Commento al Vangelo del 23 Giugno 2019 – p. Fernando Armellini

Padre Fernando Armellini, biblista Dehoniano, commenta il Vangelo di domenica 23 Giugno 2019.
Se sei interessato a tutti i sui commenti al Vangelo, puoi leggerli qui.

Corpus Domini: Invitati al banchetto della Parola e del Pane

Gesù non ci ha lasciato una sua statua, una sua fotografia, una sua reliquia. Ha voluto continuare ad essere presente fra i suoi discepoli come alimento.

Il cibo non è posto sulla tavola per essere contemplato, ma per essere consumato.

I cristiani che vanno a Messa, ma non si accostano alla comunione, devono prendere coscienza che non stanno partecipando pienamente alla celebrazione eucaristica.

Il cibo diviene parte di noi stessi. Mangiando il corpo e bevendo il sangue di Cristo accettiamo il suo invito a identificarci con lui. Diciamo a Dio e alla comunità che intendiamo formare con Cristo un unico corpo, desideriamo assimilare il suo gesto d’amore e intendiamo donare la nostra vita ai fratelli, com’egli ha fatto.

Questa scelta impegnativa non la facciamo da soli, ma assieme a tutta una comunità. L’eucaristia non è un alimento da consumarsi in solitudine: è pane spezzato e condiviso tra fratelli.

Non è concepibile che, da un lato, venga posto il gesto che indica unità, condivisione, uguaglianza, donazione reciproca e dall’altro sia tollerato il perpetuarsi di contrasti, odi, gelosie, accaparramento dei beni, sopraffazione. Una comunità che celebra il rito dello “spezzar del pane” in queste condizioni indegne mangia e beve – come richiama Paolo – la propria condanna (1 Cor 11,28-29). È una comunità che trasforma il sacramento in menzogna. È come una ragazza che, sorridendo, accetta dal fidanzato l’anello, simbolo di un legame d’amore indissolubile e, contemporaneamente, lo tradisce con altri amanti.

Per interiorizzare il messaggio, ripeteremo:
“L’eucaristia mi rende attento a tutte le forme di fame dei fratelli: fame di pane, fame d’amore, fame di comprensione, fame di perdono e soprattutto fame di Dio”.

Prima Lettura (Gen 14,18-20)

In quei giorni, 18 Melchisedek re di Salem, offrì pane e vino: era sacerdote del Dio altissimo 19 e benedisse Abram con queste parole:
“Sia benedetto Abram dal Dio altissimo,
creatore del cielo e della terra,
20 e benedetto sia il Dio altissimo,
che ti ha messo in mano i tuoi nemici”.
Abram gli diede la decima di tutto.

Il quattordicesimo capitolo del libro della Genesi dal quale è tratta la nostra lettura è piuttosto singolare: presenta Abramo nell’insolito ruolo di valoroso guerriero.

Il patriarca si trova alle Querce di Mamre, nei pressi di Hebron, e viene a sapere che alcuni re venuti dall’oriente hanno catturato suo nipote Lot. Subito organizza i suoi uomini esperti nelle armi, insegue i rapitori fino a Dan, all’estremo nord della Palestina, piomba su di loro, li sconfigge, recupera tutto il bottino e anche Lot, i suoi beni, le sue donne e il suo popolo.

Sulla via del ritorno passa nei pressi della città di Salem (Gerusalemme) dove regna Melchisedec. Costui – che è re e sacerdote del Dio altissimo – quando viene a sapere che Abramo si sta avvicinando, esce dalla città e gli offre pane e vino, poi lo benedice invocando il nome del suo Dio.

Per cogliere il messaggio del brano, va tenuto presente che, al tempo di Abramo, Gerusalemme era una città abitata da un popolo pagano e tale rimase per molte centinaia d’anni, fino a quando, verso l’anno 1000 a.C., Davide la conquistò e ne fece la capitale del suo regno.

