Commento al Vangelo del 21 maggio 2017 – p. Raniero Cantalamessa

 

Farsi paracliti

Ci stiamo avvicinando alla festa di Pentecoste e la liturgia comincia a prepararci ad essa. La prima lettura, tratta dagli Atti degli apostoli, ci parla dello Spirito Santo. In Samaria molti hanno accolto il messaggio cristiano. Due apostoli vengono da Gerusalemme a verificare e non tardano a rendersi conto di una cosa: le persone sono state regolarmente battezzate, però non mostrano nessuno di quei segni che erano soliti accompagnare la venuta dello Spirito Santo: gioia, entusiasmo, segni prodigiosi…Allora gli apostoli compirono un gesto che preannunciava l’attuale nostro sacramento della cresima: “Imposero loro le mani e quelli ricevettero lo Spirito Santo”.
Nel Vangelo Gesù parla dello Spirito ai discepoli con il termine caratteristico di Paraclito:

“Io pregherò il Padre ed egli vi darà un altro Consolatore,
perché rimanga con voi per sempre, lo Spirito di verità”.

Poco oltre il brano odierno, ritorna sullo stesso tema dicendo:

“Queste cose vi ho detto quando ero tra voi. Ma il Paraclito, lo Spirito Santo che il Padre manderà nel mio nome, egli vi insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che vi ho detto”.

Paraclito è un termine greco che significa ora consolatore, ora difensore, ora le due cose insieme. Applicato allo Spirito Santo, questo titolo costituisce l’approdo di un tema presente in tutta la Bibbia. Nell’Antico Testamento, Dio è il grande consolatore del suo popolo, colui che proclama: “Io sono il tuo consolatore” (alla lettera, nel testo della Settanta, il tuo Paraclito!) (Isaia 51, 12), colui che “consola come una madre” (Isaia 66,13). Questa consolazione di Dio, o questo “Dio della consolazione” (Romani 15, 4), si è “incarnato” in Gesù Cristo che si definisce infatti il primo consolatore o Paraclito (Giovanni 14, 15). È lui che nel vangelo grida: “Venite a me voi tutti che siete affaticati e oppressi, e io vi ristorerò (Matteo 11, 28). Lo Spirito Santo, essendo in questo, come in ogni altro ambito, colui che continua l’opera di Cristo e che porta a compimento le opere comuni della Trinità, non poteva non definirsi, anche lui, Consolatore, “il Consolatore che rimarrà con voi per sempre”, come lo definisce Gesù.
Ma tutto ciò non basta a spiegare perché Giovanni, nel suo Vangelo, insiste tanto sul titolo di Paraclito. Esso deve la sua origine e la sua importanza anche alla esperienza. La Chiesa intera, dopo la Pasqua, ha fatto un’esperienza viva e forte dello Spirito come consolatore, difensore, alleato, nelle difficoltà esterne ed interne, nelle persecuzioni, nei processi, nella vita di ogni giorno. Negli Atti leggiamo:

“La Chiesa cresceva e camminava nel timore del Signore, colma della consolazione (paraclesis!) dello Spirito Santo” (Atti 9, 31).

Paraclito, ho detto, può significare due cose: difensore e consolatore. Nei primi secoli, quando la Chiesa è in stato di persecuzione e fa l’esperienza quotidiana di processi e condanne, si vede, nel Paraclito, soprattutto l’avvocato e il difensore divino contro gli accusatori umani. Egli è sperimentato come colui che assiste i martiri e che davanti ai giudici, nei tribunali, mette sulla bocca la parola cui nessuno è in grado di controbattere.
Uscendo dall’era delle persecuzioni, l’accento si sposta e il significato predominante diventa quello di consolatore nelle tribolazioni e angustie della vita. San Bonaventura mette tra loro a confronto la consolazione degli uomini e quella dello Spirito Santo e vede tre differenze fondamentali tra le due. “La consolazione dello Spirito è vera, perfetta e proporzionata. È vera, perché egli usa la consolazione là dove è da applicare, cioè all’anima, non agli istinti della carne, l’opposto di ciò che fa il mondo, che consola la carne e affligge l’anima, simile in ciò a un cattivo albergatore che cura il cavallo e trascura il cavaliere. È perfetta, perché consola in ogni tribolazione; non come fa il mondo che, nel dare una consolazione, procura due tribolazioni, come uno che rammenda un vecchio cappotto chiudendo un buco e aprendone due. È proporzionata, perché là dove c’è una maggiore tribolazione apporta una più grande consolazione; non come fa il mondo che nella prosperità consola e blandisce e nell’avversità irride e condanna”.
Dobbiamo ora tirare, dalla nostra contemplazione del Paraclito, una conseguenza pratica ed operativa. Non basta infatti studiare il significato di Paraclito e neppure onorare e invocare lo Spirito Santo con questo nome. Bisogna diventare noi stessi dei paracliti! Se è vero che il cristiano deve essere un alter Christus, un altro Cristo, è altrettanto vero che deve essere un “altro Paraclito”. Questo è un titolo da imitare e da vivere, non solo da comprendere.
Mediante lo Spirito Santo, è stato effuso nei nostri cuori l’amore di Dio (cfr. Romani 5,5); cioè, sia l’amore con cui siamo amati da Dio, sia l’amore con cui siamo resi capaci di amare, a nostra volta, Dio e il prossimo. Applicata alla consolazione -la forma che l’amore prende davanti alla sofferenza della persona amata-, quella parola dell’Apostolo viene a dirci una cosa importantissima: che il Paraclito non si limita a darci un po’ di consolazione, come un contentino, ma ci insegna l’arte di consolare. In altre parole, non solo ci consola, ma ci rende anche capaci di consolare a nostra volta gli altri. Ce lo spiega bene san Paolo. Egli scrive:

