiero, si trova in lande desertiche, ai piedi del monte di Dio, l’Oreb. Oreb, Sinai, nomi diversi che ricordano l’incontro con Dio.

Perché Mosè era arrivato lì? Per cercare una pecora smarrita, risponde un midrash che commenta il libro dell’Esodo. Trovatala, se l’era messa in spalla. Allora Dio gli disse: «Siccome tu hai mostrato tanta cura verso una pecora smarrita, hai mostrato di essere pastore fedele e sicuro, tu sarai il pastore del mio popolo Israele» (Midrash Shemot Rabbah 2,2). Mosè è un pastore che guiderà il suo popolo ai pascoli della libertà.

Nel deserto, Mosè vede un «roveto che bruciava nel fuoco/hasseneh bō‘ēr bā’ēš». Seneh, “roveto” ha un’assonanza con Sinay, il monte di Dio. Perché proprio un roveto? I rabbini hanno una risposta a tutto: il roveto è il più umile degli alberi, come Israele è il più umile dei popoli; il roveto è la siepe dei giardini e Israele è la siepe che protegge il mondo; il roveto è l’albero delle spine e Dio soffre quando Israele soffre… Nella Bibbia il fuoco è il segno privilegiato di Dio (cf. Dt 4,24.33; Ger 20,9). Consuma nell’ardore del suo calore, ardore di amore dell’Innamorato (cf. Ct 8,6).

Il roveto brucia, ma “non è mangiato/’ênennû ’ukkal”. “Non mangiato” da chi? Il Dio di Israele lo avvolge con la vampa dell’amore, ma non lo consuma fagocitandolo con una fusione narcisistica. Non lo distrugge, anche se talvolta gli fa sentire tutto l’ardore dell’amore rifiutato, la sua “ira”.

Il roveto brucia. Israele brucia soffrendo, ma facendo luce. Brucia testimoniando. Brucia “annientato” nella Shoah dell’uomo dominato dal Diabolico, ma non annichilito totalmente e per sempre. Bruciano i forni crematori, ma non l’avranno vinta. Un virgulto rinascerà dall’albero troncato (cf. Is 11,1)…

Suolo di santità

Un “angelo di YHWH”, figura di YHWH invisibile ma presente, lontano ma vicino, disponibile ma non manipolabile, si fa vedere, appare nella fiamma infuocata. YHWH si mostra con una sua presenza personalizzata a Mosè, un fuoco che attira e tiene a distanza ad un tempo. Mosè avverte il mistero del messaggero divino, quasi vedesse l’invisibile, non visibile con gli occhi umani. Vuole “deviare/’āsurāh-nnā’” di proposito dal suo cammino abituale sulla pista, incerta ma visibile. Vuol uscire dal sentiero già tracciato dai giorni sempre uguali.

E YHWH – passaggio molto normale dall’angelo di YHWH a YHWH in persona –, lo vede e lo chiama per nome due volte, segno che deve chiedergli qualcosa di importante.

Poi gli comanda due gesti. Il primo è: «Non avvicinarti (fino a) qui», perché io sono il Vicino ma anche il Totalmente Altro, «sono Dio e non un uomo» (Os 11,9c). Mantieni lo spazio dell’alterità, il respiro dell’alleato, non la fusione impossibile e infausta.

Il secondo è: «Sciogli i tuoi sandali da sopra i tuoi piedi, perché “il luogo/hammāqôm sul quale tu stai (in piedi) è suolo santo (’admat-qōdeš hû’)”». Non puoi calpestare/prendere possesso/dominare/manipolare “il luogo” – che nel giudaismo rabbinico diventerà uno dei nomi di YHWH –, perché esso è un suolo di santità, un suolo santo. “Suolo/’ādāmāh” dal quale tu sei stato plasmato nell’’ādām dell’“In principio” (cf. Gen 2,7), suolo di santità anche quello, creato dal Santo. Io sono il Dio dei tuoi padri – Abramo, Isacco e Giacobbe –, Dio di famiglia e della tenda, ma anche Dio della storia e del cammino verso l’ignoto (cf. Gen 12,1ss).

Colui che si nasconde

Mosè “nasconde/wayyastēr” il suo volto di fronte a YHWH. Egli “ha timore/yārē’” del suo Signore. Non ne ha “paura” ma un rispetto ossequioso, religioso, tipico di colui che è estremamente piccolo di fronte ad una realtà che lo soverchia da ogni parte. Ne ha “timore/yirāh”, non “paura/paḥad”.

Mosè parla con YHWH e YHWH parla con Mosè faccia a faccia, come uno parla con il proprio amico (cf. Es 33,11). Mosè parla al Dio che sempre è presente per salvare, ma che talvolta sembra nascondersi nel momento della difficoltà dei suoi fedeli: «Veramente tu sei “un Dio che si nasconde/’ēl mistattēr”, Dio d’Israele salvatore», deve riconoscere il profeta Isaia (Is 45,15).

L’uomo non può vedere il volto di Dio e restare vivo (cf. Es 33,20). Per questo, quando Mosè chiederà a YHWH di mostragli la sua gloria, questi gli risponde che, da un anfratto della roccia, coperto dalla mano provvidente di YHWH, Mosè potrà vedere solamente le sue “spalle” (cf. Es 33,18-23). Le “spalle” di colui che è Gloria infuocata, “Colui-Che-È-Sempre-Davanti”. L’Oltre delle cose, l’Invisibile agli occhi umani, ma sperimentabile alla luce della fede.

Conosco le sofferenze e sono sceso

Questa volta non è l’autore biblico a dire qualcosa dell’essere di YHWH (cf. Es 2,23-25), ma è egli stesso a rivelare ciò che lo muove nel profondo. Egli ha visto la sofferenza del suo popolo e si è messo in moto. «Ho visto molto bene/rā’ōh rā’îtî» le sofferenze del mio popolo che si trova in Egitto e le sue grida/querele giuridiche a causa di coloro che lo opprimevano “ho ascoltato /šāma‘tî”; “conosco/yāda‘tî” le sue ferite per le botte subìte e “sono sceso per liberarlo/wā’ered lehaṣṣîilô” dalla mano degli egiziani «e per farlo salire/ûleha‘ălōtô” da quella terra verso una terra bella e spaziosa, verso una terra che stilla latte e miele» (Es 3,7-8a).