Nel racconto dell’impresa eroica compiuta da Abramo, viene inserita la scena dell’incontro con Melchisedec, re di Salem, per varie ragioni.

Al tempo in cui questo racconto è stato scritto (più di mille anni dopo i fatti), gli israeliti non guardano con simpatia né Gerusalemme, né il suo re, né la sua corte e pagano malvolentieri le tasse. Con abilità (e cortigianeria) l’autore del brano cerca allora, citando l’esempio di Abramo (v. 20), di persuaderli a sottomettersi al re di Gerusalemme e a pagargli le decime (senza troppo borbottare!). Ho rilevato questo ingegnoso stratagemma dello scriba per mostrare come, a volte, Dio si serva anche delle motivazioni meno nobili degli uomini per introdurre nella Bibbia un racconto che è prezioso, perché denso di simbolismi religiosi.

Non è stato solo per convincere gli israeliti a pagare le tasse che l’autore sacro ha ricordato il comportamento umile e devoto di Abramo nei confronti del re di Salem. Egli ha voluto soprattutto insegnare che non bisognava più guardare in modo ostile gli stranieri. Dio ha mostrato di non rivelarsi solo agli israeliti, ma anche agli altri uomini.

Melchisedec era un cananeo, un pagano, eppure egli già rendeva culto al Dio altissimo, creatore del cielo e della terra e davanti a lui lo stesso patriarca Abramo ha compiuto un gesto sorprendente: si è inchinato e ne ha ricevuto la benedizione.

In nessun’altra pagina dell’AT, un ministro pagano del culto viene guardato con tanto rispetto e simpatia.

Questo brano del libro della Genesi è stato scelto come prima lettura perché ha riferimenti palesi alla festa di oggi.

Anzitutto, Melchisedec è sempre stato considerato dai cristiani come una figura di Cristo e dei sacerdoti della nuova Alleanza i quali offrono sull’altare il pane e il vino.

Ci sono anche altri elementi che mettono in rapporto con l’eucaristia il gesto compiuto da questo re‑sacerdote. Egli ha condiviso il suo pane ed il suo vino con chi aveva fame e il suo comportamento generoso è un richiamo alla condivisione dei beni con i fratelli.

È significativo infine il fatto che il pane e il vino di Melchisedec siano consumati insieme da due popoli: quello pagano di Salem e quello eletto dei figli di Abramo, i giudei. È come se questi due popoli – pur così distanti dal punto di vista politico, culturale e religioso – si fossero dati appuntamento attorno ad un’unica mensa. È l’immagine di quanto avviene nella comunità cristiana che si raduna per spezzare il pane eucaristico: abbiamo l’incontro, l’accoglienza, la condivisione e il reciproco scambio di benedizioni.

Seconda Lettura (1 Cor 11,23-26)

Fratelli, 23 io ho ricevuto dal Signore quello che a mia volta vi ho trasmesso: il Signore Gesù, nella notte in cui veniva tradito, prese del pane 24 e, dopo aver reso grazie, lo spezzò e disse: “Questo è il mio corpo, che è per voi; fate questo in memoria di me”. 25 Allo stesso modo, dopo aver cenato, prese anche il calice, dicendo: “Questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue; fate questo, ogni volta che ne bevete, in memoria di me”. 26 Ogni volta infatti che mangiate di questo pane e bevete di questo calice, voi annunziate la morte del Signore finché egli venga.

Per capire questo importante brano è necessario chiarire il motivo per cui Paolo introduce nella sua lettera il tema dell’istituzione dell’eucaristia. Poi vedremo di interpretare il significato del gesto di Gesù.

A Corinto ci sono problemi molto seri: dissolutezze in campo sessuale, disordini, invidie, ubriacature e – ciò che è peggio – discordie tra fratelli. Sono sorti dei partiti, non ci si mette d’accordo sulle scelte morali, si accetta come normale la divisione in classi: quella dei ricchi e quella dei poveri, quella dei nobili e quella della gente semplice.

