Commento al Vangelo del 17 Novembre 2019 – p. Roberto Mela scj

Verso il Fine

Le ultime due domeniche dell’anno liturgico invitano il popolo di Dio ad alzare lo sguardo con fede alla conclusione della storia umana e della vita personale di ciascuno nell’incontro con Gesù risorto.

Malachia e il suo libro

Malachia/Mal’ākî, “sigillo dei profeti” come è chiamato nel mondo ebraico, significa “mio messaggero” e può indicare un nome generico, il nome proprio del profeta o rimandare a qualche grande personaggio conosciuto, come Esdra o Mardocheo. La sua profezia risale certamente all’epoca postesilica, a un periodo successivo a quello di Aggeo-Zaccaria. Il libro presuppone che il tempio sia stato ricostituito e può essere stato composto tra il 515 e il 330 a C., cioè in epoca persiana.

Il libro si struttura in sei dispute: 1,2-5; 1,6–2,9; 2,10-16; 2,17–3,5; 3,6-12, 3,13-21. Ognuna di esse segue uno schema quadripartito: a) constatazione iniziale (fatta da Dio o dal profeta); b) obiezione e controdomanda; c) confutazione dell’obiezione da parte di Dio o del profeta, con giustificazione dell’affermazione di partenza; d) conseguenze dei ragionamenti fatti. Ne emerge in tal modo che, a livello formale, le questioni di cui si tratta siano esposte in modo dialogale, quasi fossero discussioni riportate in diretta.

Malachia affronta questioni apparentemente feriali, quotidiane e, in fondo, modeste (le prime tre): condanna per crimini particolari, specialmente contro il culto e i sacrifici, matrimoni misti, divorzi. Le ultime tre discutono di questioni più teoriche, riguardanti la giustizia di Dio e la retribuzione.

Il libro sembra rispecchiare un tempo di “passioni tristi”, un ambiente dall’orizzonte limitato. Il tempio era stato ricostruito, ma non si riusciva a vedere la realizzazione delle promesse fatte da YHWH. Ci sono povertà, conflitti sociali, oppressioni… Oltre a ciò, emergono nuove situazioni problematiche: infedeltà agli impegni matrimoniali, lassismo morale e spirituale, orgoglio, indifferenza, scetticismo…

Di fronte a questo clima «decadente», di «stasi» (P. Rota Scalabrini), sembra che Malachia voglia rendere ragione dell’apparente fallimento della profezia. Egli afferma con forza che anche in questi tempi difficili la parola di Dio si attualizza. Facendosi aiutare anche da figure dei padri, Mosè ed Elia, egli riprende il tema dell’alleanza così come l’ha compreso il libro del Deuteronomio.

Il libro di Malachia «presenta un’attualizzazione profetica di regole tratte dalla legge di Israele, con l’intenzione di interpretare e attualizzare la Torah affinché guidi la comunità in tempi difficili» (D. Scaiola).

Giorno di fuoco

L’ultima disputa riportata nel libro di Malachia (Ml 3,13-21) sembra riassumere le discussioni precedenti. Può esser divisa in tre strofe. A partire dalla constatazione iniziale e dall’obiezione del popolo credente (vv. 13.14-15), si passa alla sua confutazione (vv. 16-18), per concludersi nell’esposizione delle conseguenze del discorso fatto fino ad allora (vv. 19-21).

La domanda dei credenti non è di poco conto: Quale vantaggio c’è stato nel servire YHWH?

Con immagini note e altre nuove, Malachia annuncia la venuta del giorno del Signore: il forno, la paglia, il sole, i vitelli saltellanti… Smentendo le affermazioni fatte dal popolo al v. 15, il profeta annuncia che il Signore verrà a ristabilire il giusto ordine delle cose. La sua venuta sarà come “un forno/tannûr” che brucia le scorie lasciando il materiale buono.

Le scorie sono i “superbi/zēdîm” e tutti coloro che “fanno il male/ingiustizia/‘ōśê riš‘āh”. Il loro atteggiamento non è stato fruttuoso, positivo. Si sono limitati a produrre “paglia/qēṣ”. Sono stati infecondi. Hanno prodotto solo esteriorità, comportamenti falsi e “vuoti” di valori e di creatività personale e sociale produttrice di bene. Un comportamento che non ha prodotto grano, forza vitale, ma vacuità morale e sociale destrutturante, totalmente “liquida”.