YHWH non sopportava oltre di conoscere senza agire. Non appartiene al suo “essere” conoscere e stare a guardare, dover accogliere le preghiere e il culto da parte di un popolo che è oppresso nell’ingiustizia, sottomesso a schiavitù e lontano dalla propria terra.

YHWH è vicino agli schiavi, ma è il Dio dei liberi, e certamente non degli schiavisti.

Missione

YHWH chiama Mosè per una missione ben precisa. Una vicenda che prende un bel po’ di tempo, fra inviti, invii e rifiuti. Il racconto della chiamata e della missione di Mosè si protrae da Es 3,1 a Es 4,17.

YHWH chiama Mosè e lo invia per ben tre volte: parti, e vai in Egitto a liberare il mio popolo (cf. Es 3,10.16-22; 4,12). E Mosè si sottrae per ben cinque volte alla chiamata, adducendo ogni volta una scusa diversa: «Chi sono io…?» (3,11); «Qual è il suo nome?», mi chiederanno (3,13); «Ecco non mi crederanno… Non ti è apparso il Signore» (4,1); «Io non sono uomo di parole/Non so parlare» (4,10).

Alla fine gli dirà quello che lo blocca nel profondo, che viene prima di tutte le altre obiezioni, l’inconfessabile. È la quinta e ultima “scusa”: «Per favore, manda chi vuoi mandare (ma non me)/šelaḥ-nā’ beyad-tišlaḥ!» (4,13).

Mosè dice per ultimo quello che lo spaventa per primo. Rifiuta la chiamata e la missione! Ma YHWH dona a Mosè il fratello Aronne come portavoce («sarà la tua bocca»), mentre per Mosè il compito è enorme, “divino”: «Tu sarai per lui come Dio/we’attāh tihyeh-llô lē’lōhîm» (CEI 2008: «e tu farai per lui le veci di Dio»). Il bastone per compiere dei segni che gli consegna sarà inoltre un’attrezzatura potente che lo aiuterà nella sua missione (4,17).

Alla fine Mosè cederà a YHWH, con una decisione netta, e l’avventura potrà iniziare: “Se ne andò/partì Mosè/wayyēlek Mōšeh” (Es 4,18), proprio come fece il suo antenato Abram dopo la sua chiamata a Charran, incamminandosi verso una terra ignota, che YHWH gli avrebbe solo fatto vedere a suo tempo: “Partì Abram (wayyēlek ’Abrām)” (Gen 12,4).

Il Nome, una promessa

Non saranno certamente Aronne e un bastone ad assicurare la riuscita della missione di Mosè. Alla sua seconda obiezione-rifiuto, in parte giustificata (3,13 “Qual è il suo nome?”), YHWH risponde rivelandogli il suo nome: “’Ehyeh ’ăšer ’ehyeh”.

A questo punto è necessaria una breve notazione grammaticale. Spesso tradotta con: “Io sono colui che sono” (sulla scorta della traduzione greca dei LXX, ’Egō eimi ho ōn, che interpreta la seconda parte della frase rendendola con un participio) l’espressione ebraica rappresenta la prima persona singolare al tempo verbale yiqtol del verbo “hāyāh/essere”, ripetuta due volte, intervallata dal pronome relativo ’ăšer. L’yiqtol esprime l’idea di un’azione non finita, aperta, in progresso, oppure ripetuta o gnomica, inclusa spesso la sfumatura tipica dei verbi servili o modali volere, potere, dovere. Il tempo yiqtol corrisponde più o meno al tempo futuro della lingua italiana. Varie volte, però, un verbo al tempo yiqtol può essere tradotto al tempo presente, specialmente quando esso è un verbo che esprime uno stato (“verbi stativi”).

In ebraico il verbo “hāyāh/essere”, a differenza del significato ontologico tipico della lingua greca, ha una connotazione dinamica: “esserci-per”. L’espressione di Es 3,14, per quanto riguarda i tempi verbali, può quindi essere tradotta in vari modi: “Sarò chi sarò/Sono chi sono/Sarò chi sono/Sarò chi vorrò essere…”.

YHWH rivela il suo nome a Mosè, ma non lo rivela in pienezza. Conoscere il nome di una cosa o di una persona equivale infatti a poter dominare su di essa, averla in pugno, al limite anche manipolarla (cf. i nomi dati da ’ādām agli animali, sui quali in seguito egli è chiamato a “dominare/rādāh”: Gen 2,19-20; 1,26).

YHWH rivela parzialmente il suo nome, la propria identità, volendo però riservare per sé la titolarità piena della sua persona, in modo da non poter essere dominato o manipolato da nessuno. Egli vuol conservare la sua piena libertà di espressione, di azione, di modalità operative legate al suo esserci-per. YHWH è un Dio-che-c’è-per: “Io sarò con te, e con chi vorrò, nel modo e nel tempo che vorrò; sarò quello che vorrò essere”.

YHWH, un nome di battaglia. Il nome di un Dio interventista, libero e sovrano. Il nome di YHWH è menzionato anche prima della rivelazione al roveto ardente, ma in questo momento YHWH si rivela con maggior ampiezza di contenuto riguardante la sua identità profonda.

YHWH esiste solo per esser-ciper, per essere in modalità operativa estroflessa di presenza, aiuto, assistenza, in vista del bene. Lo è in modo efficace, benefico ma libero da pressioni, manipolazioni, appropriazioni indebite.