Le divisioni sono sempre deleterie, ma, quando si manifestano proprio mentre si celebra l’eucaristia, divengono scandalose.

A Corinto i cristiani sono soliti prendere un pasto in comune, come veri fratelli, prima della santa Cena. Sanno bene che, per spezzare degnamente il pane eucaristico, è necessario condividere prima il pane materiale.

La santa Cena è celebrata non in chiese, come succede da noi, ma in case private, messe a disposizione da qualche membro benestante della comunità.

Ora accade che il gruppo dei ricchi, dei padroni, dei nobili – che non lavorano, ma fanno lavorare i loro servi – si danno appuntamento presto, nell’immediato pomeriggio. Si ritrovano nella villa di uno di loro, passeggiano nel giardino, discorrono beatamente, si sdraiano su divani e cominciano a gozzovigliare. Quando poi la sera arrivano i loro fratelli di fede, sfiniti dalla fatica – sono quelli che appartengono alle classi più umili (i contadini, i braccianti, gli scaricatori di porto) – i ricchi li accolgono con scherni e battute poco rispettose. Poi, senza rendersi conto della situazione penosa che si è creata, cominciano a celebrare l’eucaristia.

Per mostrare l’assurdità di un simile comportamento, Paolo ricorda ai corinti come Gesù istituì l’eucaristia.

Le esperienze più profonde, i messaggi più significativi sono difficili da tradurre in parole. Per comunicarli noi ricorriamo a gesti: con un sguardo dolce esprimiamo tenerezza, con una prolungata stretta di mano sottolineiamo il pieno accordo con un amico, con un abbraccio ci riconciliamo con il fratello, con un brutto gesto sfoghiamo la nostra incontenibile rabbia.

È possibile riassumere in un solo gesto tutta la vita, tutta l’opera, tutta la persona di Gesù? Sì, è possibile e il gesto è stato scelto e compiuto da lui, alla vigilia della sua passione. Durante l’ultima cena prese il pane, lo spezzò e disse: questo è il mio corpo spezzato; poi prese il vino e disse: questo è il mio sangue versato.

Ai suoi discepoli Gesù voleva dire: tutta la mia esistenza è stata un dono agli uomini; per me non ho trattenuto né un istante della mia vita, né una cellula del mio corpo, né una goccia del mio sangue. Tutto mi sono offerto, tutto mi sono donato.

Ogni volta che, su invito del Signore, la comunità cristiana spezza il pane eucaristico, viene ripresentato Gesù che dona la sua vita per amore.

Come possono i corinti – si chiede Paolo – ripetere questo gesto che indica sacrificio e dono della vita, unione a Cristo e ai fratelli e poi, in realtà, fomentare divisioni, coltivare discordie, perpetuare disuguaglianze?

Considerando la vita non sempre coerente delle nostre comunità cristiane, forse ci siamo chiesti come in certe situazioni si possa continuare a celebrare l’eucaristia. È un dubbio legittimo. Tuttavia non va dimenticato che il pane eucaristico è un dono, non un premio meritato e riservato ai buoni. È un cibo offerto ai peccatori, non ai giusti (perché nessuno è giusto). Anche se ci rendiamo conto di essere indegni, continuiamo ad accostarci al banchetto eucaristico. Esso ci richiama la nostra condizione di peccatori e ci stimola a divenire ciò che ancora non siamo: pane spezzato e vino versato per i fratelli.