“Sia benedetto Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo, Padre misericordioso e Dio di ogni consolazione, il quale ci consola in ogni nostra tribolazione perché possiamo anche noi consolare quelli che si trovano in qualsiasi genere di afflizione con la consolazione con cui siamo consolati noi stessi da Dio” (2 Corinzi 1, 2-4).

La parola greca da cui deriva il nome Paraclito ritorna ben cinque volte, ora come verbo ora come sostantivo, in questo testo. Esso contiene l’essenziale per una teologia della consolazione. La consolazione vera viene da Dio che è il “Padre di ogni consolazione”. Viene su chi è nell’afflizione; ma non si arresta in lui. Il suo scopo ultimo è raggiunto quando chi ha sperimentato la consolazione se ne serve per consolare, a sua volta, altri.
Ma consolare come? Qui sta l’importante. Con la consolazione stessa con cui lui è stato consolato da Dio; con una consolazione divina, non umana. Non contentandosi di ripetere sterili parole di circostanza che lasciano il terreno che trovano (“coraggio, non avvilirti; vedrai che tutto si risolverà per il meglio”!), ma trasmettendo l’autentica “consolazione che viene dalle Scritture”, capace di “tener viva la speranza” (cfr. Romani 15,4). Così si spiegano i miracoli che una semplice parola o un gesto, posti in clima di preghiera, con fede nella presenza dello Spirito, sono capaci di operare accanto al capezzale di un ammalato. È Dio che sta consolando attraverso di te.
In un certo senso, lo Spirito Santo ha bisogno di noi, per essere Paraclito. Egli vuole consolare, difendere, esortare; ma non ha bocca, mani, occhi per “dare corpo” alla sua consolazione. O meglio, ha le nostre mani, i nostri occhi, la nostra bocca. La nostra anima può desiderare di fare un sorriso o una carezza (a un bambino, alla moglie o al marito), ma non può farla da sé; ha bisogno che la mano traduca in atto il suo desiderio. Come l’anima agisce, si muove, sorride, attraverso le membra del nostro corpo, così lo Spirito Santo fa con le membra del “suo” corpo che è la Chiesa.
Quando l’Apostolo esorta i cristiani di Tessalonica dicendo: “Consolatevi a vicenda”, (1 Tessalonicesi 5,11), è come se dicesse: “fatevi paracliti” gli uni degli altri. Se la consolazione che riceviamo dallo Spirito non passa da noi ad altri, se vogliamo trattenerla egoisticamente solo per noi, essa ben presto si corrompe. Ecco perché una bella preghiera, attribuita a san Francesco d’Assisi, dice:

“Che io non cerchi tanto
di essere consolato, quanto di consolare;
di essere compreso, quanto di comprendere,
di essere amato, quanto di amare…”.

Alla luce di quello che ho detto, non è difficile scoprire chi sono oggi, intorno a noi, i paracliti. Sono quelli che si chinano sui malati terminali, sui malati di AIDS, che si preoccupano di alleviare la solitudine degli anziani, i volontari che dedicano il loro tempo alle visite negli ospedali. Quelli che si dedicano ai bambini vittime di abusi di ogni genere, dentro e fuori casa. Paracliti sono anche coloro che si fanno paladini dei diritti di minoranze minacciate, come certe popolazioni indios dell’America latina, o che si fanno voce di chi non ha voce.
Noi sacerdoti e religiosi dovremmo essere tutti dei paracliti, cioè strumenti della consolazione dello Spirito, soprattutto di quella che viene dalla parola di Dio, dalla speranza, dal perdono sacramentale. È a noi sacerdoti e predicatori che è rivolto oggi, in modo tutto particolare, il comando che Dio dava ai suoi profeti nell’Antico Testamento: “Consolate, consolate (parakaleite) il mio popolo” (Isaia 40, 1).
Terminiamo questa riflessione, recitando insieme i primi versi della Sequenza di Pentecoste, dove lo Spirito Santo è invocato come il “consolatore perfetto”.

Vieni, Santo Spirito, manda a noi dal cielo un raggio della tua luce.
Vieni, padre dei poveri, vieni datore dei doni, vieni luce dei cuori.
Consolatore perfetto; ospite dolce dell’anima, dolcissimo sollievo.
Nella fatica, riposo, nella calura, riparo, nel pianto conforto”.

padre Raniero Cantalamessa

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