Questo sarà il nome che Mosè dovrà usare per “presentare” colui che lo ha inviato a salvare il suo popolo. Egli rimane il Dio dei padri, eponimi dai nomi ben precisi, il Dio della famiglia e del clan, ma ora si impegna più attivamente nella storia e nella vicenda di un popolo intero, per liberarlo dalla schiavitù e per farlo entrare in una terra di libertà e di fecondità sorprendente.

Questo sarà il “nome/šēm” di YHWH per sempre e questo sarà “(il nome del) “mio ricordo attualizzante/zikrî” di generazione in generazione. Invocarlo non equivarrà a fare un puro esercizio mnemonico, a evocarne una presenza ormai trascorsa, non attualizzabile nel presente. Al contrario, invocare il nome di YHWH sarà il modo con il quale si rinnoverà nel credente la coscienza di una presenza “reale” e attuale del suo Dio liberatore.

Con la rivelazione del nome di YHWH – parziale e in modalità “protetta” –, il monoteismo fa un passo in avanti decisivo. Da un enoteismo passa attraverso la monolatria, per giungere al monoteismo “debole” e a uno “forte”, alla coscienza quindi dell’esistenza di un solo Dio, e all’inesistenza di altri dèi. Il cammino è fatto a ritroso: YHWH ha creato l’universo intero perché prima ha liberato il suo popolo dalla schiavitù dell’Egitto e gli ha dato una vita di libertà nella terra della promessa. Dio ha creato tutto, perché in precedenza ha liberato il suo popolo.

YHWH: un nome, una promessa, una realtà, una presenza efficace di bene a favore dell’uomo.

Un Dio che esiste per il suo popolo e per ogni uomo che apre gli occhi alla luce del sole.

Sangue misto

A partire dal capitolo 12,35 l’evangelista Luca riporta una serie di ammonimenti rivolti da Gesù ai discepoli (cf. 12,22) e alle folle (12,54) riguardanti la necessità di essere servitori vigilanti e operativi nell’attesa del ritorno del padrone dalle sue nozze (12,35-47), interpretando correttamente i segni dei tempi (Lc 12,54-59).

Nel corso della predicazione – “in quel tempo/en autōi i kairōi”– alcuni riferiscono a Gesù il tragico epilogo di una repressione brutale attuata dal prefetto romano Pilato – al potere dal 26 al 36 d.C. – nei confronti di alcuni giudei provenienti dalla Galilea. Il prefetto li ha fatti uccidere nella zona templare interna, al di là del cortile dei sacerdoti, dedicata all’offerta dei sacrifici animali, mentre presentavano ai leviti addetti gli animali che si erano procurati perché venissero offerti in sacrificio (thysiōn autōn) a Dio.

Non vengono riferiti ulteriori particolari, ma la cosa può ben essere realistica (conoscendo il personaggio Pilato). Negli anni del suo governo, specialmente all’inizio, si era quasi divertito a provocare il popolo giudaico introducendo nel tempio dapprima i labari dell’esercito romano – considerato un gesto sacrilego – e, in un’altra occasione, gli “scudi dorati”. Non brillava per tatto e diplomazia. Il filosofo giudeo di Alessandria d’Egitto, Filone (13 a.C. ca – 54 d.C. ca) lo descrive così: «Uomo per natura inflessibile e, in aggiunta alla sua arroganza, duro, capace solo di concussioni, di violenze, rapine, brutalità, torture, esecuzioni senza processo e crudeltà spaventose e illimitate». Lo storico giudeo Giuseppe Flavio (37 d.C. – dopo il 100 d.C.) scrive a sua volta che «egli amava provocare la nazione a lui affidata, ricorrendo ora a sgarbi, ora a dure repressioni».

Una coorte intera di soldati (circa 600 uomini) era stazionata stabilmente nella fortezza Antonia, la caserma che sovrastava in modo perfetto dall’angolo nord-ovest tutta la spianata della zona templare (hieron). In caso di necessità, dalla fortezza si poteva scendere molto velocemente per la scalinata e arrivare in breve tempo sulla spianata della zona templare (cortile dei gentili, cortile delle donne, cortile degli uomini, cortile dei sacerdoti, cortile con l’altare dei sacrifici) o nel “tempio/naos” vero e proprio.

Disordini e sommosse contro il potere politico e militare degli occupanti romani erano possibili in ogni momento, specialmente in occasione delle grandi feste (ḥāgîm) che richiedevano il pellegrinaggio a Gerusalemme (Pasqua, Settimane, Capanne). In quelle circostanze la città poteva lievitare da 50.000 abitanti a circa 200.000 presenze. Il clima poteva diventare in un attimo incandescente, dato che nel I sec. d.C. nel tempio si faceva memoria della pasqua di liberazione dall’Egitto, del dono della Torah sul Sinai/Oreb e del cammino fatto nel deserto dopo l’uscita dall’Egitto.

Un esempio eccellente dell’intervento della truppa della fortezza Antonia – “salvifico”, in questo caso – si ebbe in occasione del tentato linciaggio popolare nei confronti di Paolo (cf. At 21,30-37). Al comandante della coorte/chiliarchos [lett. “comandante di mille uomini/chiliarco/tribuno] tēs speirēs [coorte, composta da 500-600 uomini, un decimo della “legione”]” fu riferito che tutta Gerusalemme era in agitazione. Immediatamente egli “corse giù/katedramen” [più che “si precipitò”, CEI 2008] con i soldati e mise in salvo Paolo facendolo portare a spalla su per le scale che conducevano alla fortezza-caserma. Col permesso del tribuno Paolo riuscì persino a parlare in sua difesa: «Egli acconsentì e Paolo, “in piedi sui gradini/estōs epi tōn anabathmōn”, fece cenno con la mano al popolo; si fece un grande silenzio…» (21,40).

Pilato aveva mescolato (emixen < meignymi) sangue di animali e sangue di uomini. Sacrifici di animali per intercedere perdono e vita, sangue di uomini per sacrifici di violenza umana, protervi, allo scopo di mantenere lo statu quo segnato da un’ingiustizia oppressiva.