Vangelo (Lc 9,11b-17)

In quel tempo, 11 Gesù prese a parlare alle folle del regno di Dio e a guarire quanti avevano bisogno di cure.
12 Il giorno cominciava a declinare e i Dodici gli si avvicinarono dicendo: “Congeda la folla, perché vada nei villaggi e nelle campagne dintorno per alloggiare e trovar cibo, poiché qui siamo in una zona deserta”.
13 Gesù disse loro: “Dategli voi stessi da mangiare”. Ma essi risposero: “Non abbiamo che cinque pani e due pesci, a meno che non andiamo noi a comprare viveri per tutta questa gente”. 14 C’erano infatti circa cinquemila uomini.
Egli disse ai discepoli: “Fateli sedere per gruppi di cinquanta”. 15 Così fecero e li invitarono a sedersi tutti quanti.
16 Allora egli prese i cinque pani e i due pesci e, levati gli occhi al cielo, li benedisse, li spezzò e li diede ai discepoli perché li distribuissero alla folla. 17 Tutti mangiarono e si saziarono e delle parti loro avanzate furono portate via dodici ceste.

Ci sono molti modi per spiegare cos’è l’eucaristia. Paolo ne sceglie uno: racconta – come abbiamo visto – la sua istituzione, durante l’ultima cena. Luca ne sceglie un altro: prende un episodio della vita di Gesù – quello della moltiplicazione dei pani – e lo rilegge nell’ottica eucaristica. Lo utilizza, cioè, per far capire ai cristiani delle sue comunità cosa significa il gesto di spezzare il pane che essi ripetono regolarmente, ogni settimana, nel giorno del Signore.

Se il brano del Vangelo di oggi viene letto come la cronaca fedele di un fatto, ci si imbatte in una serie di difficoltà: non si capisce cosa sono andati a fare in un luogo deserto (v.12) cinquemila uomini e non si sa bene neppure da dove possano essere venute tante persone (v.14). È strano che anche i pesci vengano spezzati (v.16) e ci sarebbe da spiegare da dove sbucano fuori le dodici ceste per i resti (v.17); la gente le aveva portate con sé vuote? Poi è sera tardi (v.12) quando il pasto ha inizio; come hanno fatto i dodici, al buio, a mettere in ordine tanta gente e a distribuire pani e pesci?…

Evidentemente non siamo di fronte a un reportage e non ha senso chiedere come si sono esattamente svolti i fatti, perché è difficile stabilirlo.

Su un evento della vita di Gesù, l’evangelista ha costruito una riflessione teologica e a noi, più che ricostruire l’accaduto, interessa capire qual è il messaggio che egli vuole trasmettere.

La prima chiave di lettura che inseriamo è quella dell’AT.

I cristiani delle comunità di Luca erano abituati al linguaggio biblico e coglievano immediatamente le allusioni – che a noi possono sfuggire – a fatti, testi, espressioni, personaggi dell’AT.

Il racconto della distribuzione dei pani rievocava loro:

il racconto della manna, il cibo donato prodigiosamente da Dio al suo popolo nel deserto (Es 16; Nm 11). Anche il pane dato da Gesù viene dal cielo;

la profezia fatta da Mosè: “Il Signore tuo Dio susciterà per te, in mezzo a te, fra i tuoi fratelli, un profeta pari a me” (Dt 18,15). Gesù che ripete uno dei segni fatti da Mosè è dunque l’atteso profeta;

le parole di Isaia: “ Perché spendete denaro per ciò che non è pane e il vostro patrimonio per ciò che non sazia? Su, ascoltatemi e mangerete cose buone e gusterete cibi succulenti. Preparerà il Signore degli eserciti, per tutti i popoli, su questo monte, un banchetto” (Is 55,1-2.6);

– infine ricorda la moltiplicazione dei pani operata da Eliseo (2 Re 4,42-44). Il miracolo compiuto da Gesù sembra esserne una fotocopia ingrandita.

Questi richiami all’AT vanno ricordati perché ad essi Luca intende alludere, ma egli fa riferimento anche alla celebrazione dell’eucaristia, così come si svolge nelle sue comunità.

Cominciamo dal primo versetto (v.11) che nel nostro lezionario, purtroppo, non è riportato per intero. Riprendiamo anche la parte che manca: “Gesù accolse le folle e prese a parlare loro…”.

