Commento al Vangelo del 22 Dicembre 2019 – p. Raniero Cantalamessa

C’è una cosa che accomuna le tre letture di questa domenica: in ognuna si parla di una nascita:

“Ecco la Vergine concepirà e partorirà un figlio,
che sarà chiamato Emmanuele, Dio-con-noi” (I lettura)

“Gesù Cristo… è nato dalla stirpe di David secondo la carne” (II lettura)

“Ecco come avvenne la nascita di Gesù Cristo…” (Vangelo)

Potremmo chiamarla la “Domenica delle nascite”! La nascita riveste grandissima importanza nella Bibbia. Tutte le grandi storie bibliche cominciano con la descrizione della nascita del personaggio che fa presagire già la sua missione: Isacco, Mosè, Giovanni Battista, Gesù stesso.

Siccome noi ci siamo proposti di metterci di fronte al Vangelo con i problemi e le istanze dell’uomo d’oggi, non possiamo evitare di porci subito la domanda: perché nascono così pochi bambini in tanti paesi dell’occidente, inclusa l’Italia?

Il Natale che una volta era la festa per eccellenza dei bambini, ora non lo è più. È la festa dei grandi, degli adulti. Quello che si vede nelle vetrine, sotto Natale, sono regali soprattutto per grandi. Se una volta la gioia dei grandi, a Natale, era soprattutto far felici i bambini, ora sembra che sia soprattutto farsi felici tra loro.

Ci sono sempre meno bambini. Il nostro paese, come molti altri, è pieno di asili e di scuole elementari che si chiudono o si “riconvertono”. So di toccare un punto delicato che per molti rappresenta un intimo dramma. Lo faccio quindi in punta di piedi, con tutto il rispetto di cui sono capace, consapevole che in questo campo entrano in gioco molti fattori e non si può dare perciò un giudizio unico valido per tutti i casi.

Possiamo onestamente dire che le difficoltà economiche e sociali siano ora maggiori che in altri momenti del passato? Se questo che stiamo vivendo è un momento di “crisi”, quale momento del passato, antico e recente, non lo è stato?
Il problema vero è l’aridità spirituale, la perdita di slancio vitale, di gioia, di capacità di proiettarsi nel futuro. È la perdita di una certa innocenza e ingenuità, e quindi della capacità di stupore, di meraviglia, di fronte alla vita e alle cose. Una perdita di poesia. Siamo come un albero che va perdendo le radici più profonde e si alimenta ormai solo con radici superficiali. A forza di pianificazione, fra poco non ci sarà più nulla da “pianificare”, perché tutto sarà terribilmente “piatto”.

Si dà a volte la colpa alle tasse. Ci giocherà anche questo fattore, ma il motivo principale della denatalità non è di tipo economico. Diversamente, le nascite dovrebbero aumentare a mano a mano che si va verso le fasce più alte della società, o a misura che si risale dal Sud al Nord. Mentre sappiamo che è vero esattamente il contrario.

Il motivo è più profondo. È la mancanza di speranza! Se sposarsi è sempre un atto di fede, mettere al mondo un figlio è sempre un atto di speranza. Nulla si fa al mondo senza speranza. Abbiamo bisogno di speranza come dell’ossigeno per respirare. Quando una persona è in procinto di svenire, si grida a chi le sta intorno: “Dategli qualcosa di forte da respirare!” Lo stesso si dovrebbe fare con chi è sul punto di lasciarsi andare, di arrendersi di fronte alla vita: “Dategli un motivo di speranza!”.

Quando una persona si alza al mattino e non ha nulla da attendersi nella giornata, nulla di nulla, tenetelo d’occhio: è in grave pericolo…È così che maturano i propositi di suicidio. I giovani hanno bisogno di speranza. I figli tornano volentieri, o restano, in casa, se in essa si respira aria di speranza. Se no, fuggono, evadono. Certi fenomeni, come la droga e la discoteca, in ciò che questa ha di più frenetico e autodistruttivo, è sintomo di mancanza di speranza. “Perché vieni qui?, fu chiesto a un giovane che entrava in discoteca, e la risposta fu: “Per non pensare!”. La speranza si fa di corto respiro, si accorcia, fino a divenire quello che riempie lo spazio tra una dose e l’altra, o tra un sabato sera e l’altro.

Quando in una situazione umana rinasce la speranza, tutto appare diverso, anche se nulla, di fatto, è cambiato. La speranza è una forza primordiale. Fa letteralmente miracoli. Io sono un tipo molto freddoloso. Però ho notato una cosa: il freddo di aprile mi fa meno paura, lo sopporto meglio, del freddo di novembre, anche quando è della stessa intensità. Perché? In aprile c’è davanti la primavera, a novembre l’inverno. Quello di aprile è un freddo con speranza, quello di novembre, senza speranza.

Ma adesso è ora di chiederci: cosa ha da offrire il cristianesimo alla gente, in questo momento della storia? Il Vangelo ha da offrire una cosa essenziale: la Speranza! Quella con la lettera maiuscola, la Speranza virtù teologale.