“Il Signore degli eserciti/YHWH ṣebā’ôt” verrà con le sue schiere celesti e brucerà il male da loro fatto. Nella coscienza del tempo, YHWH distruggeva anche le persone, ma nella pienezza della rivelazione sarà chiaro che sarà solo il male a essere totalmente distrutto, nelle sue origini (“radici”) e nei suoi possibili esiti futuri (“germoglio”).

Sole che guarisce

Per i malvagi, YHWH si rivelerà come una fornace ardente, ma per coloro che ossequiano con deferenza religiosa la sua persona, avvertita come immensamente più grande dell’uomo infinitamente piccolo, YHWH si rivelerà essere “un sole di giustizia che guarisce con le/nelle sue ali/šemeš ṣedāqāh ûmarpê biknāpèāh”.

Nella letteratura mesopotamica, che Israele aveva conosciuta al tempo dell’esilio babilonese, il dio sole (Šāmāš) era «descritto come dio della luce, della giustizia, della legge. Egli rappresentava la giustizia cosmica e riceveva molti epiteti: “giudice del cielo e della terra”, “giudice degli dèi e degli uomini”, “signore della totalità”, “re dei paesi”, “signore della giustizia” ecc.» (D. Scaiola).

L’Antico Testamento adotta lo stesso linguaggio e, probabilmente con intento polemico, lo applica a YHWH. Col suo sorgere egli assicurerà il ristabilimento della giustizia, la ricomposizione armoniosa e positiva delle relazioni fra il cielo e la terra, tra Dio e l’uomo.

Il sole di YHWH è “guaritore con le/nelle sue ali”. È benefico nei suoi raggi perché guarisce le ferite delle relazioni interumane e degli uomini con Dio ovunque egli trovi buone disposizioni, non superbe, altezzose, ostracizzanti la parola del Signore.

“Chi teme il nome di YHWH/yir’ê še”, chi cioè lo onora con ossequio religioso, consapevole dell’enorme distanza esistente fra uomo e Dio, se è ferito nel suo intimo e nei suoi rapporti con gli altri a causa della propria debolezza o della malvagità onnipervasiva della società in cui si trova a vivere, troverà medicamento e guarigione dal sole della giustizia di Dio che, venendo, salva gli uomini ben disposti.

Il sole di YHWH avrà delle “ali/raggi/kenapèāh” protettive e risanatrici e, come il sole che ricompare dopo una terribile tempesta, porterà gioia, sollievo, voglia di uscire all’aperto e godersi la luce, il calore, la vita bella della primavera e dell’estate (“vitelli saltellanti”).

Calpesterete le ceneri

Il “Libro dei Dodici” – conosciuto in ambito cristiano come “Profeti minori” – costituiva in origine un solo libro. La dicitura di ambiente ebraico è terê ʿaśar, “I Dodici” (in aramaico), quella greca Μικροί προφήτες (mikroi prophētes, “Profeti minori”) o Δωδεκαπροφήτον (Dodekapropheton, “Dodici profeti”).

Molti dei profeti concludevano i loro libretti con oracoli di salvezza e di consolazione.

Malachia, all’opposto, termina il suo libro con un oracolo di tenore condannatorio e, essendo l’ultimo della collezione dei dodici profeti, la connota globalmente in modo negativo.

Nel giorno del Signore, coloro che “temono il suo nome” sanciranno definitivamente la condanna dei malvagi in nome di YHWH. Dopo che la fornace ardente del Signore li avrà bruciati completamente, “radice e germoglio”, i timorati di YHWH calpesteranno con le piante dei piedi i malvagi ridotti in cenere.

Sanciranno in tal modo che YHWH è il Dio della giustizia, che non sopporta il male, ma che lo vuole distruggere fin d’ora e in totalità nell’ultimo giorno, quando ognuno si autogiudicherà, prendendo su di sé le conseguenze del proprio libero agire, negativo in questo caso.

L’agire malvagio rovina la vita fin da questo momento, la vita donata da YHWH perché sia vissuta sulla terra in relazioni armoniose con gli altri uomini e con Dio.

Il comportamento degli uomini nella vita sulla terra possiede però una intrinseca serietà e decisività sul proprio destino ultimo.

Malachia ammonisce severamente gli uomini di tutti i tempi su questo punto.

Spiacevole, ma vero.