Solo Luca dice che, quando le folle arrivano a Betsaida, Gesù le accoglie e parla loro del regno di Dio. Si è ritirato in disparte con i discepoli, cercando forse un momento di quiete; ma la gente, bisognosa della sua parola e del suo aiuto, lo raggiunge ed egli la accoglie, annuncia la buona novella del regno di Dio e guarisce i malati. Accogliere significa prestare attenzione, lasciarsi coinvolgere dai bisogni degli altri, mostrare interesse per le loro necessità spirituali e materiali.

In questo primo versetto, il riferimento alla celebrazione eucaristica è evidente: la liturgia del giorno del Signore inizia sempre con il gesto del celebrante che accoglie la comunità, dà il benvenuto, augura la pace e annuncia il regno di Dio. Come Gesù anch’egli, accoglie tutti. Benvenuti sono i buoni e benvenuti sono i peccatori, benvenuti sono i poveri, i malati, i deboli, gli esclusi, chi cerca una parola di speranza e di perdono; nessuno è allontanato.

Anche Paolo, concludendo il capitolo sull’eucaristia dal quale è tratto il brano della seconda lettura di oggi, raccomanda questa accoglienza ai cristiani di Corinto: “Fratelli miei, quando vi radunate per la cena, accoglietevi a vicenda” (1 Cor 11,33).

Nel v.12 si sottolinea l’ora in cui Gesù distribuisce il suo pane: “il giorno cominciava a declinare”. Ho notato sopra la difficoltà di intendere questo dato come un’informazione (del tutto superflua, tra l’altro).

Il giorno cominciava a declinare è invece un’indicazione preziosa e anche commovente. La troviamo anche nel racconto dei discepoli di Emmaus. “Rimani con noi – dicono i due al compagno di viaggio – perché si fa sera e il giorno volge al declino” (Lc 24,29).

Questo dettaglio ci informa sull’ora in cui, il sabato sera, nelle comunità di Luca si celebrava la santa Cena.

Il luogo deserto (v.12) ha pure un significato teologico: ricorda il cammino del popolo d’Israele che, lasciata la terra di schiavitù, si è posto in cammino verso la libertà ed è stato alimentato con la manna.

La comunità che celebra l’eucaristia è composta da viandanti che stanno compiendo un esodo. Hanno avuto il coraggio di abbandonare le loro case, i loro villaggi, gli amici, il tipo di vita che conducevano e si sono messi in cammino per ascoltare il Maestro ed essere curati da lui. Come Israele, sono entrati nel deserto e si sono incamminati verso la libertà. Altri – che pure hanno udito la voce del Signore – hanno preferito rimanere dov’erano, non hanno voluto correre rischi. Purtroppo per loro, così facendo, si sono privati dell’alimento che Gesù dona a chi lo segue.

Gesù ordina ai dodici di dar da mangiare alle folle (vv.12-14).

La prima reazione dei dodici è lo stupore, la sorpresa, la sensazione di essere chiamati ad un’impresa immane, assurda, impossibile. Avanzano quindi una proposta che contraddice l’accoglienza messa in atto dal Maestro: suggeriscono di rimandare la gente a casa, di allontanarla, di disperderla. Ognuno pensi a risolvere da solo, come meglio può, i propri problemi.

I discepoli non si rendono conto del dono che Gesù sta per consegnare nelle loro mani: il pane della Parola e il pane eucaristico. Non capiscono che la sua benedizione moltiplicherà all’infinito questo alimento che sazia ogni fame: la fame di felicità, di amore, di giustizia, di pace, il bisogno di dare un senso alla vita, l’ansia per un mondo nuovo.

Si tratta di bisogni così impellenti e irrefrenabili che a volte spingono a cibarsi di ciò che non sazia, di ciò che può addirittura acuire la fame o provocare nausea. Per questo il Maestro insiste: è da voi che il mondo si attende il cibo, date voi stessi da mangiare.