Se non vi convertite…

Gesù prende lo spunto dal misfatto di violenza politica e ve ne aggiunge un altro, di cronaca nera: diciotto persone, “vittime innocenti” del caso, morte travolte dal crollo della torre della piscina di Siloe. “Colpevoli” solo di essersi trovate al posto sbagliato nel momento sbagliato. La nostra stessa terminologia tradisce un linguaggio “colpevolista”. Cosa avevano fatto di male, contro Dio e contro gli uomini? – pensiamo ancora noi oggi.

Anche Gesù domanda ai presenti se le persone colpite dalle due tragedie fossero più “peccatrici/hamartōloi” di fronte a Dio rispetto a tutti gli altri galilei o più “debitrici/peccatrici/colpevoli/opheilaitai” rispetto a tutti gli abitanti di Gerusalemme “per aver dovuto soffrire queste cose/hoti tauta poponthasin” (< paschō = soffrire/morire).

Probabilmente, le persone travolte dalla torre di Siloe erano gente normale, forse anche povera e bistrattata dalla vita. Feriti della storia, probabilmente “scarti” della società.

I galilei morti nel tempio potevano addirittura avere forse anche un qualche piccolo “merito” di fronte a Dio e al popolo di Israele per aver pregato e offerto piamente a YHWH il frutto del loro lavoro e per aver tentato di ribellarsi a un potere ingiusto, esasperati dalle continue vessazioni dell’occupante romano… Alla fin fine, Israele è il popolo appartenente a YHWH, sua “proprietà particolare/segullāh” e deve obbedire solo a YHWH…

Per il momento Gesù condivide – didatticamente – la mentalità della gente. Essa collega sofferenza e morte a una punizione più o meno giusta di Dio provocata dai peccati delle persone che la subiscono.

Gesù non è assolutamente d’accordo con questo collegamento stretto fra una sofferenza/malattia/morte e una colpa responsabile di questo esito. Lo dirà chiaramente in occasione del “segno” della guarigione del cieco nato, inviato da lui a bagnarsi proprio nella piscina di Siloe (cf. Gv 9,1-3). In quel caso egli dirà che la malattia congenita del cieco sussisteva «perché si manifestassero le opere di Dio in lui» (Gv 9,3).

Nei due casi di cronaca in questione, Gesù risponde che entrambi gli eventi dolorosi sono occasioni per pentirsi e per rivedere la propria vita alla luce della precarietà dei giorni dell’uomo. “Momenti opportuni/kairoi” per poter discernere il proprio “tempo/kairos” (cf. 12,42.56) e vedervi le occasioni gravide di proposte e di avvertimenti per “correggere il tiro” del proprio cammino, “cambiare mentalità” (13,3.5) e cercare l’essenziale, la vita, l’osservanza del “cammino” proposto da YHWH nella sua Torah/Istruzione.

Lascia!

Subito dopo, a livello letterario, Gesù propone ai suoi ascoltatori una parabola.

Nella vigna di un uomo un albero di fichi rimane ancora improduttivo dopo ben tre anni da quando ci si aspetta normalmente il raccolto. Da tre anni infatti il padrone viene a cercarvi il “frutto/karpon”, senza trovarne traccia. A quel punto egli comanda all’operaio responsabile della vigna – comprendente probabilmente ulivi, fichi, viti, melograni – di tagliarlo (ekkopson, come bisogna tagliare l’albero che non fa frutti buoni [cf. Lc 3,9], la mano destra o il piede che “scandalizza” [cf. Mt 5,30; 18,8]), perché non continui a “distruggere/annullare/sfruttare/rendere inutile/katargei” la terra, dove altri alberi possono forse portare un frutto ancora più abbondante…

Il padrone è un esperto, ragiona correttamente, ha pianificato oculatamente i costi, i tempi di investimento, la resa prevista per rientrare con i debiti e aver dei guadagni significativi per continuare nella propria impresa. I rami secchi vanno tagliati, gli assets che non sono nel core del business dell’azienda vanno ceduti al più presto…

Anche l’operaio è un esperto. Scende tutti i giorni nella vigna, ha visto quell’albero messo male e intuisce – conoscendo bene il padrone – che esso comincia ad essere un investimento improduttivo e ad avere ormai i giorni contati. Quando però – secco, “giusto”, tecnicamente inappuntabile e senza diritto di replica – arriva il comando del suo “padrone/signore/Signore/kyrios” di tagliare l’albero, si appella a lui, chiedendo tempo, dando “perdono” ancora per un anno: “lascialo/perdonalo/aphes autēn”. Gli promette di fare della manutenzione straordinaria, dei lavori che normalmente non si fanno mai per un albero di fichi: gli zapperà intorno e lo concimerà. Prospetta una finestra aperta al suo signore. Può darsi che con degli stimoli eccezionali, l’albero risponda portando frutto, con una resipiscenza che alla buon’ora gli salva la vita…

Come sempre, la parabola è una storia fittizia che possiede una sua logica interna, ferrea, che include una domanda – implicita o esplicita – alla quale l’ascoltatore/il lettore è invitato a rispondere (e non può non farlo e non può che farlo in un’unica direzione), per poi applicare alla propria vita la risposta formulata con le proprie labbra. E non si tratta di raccontini. La storia fittizia rimanda al regno dei cieli, al regno di Dio, al Figlio dell’uomo, al destino della propria vita, alla possibilità o meno che essa si realizzi come vita “piena”, felice secondo Dio, ricca di frutti che rendono soddisfatti…

Non sappiamo se il padrone/signore abbia acconsentito alla supplica del suo operaio. E se, in caso positivo, l’albero abbia reagito dandosi finalmente una mossa…

Certo è che, dopo tre anni di attività pubblica, Gesù zappa con la sua croce il terreno dell’umanità e la concima con il suo sangue di Crocifisso, vero uomo e vero Dio…

A noi interessa, come alberi di fichi improduttivi e neghittosi, di implorare pazienza e perdono al Signore della nostra vita. Dal complesso della “narrazione” che Gesù Cristo ci fa di Dio, suo e nostro Padre, siamo sicuri che lui “perdonerà/lascerà ancora del tempo”. “Aphes/perdona”, supplica Gesù nella preghiera del Padre nostro che egli insegna ai suoi discepoli che, vedendolo pregare, gli chiedono di insegnare loro a fare lo stesso (cf. Lc 11,4).