Se lo conosci lo eviti, e non muori per sempre…

“La grande apocalisse”

Nella “piccola apocalisse” (Lc 17,20–18,8) l’evangelista Luca aveva raccolto le parole di Gesù riguardanti il destino personale di ciascun uomo. La grande apocalisse (21,5-36) riguarda invece il destino cosmico, la conclusione della storia degli uomini con la fine del mondo.

L’evangelista Marco aveva scritto nel suo vangelo – composto nel 70 d.C. circa – come attendere il regno di Dio. Nella generazione successiva si rischiava invece di non attendere più nulla, visto il dilazionarsi dell’evento della parusia.

Verso l’85 d.C. l’evangelista Luca incoraggia i discepoli ad attendere la conclusione della storia, perché essa costituisce il momento della liberazione piena dell’umanità, costituita non tanto dall’avverarsi della fine del mondo, ma dall’incontro di ogni realtà con il Fine a cui tutta la storia tende.

Nella prima parte del suo discorso sulle realtà ultime (Lc 21,5-24) Luca non parla tanto della fine della storia, ma, accennando alla distruzione del tempio, ne fa un avvenimento storico esemplare, immagine viva di ogni momento decisivo per l’umanità, dei punti di svolta che interrogano in profondità le coscienze perché prendano in mano la loro vita e la indirizzino verso il bene.

Anche l’incendio e la distruzione del tempio di Gerusalemme sono un evento che appartiene alla storia della salvezza e non deve scoraggiare la Chiesa dal vivere nella costanza della fede il tempo lungo della testimonianza che l’attende e che costituisce il nocciolo della sua missione.

Non resterà pietra su pietra

Per ingraziarsi i giudei – lui discendente da padre idumeo (Antipatro) e da madre araba (Cipro) – in dieci anni di lavoro (dal 20 al 10 a.C.), Erode il Grande aveva realizzato l’enorme ampliamento della spianata templare (quasi 500 metri di lunghezza per 400 di larghezza) e la costruzione del Secondo Tempio, totalmente rinnovato (oltre alla Fortezza Antonia situata all’angolo nord-ovest della spianata). 10.000 operai (così lo storico ebreo Flavio Giuseppe, Antichità Giudaiche [= Ant.] XV,390) vi avevano lavorato alacremente (rimanendo tutti disoccupati alla fine…), inclusi 1.000 sacerdoti addetti alle opere attinenti la zona sacra del santuario/naos.

La costruzione mirava inoltre a inserire sempre più Gerusalemme nel mondo romano e come segno di autoglorificazione dell’autore di fronte al mondo intero. Erode il Grande fu, infatti, l’artefice di splendide costruzioni in tutto il paese (cf. l’Herodion, Cesarea Marittima ecc.).

Flavio Giuseppe descrive nei particolari la costruzione del tempio in Ant. XV,380-425, preceduta da un magniloquente discorso di Erode il Grande alla folla, per predisporla a lavorare unanimi all’imponente progetto (Ant. XV,380-387). Si pensi che, fuori del suo regno, Erode il Grande «costruì […] ginnasi a Tripoli, a Damasco, a Tolemaide, le mura a Biblo, esedre, portici e piazze a Berito e Tiro, teatri a Damasco e a Sidone, un acquedotto a Laodicea a Mare, ad Ascalona terme e magnifiche fontane, e inoltre dei colonnati di mirabile fattura e grandezza, e ad altre fece dono di boschi e giardini» (Flavio Giuseppe, La Guerra giudaica [= Bell.]I,422).

La costruzione in pietra bianca accecava gli occhi delle persone che arrivavano a Gerusalemme, sovrastando come un monte di splendore il resto della città, con le sue valli spianate per l’occasione. Il tempio era l’orgoglio nazionale, centro di culto e banca centrale.

Tutt’oggi, al Muro occidentale che sostiene la spianata del tempio, si possono ammirare sette corsi di enormi pietre squadrate erodiane, con la caratteristica scanalatura ai bordi che ne evidenzia il corpo centrale. Sotto il livello di calpestio ci sono altri 20 metri di muro. Il corso principale del muro oggi sottoterra, ma visibile dal tunnel che lo costeggia, comprende pietre alte 3,5 m., lunghe 14 m. e pesanti 600 tonnellate. Altre sono lunghe 12 m. alte 1,80 e pesano 90 tonnellate.