La sua Parola è un pane che si moltiplica miracolosamente: chi accoglie il Vangelo e con esso alimenta la propria vita, chi assimila la persona di Cristo cibandosi del pane eucaristico a sua volta sente il bisogno di fare partecipi anche gli altri della propria scoperta e della propria gioia e comincia a distribuire anche a loro il pane che ha saziato la sua fame. Si innesca così un processo inarrestabile di condivisione e le dodici ceste di resti rimangono sempre colme e pronte per ricominciare la distribuzione. Più aumentano coloro che si cibano del pane della Parola di Cristo e dell’eucaristia più si moltiplica il pane distribuito a chi ha fame.

Il v. 14 indica un particolare curioso: Gesù non vuole che il suo cibo venga consumato in solitudine, ognuno per proprio conto, come si fa al self‑service. Tuttavia nemmeno i gruppi troppo grandi vanno bene perché in essi non ci si conosce, non si dialoga, non si possono instaurare rapporti di amicizia, di aiuto reciproco, di fratellanza.

Al tempo di Luca cinquanta era forse il numero ideale dei membri di una comunità. Ricordiamo che, nei primi secoli, l’eucaristia non veniva celebrata in chiese, ma in grandi sale (At 2,46), per cui il numero dei partecipanti era necessariamente limitato. Può darsi che una delle ragioni della pigrizia, della freddezza, della mancanza di iniziativa di alcune delle comunità di oggi dipenda proprio dal numero elevato dei partecipanti.

In tutto il NT, solo Luca usa, per cinque volte, il verbo greco kataklinein, “adagiare a tavola” (v.15). Indica la posizione che gli uomini liberi assumevano quando partecipavano a un solenne banchetto. Gli israeliti si sdraiavano così durante la cena pasquale. È improprio impiegare questo verbo in una situazione come quella descritta nel brano evangelico di oggi, cioè, riferirlo a gente che si trova nel deserto, all’aria aperta e che ha l’abitudine di sedersi per terra con le gambe incrociate.

Se Luca usa questa espressione, lo fa per un motivo teologico: per alludere a un altro pasto, a quello della comunità cristiana seduta attorno alla mensa eucaristica, cena della nuova Pasqua, consumata da uomini liberi.

La formula con cui si descrive la moltiplicazione dei pani ci è nota: “Prese i pani (e i pesci) e, levati gli occhi al cielo, li benedisse, li spezzò e li diede…” (v.16). Sono i gesti compiuti dal celebrante nella celebrazione dell’eucaristia (Cf. Lc 22,19).

Sembra quasi che Luca stia un po’ profanando le parole dell’atto sacramentale, confondendo le cose della terra con quelle del cielo, i bisogni materiali con quelli dello spirito.

Non è pericolosa per la fede questa “commistione” di materia e spirito. Pericoloso è il contrario: slegare l’eucaristia dalla vita degli uomini, portarla fra le nubi.

Sono una menzogna le Eucaristie che non celebrano anche l’impegno concreto di tutta la comunità perché si moltiplichi il pane materiale, in modo che ce ne sia per tutti e ne avanzi.

La comunione dei beni è raffigurata, nella celebrazione eucaristica, dall’offertorio. È quello il momento in cui ogni membro della comunità presenta il suo dono generoso affinché sia distribuito a chi è nel bisogno.

Ci si chiede spesso che fine hanno fatto i pesci; tutta l’attenzione sembra concentrata sui pani. In realtà anche i pesci sono, stranamente, “spezzati” e distribuiti insieme con il pane (v.16). Nelle comunità del tempo di Luca il pesce era divenuto il simbolo di Cristo. Le lettere che compongono il termine greco ichthys (pesce) erano già divenute l’acrostico per Gesù, Cristo, Figlio, di Dio, Salvatore. Il pesce è dunque Gesù stesso fattosi cibo nell’eucaristia.

Fonte – Settimana News

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