Nel complesso del suo messaggio Gesù ci rende certi che Dio è pronto a darci tempo perché possiamo essere felici, cambiare mentalità e strade sbagliate, correggere i bersagli mancati e tornare indietro dai sentieri interrotti.

La possibilità ci è data, la pazienza di Dio è grande come il suo cuore, il respiro della sua anima.

Grande la compassione di Dio.

Non ne dobbiamo abusare (cf. Sir 5,1-8).

Il suo nome è “YHWH/Padre, salvezza sempre pronta per noi in Gesù mediante lo Spirito”.

Il tempo va interpretato, “sfruttato” nelle sue occasioni di vita.

La terra, la vita, non va resa sterile e infruttuosa per la nostra neghittosità.

“Cambiate mentalità”, cercate la libertà, cercate la vita.

Il mio nome è ’ehyeh ’ăšer ’ehyeh.

Nome facile, lungo come il mio amore:

“Io-ci-sarò-sempre-con-chi-io-vorrò-e-con-chi-vorrà-che-io-ci-sia-per-lui”.

«La terra è piena di cielo, e ogni roveto arde di Dio:

ma soltanto colui che vede si toglie i calzari;

gli altri si siedono intorno e colgono mirtilli» (E. Barret Browning).

all’inizio della sua vita pubblica (così come in tutta la sua vita), al discepolo è mostrato già il traguardo del cammino quaresimale: l’assimilazione a Gesù trasfigurato sul monte, anticipo della sua Pasqua. La meta è quella, il cammino sarà impegnativo ma fattibile, in quella fede che ha animato anche il patriarca Abramo, «nostro padre nella fede» (Preghiera eucaristica IV).

Dalle tue viscere, un erede!

Abramo, giunto a tarda età senza aver visto una discendenza uscire dalle sue viscere, è sconsolato e per questo si lamenta con YHWH di dover lasciar tutto a un suo domestico, Elièzer di Damasco. YHWH gli promette un figlio: «Non sarà costui il tuo erede, ma uno nato da te sarà il tuo erede» (Gen 15,4). E il “seme/discendenza/zera‘” non sarà un esile arbusto che solo s’inerpica nel deserto in cerca della sua vita, ma una nuvola di stelle, una pioggia di luce nel buio del futuro.

Abramo è nella tenda, è “dentro”. Al chiuso. Al buio dei suoi pensieri, solo con la promessa di YHWH che gli poggia sul cuore. YHWH “lo fa uscire fuori/wayyôṣē’ ’ōtô haḥûṣāh”, al fresco della notte, alla grazia delle stelle. Sono lì da sempre, brillano dal primo giorno della creazione e dalle loro vedette rispondono “eccoci” con gioia quando il Signore che le ha create le chiama per nome (cf. Bar 3,34). Puoi contare la nuvola delle stelle? Puoi calcolare la grazia? Puoi pesarla, misurarla, pretenderla, rinchiuderla? La luce brillava già prima che tu aprissi gli occhi. Una luce preveniente, una grazia “originale”. Solo YHWH può misurarla (cf. Gen 22,17; 26,4; Es 32,13; Dt 1,10; 10,22; 28,62; 1Cr 27,23; Ne 9,23; Sal 147,4).

E sulla parola della promessa di YHWH, nuda ma potente, Abramo poggia la sua nuda fede di vegliardo disarmato. È “fuori”, in piedi, fuori dalla buia tenda, a bocca aperta, con gli occhi bagnati di stelle. YHWH lo guarda compiaciuto, e ispira all’autore del libro della Genesi una frase che si scolpirà per sempre nella pietra della storia. «Egli credette al Signore, che glielo accreditò come giustizia/wehe’ĕmiin baYHWH wayyaḥšebehā lô ṣedāqāh».

Senza dire una parola, Abramo poggia il suo assenso solido, la sua fede inamovibile come la roccia sulla roccia della parola promissoria del suo Signore. È il primo a farlo nella storia. Egli fa entrare la fede nella storia degli uomini. È l’inauguratore che non salta nel buio sconosciuto, ma lancia il suo rampone in alto sulla roccia della parola del Promettente Affidabile.

Da sempre, e specialmente da ora in poi, la storia si costruirà sulla grazia di YHWH riconosciuta e accolta. YHWH considera l’atto di fede di Abramo come un atto di giustizia, cioè un atto di fedeltà all’alleanza lanciata da una parola dell’Alleato Promettente Affidabile, una Parola di bene, di vita, di futuro. Chi crede come Abramo sarà suo erede, riceverà la vita anche se morto per i suoi sbagli (cf. Gal 3,6-7.26-29; Rm 4,1-5.16-25).

Alleanza unilaterale

YHWH si presenta ad Abramo come colui che l’ha fatto uscire da Ur dei Caldei «per donargli in possesso ereditario la terra/lātēt lekā ‘et hāhāreṣ hazzō’t lerištāh» (v. 7). Terra sulla quale ora egli si trova dopo aver vinto la guerra contro i quattro re, ricuperato i suoi beni e il nipote Lot (cf. Gen 14,1-16) e aver ricevuto la benedizione di Melchìsedek re di Salem (cf. Gen 14,17-24). YHWH «ha fatto uscire» Abramo da Ur dei Caldei come farà “uscire” Israele dalla schiavitù dell’Egitto (cf. Es 20,2; Lv 19,36; 25,38; 26,13; Nm 15,41; Dt 5,6).

Abramo è l’antesignano della fede e anche il precursore della liberazione di Israele dall’Egitto. Vive per primo, in anticipo, la vita del suo popolo, dei suoi discendenti, anche dei discepoli di Gesù (cf. Gal 3,28).