Le speranze terrene (casa, lavoro, salute, riuscita dei figli..), anche realizzate, deludono inesorabilmente, se non c’è qualcosa di più profondo che le sostiene e le rialza. Sono come foglie che appassiscono quando il tronco dell’albero si è seccato. Guardiamo quello che avviene nella ragnatela. La ragnatela è un’opera d’arte. Perfetta nella sua simmetria, elasticità, funzionalità. Ben tesa da tutti i lati da fili che la distendono orizzontalmente. Ma essa è retta al suo centro da un filo dall’alto, il filo che il ragno si è tessuto scendendo. Se uno recide uno dei fili laterali, il ragno sbuca fuori, lo ripara in fretta e tutto torna a posto. Ma se voi troncate quel filo dall’alto, tutto si affloscia. Il ragno sa che non c’è più nulla da fare e si allontana. La Speranza teologale è il filo dall’alto nella nostra vita, quello che sorregge tutta la trama delle nostre speranze.

Ma cos’è la Speranza teologale? È una capacità nuova, donata a chi crede. Essa viene ad innestarsi su quella capacità naturale di proiettarsi verso il futuro, che è la semplice speranza umana, dando ad essa un nuovo motivo e un nuovo contenuto. Le conferisce un orizzonte “aperto”, non più chiuso da nessun muro, da nessuna siepe. Neppure quella della morte.

La Speranza, insieme con Fede e Carità, è uno dei tre germogli o semi divini che lo Spirito Santo pianta nella vita del battezzato, una delle tre nuove “possibilità” che Cristo ha creato per l’uomo. “Dio ci ha rigenerati, mediante la risurrezione di Gesù Cristo per una speranza viva” (1 Pietro 1,3). Rigenerati: si tratta di una nuova nascita, una nuova giovinezza. San Paolo definisce il Dio cristiano il “Dio della speranza” (Romani 15, 13).

Il poeta Péguy ha scritto un poema sulla Speranza teologale. A un certo punto dice più o meno così: Fede, Speranza e Carità sono come tre sorelle che camminano allegramente per strada tenendosi per mano. Due sono grandi, una, quella di mezzo, è una bambina. (E si capisce chi è la bambina). Tutti, vedendole, pensano che sono le due grandi -la Fede e la Carità- a trascinare la bambina. Invece è esattamente il contrario: è la bambina Speranza che trascina le altre due, perché se si ferma la speranza si ferma tutto. Come i fedeli -dice ancora- una volta, uscendo di chiesa, si passavano di mano in mano l’acqua benedetta, così i cristiani devono passarsi di mano in mano, di padre in figlio, la divina Speranza.
Che cosa può rappresentare la festa di Natale in questo momento in cui sentiamo così forte il bisogno di speranza? Può rappresentare l’occasione per una inversione di tendenza, per una rinascita della speranza. Un oracolo profetico, applicato dalla liturgia alla nascita di Gesù, dice:

“Il popolo che camminava nelle tenebre
vide una grande luce..
Hai moltiplicato la gioia, hai aumentato la letizia…
Perché un bambino è nato per noi,
ci è stato dato un figlio” (Isaia 9,1-5)

Queste parole, lette nel nostro attuale contesto, acquistano un significato tutto speciale. Contengono una promessa, additano una via per uscire dal buio e dalla palude spirituale in cui ci troviamo. Bisogna però riscoprire chi è quel Bambino e che cosa è venuto a portarci. Ridare al Natale il suo senso. Un Natale senza Gesù Bambino è come una cornice senza nessun quadro dentro, come una Messa senza consacrazione, come una festa senza il festeggiato.

La festa di Natale è stata sempre l’occasione per far emergere in tutti, grandi e piccini, quello che c’è di meglio, di più spontaneo, di migliore, nel cuore, la capacità di gioire e di stupirsi. Questo anche durante la guerra, in tempi ben più bui del nostro.
Ho una proposta da farvi: adottare, ogni famiglia, in questo Natale, una bambina…La bambina Speranza! Portarsela in casa. Cosa non succede dove entra questa bambina! La Speranza ricomincia sempre da capo. È specialista in questo. Mille delusioni e smentite per lei non contano nulla.

In certi paesi, una inversione di tendenza nella natalità, un aumento delle culle, sarà il segno concreto della capacità del popolo cristiano di riprendersi, di saper trovare risorse sempre nuove nel fondo ricchissimo della sua umanità e della sua storia. E ricordiamoci di quello che disse un giorno Gesù:

“Chi accoglie un bambino nel mio nome, accoglie me”.

Questo vale anche per chi accoglie un bambino povero e abbandonato, per chi adotta o nutre un bimbo del terzo mondo. Ma vale anzitutto di due genitori cristiani che, amandosi, in fede e speranza, si aprono a una nuova vita. Quel bambino o quella bambina che nascerà sarà Gesù in mezzo a loro: “accoglie me”.
Sono sicuro che molte coppie -che magari all’annunciarsi della gravidanza erano state prese da un momento di smarrimento-, poi dovranno ripetere per conto proprio le parole di quell’oracolo: “Hai moltiplicato la gioia, hai aumentato la letizia, perché un bimbo è nato per noi, ci è stato dato un figlio!”


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