Questo è tutto ciò che resta del tempio erodiano! Si è realizzata di fatto la profezia di Gesù… Terminato nelle sue rifiniture nel 64 d.C., il tempio sarà bruciato e distrutto dai romani appena sei anni dopo, il 29 agosto del 70 d.C. (cioè il dieci del quinto mese, quello di loòs). In settembre, verrà occupata la città alta e il palazzo di Erode, gli abitanti della città uccisi o venduti come schiavi.

Non ci sono praticamente più le belle pietre e i doni dei ricchi potenti che adornavano con scudi e fregi le mura del tempio.

Resta vero che il corpo di Gesù, vero tempio, è risorto, e la pietra scartata dai costruttori è diventata la pietra angolare… (cf. Gv 1,2,13-22; Mt 21,42).

Distruzione e trasformazione

Sorge la domanda su quando avverranno queste cose e quale sarà il segno che stanno per accadere. In Mt sono i discepoli a porre la domanda, in Mc uno di essi, in Luca una voce generica e collettiva proveniente dagli astanti.

Nella sua risposta, per prima cosa Gesù mette in guardia dall’inganno che i falsi messianismi indurranno nel corpo ecclesiale. Si presenteranno come falsi messia replicanti la persona di Gesù o spaventando la gente con l’annuncio dell’imminenza della parusia.

Gesù non ha mai voluto spaventare il suo uditorio con annunci gravidi di terrore. Ha certo predicato la decisività di ogni momento della propria vita in ordine al destino ultimo di essa. Il giudizio ultimo sarà di fatto un autogiudizio.

Le immagine impiegate dal linguaggio apocalittico possono risultare strane ai nostri tempi, ma intendono trasmettere l’importanza fondamentale di prendere le proprie decisioni nei momenti importanti della propria vita, affinché non si avverino le scene oscure di perdita totale di se stessi lontani da Dio, dalla sua luce e dal suo calore.

Guerre e rivolte – come quella terribile sperimentata dagli ebrei negli anni 66-70 d.C., con la conclusione tragica a Masada il 15 Nisan del 73 d.C. – ci saranno sempre lungo il cammino della storia umana. Esse non costituiscono però ancora la fine del mondo. Esse avvengono prima, e sono un campanello d’allarme che indica l’importanza cruciale del momento in cui la storia e il cosmo creato incontreranno la loro trasformazione totale nell’incontro con il Messia che arriva come liberazione e non come giudice spaventoso.

Le guerre e le rivolte si accompagneranno lungo la storia con l’avverarsi di scontri bellici fra nazioni e con fenomeni fisici spaventosi che lasciano dietro di sé scie di innumerevoli vittime.

Oggi possiamo constatare de visu gli sconvolgimenti climatici con l’insorgenza di fenomeni naturali di intensità estrema e ravvicinata che rivelano la fragilità del cosmo sottoposto alla violenza insensata dell’azione irrispettosa dell’uomo verso il creato. Eventi cosmici dell’atmosfera, dei movimenti tellurici e delle violenze attribuibili direttamente all’azione insipiente degli uomini sono descritti con elementi del genere letterario apocalittico.

Gli uomini possono portare il mondo alla distruzione, che Dio non vuole. Con espressioni di intensa efficacia, il linguaggio apocalittico intende invece alludere alla trasformazione del mondo, che va incontro al suo Destino ultimo, il Fine, la liberazione (cf. Lc 21,28)!

Persecuzioni e testimonianza

Ancor prima della trasformazione definitiva del mondo – espressa in linguaggio apocalittico con i segni spaventosi che accadranno in cielo – ci sarà il tempo della Chiesa, che l’evangelista Luca sente prolungarsi nella storia quale assolvimento del compito della testimonianza.

Ci saranno tempi i cui i discepoli saranno perseguitati, consegnati ai governanti e ai re e condotti in prigione (e anche all’uccisione).

Le immagini tremende di questi ultimi anni testimoniano la tragica attualità di queste parole. Si pensi alla lunga via crucis sofferta da Asia Bibi, ai cristiani perseguitati in India e in Pakistan, ai martiri trucidati dall’Isis, al ministro pakistano per le minoranze Shabbat Batti ucciso a Islamabad nel 2011. Nel suo testamento spirituale scriveva: «Voglio solo un posto ai piedi di Gesù… Voglio vivere per Cristo e per lui voglio morire». Ad essi si aggiungono i cristiani uccisi in Sud Sudan, in Nigeria e in Congo, in Messico e in Colombia… Senza contare l’inferno delle prigioni e dei lunghi periodi di sequestri patiti da missionari, presbiteri e religiosi, laici consacrati, cooperanti di Ong internazionali.