Abramo chiede al suo Signore da che cosa saprà (bammāh ’ēdā‘) di aver ottenuto in dono ereditario questo ricchissimo bene testamentario. E YHWH gli donerà il segno della sua “grazia originale”, un’alleanza gratuita, immeritata, unilaterale.

YHWH ordina ad Abramo di procurare e di squartare cinque animali menzionati nella liturgia sacrificale della tenda del deserto e del tempio a Gerusalemme, eccetto due uccelli. Abramo diventa così l’antesignano della fede, il precursore della libertà esodica e pure della liturgia e del culto ufficiale di Israele.

È la notte delle stelle, il tramonto della luce. Si stringe un patto di alleanza unilaterale. Un patto di promessa, incondizionata.

I particolari della celebrazione dell’alleanza e le clausole di maledizione connesse agli inadempienti erano ben noti nelle culture coeve ad Abramo e ad esse successive: succeda ai contraenti dell’alleanza come a questi animali squartati se essi verranno meno all’alleanza stipulata proprio servendosi del segno degli animali.

Nel suo commentario a Genesi 12–50 – che abbiamo tenuto presente nello stendere queste note – F. Giuntoli riporta il testo della «Iscrizione aramaica di Sefire, attribuibile alla metà dell’VIII secolo a.C. o comunque a un’epoca precedente il 740, anno in cui Tiglath-Pileser conquistò Arpàd, il territorio di uno dei contraenti, che rese parte dell’impero assiro: “(Come questo) vitello è tagliato in due così possa Mati‘el [uno dei contraenti] essere tagliato in due e possano i suoi nobili essere tagliati in due [se non rispetteranno l’alleanza stipulata]” (cf. i A,40)».

In questo caso, però, sarà solo YHWH a correre il rischio e a passare i mezzo agli animali squartati. YHWH si prende la responsabilità di un’alleanza unilaterale, cioè una promessa che accoglie la fede di Abramo ma abbraccia in anticipo anche le tragedie della possibile libertà usata male da parte della sua discendenza…

Tardēmāh e fiaccola infuocata

Era una notte con le stelle, ora è il tramonto del sole col torpore divino che scende. Non va cercato un concordismo non necessario. Ci troviamo sempre nella piena dipendenza di Abramo dall’iniziativa sovrana di YHWH.

Nella notte c’è la grande tenebra e il terrore del sovrumano che agisce da solo. È la notte dell’inazione dell’uomo e il “torpore/tardēmāh” che scende su Abramo è simile a quello fatto scendere da YHWH sull’’ādām al momento del prodigio divino della “costruzione” della donna (cf. Gen 1,21-22).

Nell’inazione di Abramo anestetizzato divinamente, compare dal nulla un “forno fumante/tannûr ‘āšān” e solo una “fiaccola di fuoco/infuocata/lappîd ’ēš” passa attraverso le parti degli animali squartati. Solo YHWH è attore dell’alleanza e solo lui si impegna ad osservarla e eventualmente patirne le maledizioni per la sua inosservanza.

Solo YHWH vi rimane obbligato, in un gesto generoso di slancio verso il debole “alleato” umano… Il giudaismo vedrà anche nell’atto di fede di Abramo in occasione del “legamento di Isacco” (Gen 22) un’opera meritoria, avendo un concetto “corposo” di fede/’ĕmunāh, in cui la fede implica in sé necessariamente anche un’opera.

L’alleanza celebrata in Gen 15 precede a livello letterario la stipulazione dell’alleanza secondo la tradizione sacerdotale ricordata in Gen 17, connotata dalla bilateralità espressa nel segno della circoncisione nella carne. Quindi, ragiona l’ebreo molto istruito Paolo, se l’alleanza di Gen 15 viene prima, questo significa – come è normale per tutto il pensiero biblico – è anche più antica e più importante. Per questo motivo Paolo si guarderà bene dal ricordare la stipulazione dell’alleanza riportata in Gen 17 (tradizione sacerdotale, P) nei suoi ragionamenti circa la giustificazione per fede sotto il segno dell’antesignano Abramo, padre nella fede (cf. Rm 4). Anzi, giunge a parlare di Abramo come incirconciso che si trova nella condizione di peccatore (Rm 4,7-8). Paolo infrange il concetto corposo di fede/’ĕmunāh asserito dal giudaismo. Nel momento iniziale della sua vita di fede e di rapporto con YHWH, Abramo è solo recettivo dell’azione divina. Seguirà l’opera che manifesta la sua fede, la circoncisione, l’offerta di Isacco (Gen 17.22).

Alleanza di grazia nel sonno

«Invano vi alzate di buon mattino – afferma il salmista – e tardi andate a riposare, voi che mangiate un pane di fatica: al suo prediletto egli lo darà nel sonno. Ecco, eredità del Signore sono i figli, è sua ricompensa il frutto del grembo» (Sal 127,2-3).

Abramo è immerso nel tardēmāh divino. Nel sonno prodigioso si unisce “passivamente” all’azione di YHWH. «Mi sono addormentata, ma veglia il mio cuore» (Ct 5,2). Abramo dorme, è portato in basso dal sonno (cf. Lc 9,32), ma il suo cuore veglia nella fede professata.

E Abramo riceve l’alleanza unilaterale, la promessa incondizionata: «Alla tua discendenza io do questa terra, dal fiume d’Egitto al grande fiume, il fiume Eufrate» (Gen 15,18). La promessa di un dono, dono incondizionato ma espresso nella lirica che espande la grazia, sfuma i confini, ingigantisce gli spazi, non menziona i “condomini”…

A livello storico infatti la promessa della terra non si realizzerà mai, in nessun momento, nei termini precisi riportati liricamente in Gen 15,18. E il possesso della terra sarà sempre condizionato in ogni caso ad un altissimo livello di moralità che Israele deve mantenere, pena la sua perdita (Dt 16,20: «La giustizia e solo la giustizia seguirai, per poter vivere e possedere la terra che il Signore, tuo Dio, sta per darti»). Senza la giustizia, prima o poi la terra andrà perduta…

La terra rimane di YHWH: «La terra è mia» (Lv 25,23).

La terra non è santa – “Terra Santa” –, ma la terra è del Santo…

Fondante è la promessa teologica unilaterale: avrai una discendenza numerosa, una terra spaziosa.

La sua traduzione storica implicherà molti fattori: intelligenza politica, compromessi territoriali, capacità di convivenza pacifica, grandezza di cuore verso altre genti “condomini”, che non sono popoli “invisibili”!

Un volto altro

Passa un giorno in più rispetto a una settimana normale dal primo annuncio che Gesù aveva fatto ai suoi della propria morte e risurrezione (cf. Lc 9,21-22) e aver riferito a loro le impegnative richieste che i suoi discepoli devono sottoscrivere per seguirlo nel suoi cammino (9,23-27).

Gesù aveva preannunciato che alcuni dei presenti avrebbero visto il regno di Dio prima di “gustare” la morte (9,27). È il Regno che viene non con potenza e gloria, ma nella pace della parola, del pane spezzato, della comunione fraterna.

In un tempo “sospeso”, che “deborda” dalla quotidianità del tempo cronologico per essere tutto tempo pieno di Dio, Gesù sale su un monte, su “il monte” dell’incontro con Dio, come avvenne con Mosè (cf. Es 19) ed Elia (1Re 19). Gesù cerca la preghiera, il contatto profondo con la volontà del Padre, come lo fece molto spesso dal giorno del suo battesimo al Giordano. I suoi tre discepoli più sensibili alla sua anima saranno testimoni, qui come al Getsemani, della sua volontà di stare sempre unito al Padre nella propria missione.

Quanto più Gesù fa silenzio, quanto più ascolta la parola di Dio, accoglie il volto del Padre, apre la sua anima alla sua volontà e al suo amore, tanto più la sua umanità cresce nella somiglianza a Lui. La sua umanità realizza qui il fine della creazione dell’uomo. «Dio disse: “Facciamo l’uomo a nostra immagine, secondo la nostra somiglianza”». Di fatto, però, «Dio creò l’uomo a sua immagine, a immagine di Dio lo creò…», mentre la somiglianza rimaneva una meta da raggiungere…

Quanto più Gesù raggiunge la sua identità profonda di Figlio, tanto più la sua umanità espressa dal volto cambia di aspetto. Essa diventa trasparente alla sua identità nascosta, conosciuta solo da Dio. Con l’“aspetto altro” del suo volto potrà testimoniare il Totalmente Altro ed entrare in relazione con i discepoli per far gustare loro non la morte, ma la vita divina.

Il suo aspetto diventa “altro” e le sue vesti di un bianco sfolgorante. Le vesti sono il simbolo antropologico della sua persona. Essa è striata in profondità dal mondo di Dio, della sua vita, dal suo amore, dal bianco della risurrezione. Gesù sperimenta l’anticipo della sua vita pasquale, e tutta la sua persona ne è “avvolta” (le vesti), ne è intrisa.

Mosè, Elia e l’esodo

Mosè ed Elia parlano con Gesù. Egli può comprendere la propria identità e missione solo alla luce della parola di Dio, dei profeti, che conosce fin da bambino. Mosè ed Elia rappresentano la Torah e i Profeti, i due grandi blocchi della Scrittura ebraica che at-testa il cammino di liberazione e di vita fatto da YHWH col suo popolo. Essi però sono anche due servi di YHWH che sono stati rifiutati dalla loro gente e hanno sofferto per aver visto la parola di Dio rifiutata dal popolo, che aveva abbracciato il vitello d’oro (cf. Es 32) e le seduzioni del Baal di Tiro importato dalla regina pagana Gezabele (cf. 1Re 18,20–20,8)

Mosè ed Elia “sono visti in gloria”, nella gloria che è partecipazione a quella di Gesù pienamente in comunione col Padre. Gloria partecipata loro da Dio per la loro fedeltà alla loro missione impegnativa ricevuta e vissuta con fedeltà e impegno. “Uomini” profeti/prophētai che hanno parlato/pro-phēmi a nome di Dio di fronte al popolo.

Solo l’evangelista Luca ricorda l’argomento del dialogo “profetico”. Esso riguarda l’“esodo” di Gesù a Gerusalemme. L’“uscita” di Gesù dalla vita di questo mondo per gustare nella pienezza la libertà del mondo del Padre. Uscita di liberazione, per sé e per il popolo che egli trascina con sé in qualità di guida (archēgos) che porta alla vita (cf. At 3,15; 5,31), alla salvezza (cf. Eb 2,10) e alla fede (cf. Eb 12,2).

Esodo di sofferenza, di passione e di morte. Esodo di liberazione, di vita, di frutti colti nella terra che stilla latte e miele, il grappolo d’uva che dà il vino della vita (cf. Nm 13; specialmente 13,23-24; Mt 21,33-44; Gv 19,32,37).

Sono eventi che non devono solo “accadere”, che piombano dal di fuori, imposti dal caso o dalla violenza degli uomini. È Gesù che sta per compiere l’esodo (hēn ēmellen plēroun). Lui lo porta a pienezza riempiendo fino al colmo (cf. Gv 2, 7) la misura di libertà acquisita nell’esodo dall’Egitto e nel ritorno da Babilonia. È una pienezza di misura e di finezza di qualità. Pienezza di libertà umana e di vita divina, vita filiale. Il condottiero precede, il popolo lo seguirà.

Gesù prega, cerca di scrutare sempre di più l’“esodo” con gli occhi del Padre, intravede chiaramente le profonde e orribili sembianze della violenza umana, ma anche l’esito glorioso dell’assorbimento della morte nella vita (cf. 2Cor 5,4; 1Cor 15,54). Sente in sé che tutto quello che non viene assunto non sarà redento. Non sarà svelenito, svuotato della morte e dalla “maledetta” lontananza gelida dal cuore del Padre e riempito della vita portata dalla benedizione di Abramo, la promessa del suo Spirito di Figlio (cf. Gal 3,13-14).