Tutto questo “sfocerà per voi in testimonianza/apobēsetai hymin eis matyrion”, afferma Gesù.

Secondo le parole del vangelo di Luca – diversamente da Marco e da Matteo –, le violenze e le persecuzioni che accadranno non saranno solo occasione di dare testimonianza ad altri, ma di ricevere testimonianza concreta (martyrion). I discepoli di Gesù perseguitati – spesso a morte – faranno sì che alla Chiesa sia offerta una concreta prova testimoniale pubblica di essere nel giusto, di star mettendo i propri passi sulle orme del proprio Maestro e Signore, di star vivendo il vangelo nella sua integralità, offrendo la vita innocente in modo pacifico nella testimonianza attiva, a sua volta, di fedeltà a Gesù.

Si è visto anche in questi anni come Gesù risorto – “io, in persona/egō darò” (Lc 21,15), attraverso lo Spirito del Padre (Mt 24,20), lo Spirito Santo (Mc 13,11) –, abbia messo in bocca ai suoi martiri e testimoni le parole giuste ed equilibrate, piene di fede e di pace di fronte ai propri accusatori, ai giudici ingiusti, ai feroci assassini.

Pazienza e costanza, per la vita

Particolarmente odiosa e diabolica, fonte di immensa sofferenza sarà la delazione intrafamiliare.

I discepoli di Gesù saranno denunciati alle autorità dai loro stessi familiari. È esattamente la fotografia della vita in Romania alcuni decenni fa, al tempo della polizia segreta della STASI…

Gesù aveva già predetto che il vangelo e la sequela del Signore risorto avrebbero segnato una divisione nelle stesse famiglie, dal momento che il percorso di fede non può che essere personale (cf. Lc 12,51-53). Ma da lì alla denuncia poliziesca di un familiare il passo è diabolico e crocifiggente.

Ci saranno anche degli uccisi a causa del vangelo. Alcuni, molti, ma non tutti.

L’odio potrà dilagare attorno ai discepoli di Gesù. perché il vangelo mette in crisi sistemi incancreniti di oppressione, di disumanizzazione dei rapporti fra gli uomini e i popoli, di sfruttamento sistematico delle ricchezze altrui… Il vangelo grida la verità e la giustizia, mentre cerca la pace e la convivenza armoniosa fra gli uomini. Ma ai capi dei narcos, ai padroni della guerra, ai fabbricanti di armi, a chi gioca in borsa destabilizzando i mercati, a chi ritiene che i beni della terra siano proprietà privata o statale, le cose possono anche non stare bene.

E chi difende la casa comune e difende l’uomo può anche essere ucciso.

Ma davanti a Dio, alla sua memoria di amore, nessun capello del loro capo andrà “perduto definitivamente/apolētai” (< apollymi) o sarà dimenticato, non “vendicato” alla maniera divina.

I discepoli di Gesù “guadagneranno la loro vita/ktēsasthe tas psychas hymōn” per il dono concesso dal loro Signore, al quale hanno corrisposto con la loro hypomonē: “la capacità di rimanere sotto (le situazioni portandole) verso l’alto/sop-portandole (con continuità) /pazienza/costanza”.

Secondo le parole di Gesù trasmesse dall’evangelista Luca, si apre per i discepoli un tempo lungo di testimonianza. È il tempo della Chiesa, il tempo delle persecuzioni e dei travagli della storia che la colpiscono direttamente o indirettamente, nella vita degli uomini. Le gioie e i dolori dell’umanità sono infatti quelli della Chiesa, disseminata in essa.

Il discepolo di Gesù non è ossessionato dagli sconvolgimenti della storia degli uomini o attanagliato dall’angoscia della fine sua e del mondo, perché conosce e ama il Fine, Gesù risorto, che gli viene incontro con i suoi tempi e le sue modalità divine.

Tante cose dovranno accadere prima dell’incontro finale.

Ma chi è conosciuto e amato dal Fine della storia cammina, nonostante tutto, sempre con la schiena dritta e volto alzato, sereno, perché sa che la sua “liberazione/apolytrōsis” è vicina (cf. Lc 21,28).

Commento a cura di padre Roberto Mela scj

Fonte del commento: Settimana News

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