È bello per noi stare qui

Pietro e i suoi due condiscepoli sono appesantiti dal sonno ma, dopo esser riusciti a rimanere svegli (diagrēgorēsantes), nella veglia sospesa fra l’umano e il divino, videro, per la grazia del Padre, la gloria del Figlio. La trasfigurazione, anticipo della Pasqua, è un mistero che supera le loro forze umane, è un prodigio in cui è all’opera solo la potenza del Padre.

Il Padre stipula in anticipo l’alleanza con il suo popolo passando in mezzo al nobile ariete disponibile, dal cuore già squarciato a mezzo perché vi passi la fiaccola infuocata dello Spirito. È un prodigio del mondo di Dio che l’uomo può solo intravedere (cf. Gen 15,12). Viene nuovamente stipulata l’unica ed eterna alleanza che lega YHWH/Il Padre al suo popolo, Israele, e a tutte le genti della terra (cf. Gen 9,12 l’arcobaleno; Gen 12,3; 18,8; 22,18 la benedizione di tutte le genti in Abramo).

Da parte di Dio l’alleanza è unica ed eterna. Da parte degli uomini sono necessari tanti rinnovamenti dell’unica alleanza, dovuti alla loro mancanza di fedeltà. Ma ad ogni tappa della storia il contenuto si approfondisce: dalla discendenza e dalla terra si giunge alla Torah scritta sul cuore (cf. Ger 31,33), un cuore nuovo, un cuore di carne e lo spirito di Dio dentro gli uomini (cf. Ez 26,26-27), alla vita del Figlio nei figli (cf. Gal 6-7; Rm 8,15-17).

Tende di libertà

Gli “uomini” profetici si allontanano da Gesù e Pietro vuole celebrare subito, proprio lì, su “il monte”, la festa delle Capanne. Nelle tende e nelle capanne di frasche costruite sulle terrazze viene ripresentata ogni anno la leggerezza di YHWH, l’impalpabilità divina della sua azione di liberazione dalla schiavitù egiziana, la divinità della sua vita donata. Si celebra lo zikkārôn dell’esodo, il memoriale che ricorda e rende presente la precarietà della vita umana librata nell’aria della libertà di Dio, ma sorretta dalla salda roccia del Dio redentore. Fra le frasche che coprono il tetto si deve lasciare sempre dello spazio libero. Si deve vedere il Cielo, si deve intravedere il Dio degli oppressi. Il Dio che osserva, ode, conosce le sofferenze del suo popolo e che è sceso per liberarlo (cf. Es 3,7-8.14). Un Dio grande, dai tredici nomi (cf. Es 34,5-9). Egli fa uscire i suoi figli dalla fornace della schiavitù, li fa camminare nel deserto della libertà da imparare e dell’identità da costruire, per farli entrare nella terra della promessa.

Pietro vuol già festeggiare il ricordo del cammino fatto nel deserto della sequela di Gesù, percorso aspro e infuocato, ma irrigato dall’acqua viva scaturita dalla roccia spirituale del cuore di Gesù che li ha accompagnati (cf. 1Cor 10,4). Mosè voleva vedere il volto di YHWH, la sua gloria. YHWH gli promette che potrà vedere solo le spalle di Colui-Che-È-Sempre-Avanti (cf. Es 33,18-23).

Pietro e gli altri due discepoli hanno ora visto invece la gloria di Gesù (Lc 32), il “peso” della sua figliolanza vissuta nella fedeltà, trasparente al volto del Padre, debordante sulla loro fragile sequela.

Mio Figlio, l’Eletto, ascoltate lui

Una nube divina avvolge il monte, Nube che nasconde e che rivela, come al Sinai. La Torah rinnovata sta per essere donata. L’ombra dello Spirito copre Gesù, il monte e i discepoli. L’“Ombra che copre” ha generato nel tempo la Parola definitiva (cf. Lc 1,35, Maria), ora copre la tenda escatologica del corpo di Gesù (cf. Es 40,34), copre e scopre il popolo rinnovato che solo allora può mettersi in cammino (Es 40,34ss).

Il mistero di Dio si rivela, la nube copre e scopre, vela e rivela. I discepoli entrano nella nube, nel mondo di Dio. Nuovi Mosè, salgono sul monte altissimo per sentire la parola definitiva di YHWH/Il Padre (cf. 19,3 «Mosè salì verso Dio, e il Signore lo chiamò dal monte…»). La Torah escatologica che insegni definitivamente il cammino di Dio e doni il cibo dei forti (cf. Sal 78,25TM), il pane degli angeli (Sal 77,25LXX), per camminarvi con fiducia di figli.

Su “il monte” YHWH/Il Padre rivela la Torah rinnovata, definitiva, escatologica: «Questi è il Figlio mio, l’Eletto. Ascoltate lui» (Lc 9,35). Gesù è tutto quello che il Padre ha da dire e da dare.

Lui è il mio insegnamento ultimo, il mio cuore aperto, la mia vita donata. Lui è la libertà che vi rende liberi, il Figlio che vi rende figli. È l’Eletto Inclusivo. Ho eletto lui, e in lui ho eletto tutti voi, per farne la mia famiglia, il popolo della mia eredità, che vive solo dell’eredità che gli dono ogni giorno.

Ascoltate lui, solo lui.

In lui c’è la mia alleanza definitiva, il mio impegno ultimo.

Si squarcia l’Agnello, ma voi rimarrete intatti.

Avete intravisto la vita, la gloria, l’Amore nella sua pienezza.

Avete sentito la parola dell’esodo e dell’entrata nel Giardino.

Avete visto un aspetto di volto “altro”.

Ascoltate lui. Guardate a lui.

Solo.

Commento a cura di padre Roberto Mela scj
Fonte del commento: Settimana News

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