Commento al Vangelo del 13 Gennaio 2019 – p. Fernando Armellini

Padre Fernando Armellini, biblista Dehoniano, commenta il Vangelo di domenica 13

Battesimo di Gesù: Volle risalire con noi da un abisso

Ai luoghi biblici è legato spesso un significato teologico. Il mare, il monte, il deserto, la Galilea delle genti, la Samaria, il fiume Giordano, le terre al di là del lago di Genezaret sono molto più di semplici indicazioni geografiche (spesso neppure del tutto esatte).

Luca non specifica il luogo dove è avvenuto il battesimo di Gesù, ma vi allude Giovanni: “Avvenne in Betania, al di là del Giordano, dove Giovanni stava battezzando” (Gv 1,28). La tradizione ha giustamente localizzato l’episodio a Betabàra, il guado dove anche il popolo d’Israele, guidato da Giosuè, ha attraversato il fiume ed è entrato nella Terra Promessa.

Nel gesto di Gesù sono dunque presenti richiami espliciti al passaggio dalla schiavitù alla libertà e all’inizio di un nuovo esodo verso la vera Terra Promessa.

Betabàra ha anche un altro richiamo, meno evidente, ma altrettanto significativo: i geologi assicurano che questo è il punto più basso della terra (400 m. sotto il livello del mare).

La scelta di iniziare da lì la vita pubblica non può essere casuale. Gesù, venuto dalle altezze del cielo per liberare l’uomo, è sceso fin nell’abisso più profondo per mostrare che vuole la salvezza di ogni uomo, anche del più derelitto, anche di colui che la colpa e il peccato hanno trascinato in un baratro da cui nessuno può immaginare sia possibile risalire. Dio non dimentica e non abbandona nessuno dei suoi figli.

Per interiorizzare il messaggio, ripeteremo:
“È apparsa la grazia di Dio, apportatrice di salvezza per tutti gli uomini”.

Prima Lettura: (Is 40,1-5.9-11)

1 “Consolate, consolate il mio popolo,
dice il vostro Dio.
2 Parlate al cuore di Gerusalemme
e gridatele
che è finita la sua schiavitù,
è stata scontata la sua iniquità,
perché ha ricevuto dalla mano del Signore
doppio castigo per tutti i suoi peccati”.
3 Una voce grida:
“Nel deserto preparate
la via al Signore,
appianate nella steppa
la strada per il nostro Dio.
4 Ogni valle sia colmata,
ogni monte e colle siano abbassati;
il terreno accidentato si trasformi in piano
e quello scosceso in pianura.
5 Allora si rivelerà la gloria del Signore
e ogni uomo la vedrà,
poiché la bocca del Signore ha parlato”.
9 Sali su un alto monte,
tu che rechi liete notizie in Sion;
alza la voce con forza,
tu che rechi liete notizie in Gerusalemme.
Alza la voce, non temere;
annunzia alle città di Giuda: “Ecco il vostro Dio!
10 Ecco, il Signore Dio viene con potenza,
con il braccio egli detiene il dominio.
Ecco, egli ha con sé il premio
e i suoi trofei lo precedono.
11 Come un pastore egli fa pascolare il gregge
e con il suo braccio lo raduna;
porta gli agnellini sul seno
e conduce pian piano le pecore madri”.

I primi anni d’esilio a Babilonia furono difficili, ma, in seguito, gli israeliti si adattarono alla loro nuova condizione e molti riuscirono addirittura a raggiungere posizioni sociali prestigiose.

Dopo una quarantina d’anni ecco sorgere un profe­ta. Era un uomo illuminato, un poeta sensibile, un teologo geniale; seguiva con at­tenzione gli avvenimenti politici del suo tempo e si era reso conto che il regno di Babilonia si stava sgretolando, mentre cresceva vertiginosamente il potere di Ciro, re di Persia. Era giunto il momento di risvegliare negli esuli la spe­ranza della fine della schiavitù e dell’imminente ri­torno nella terra dei loro padri.

Mosso dallo Spirito di Dio, cominciò a far circolare fra i deportati le sue intuizioni, i suoi presagi e le sue speranze e, per non insospettire le autorità babilonesi che lo avrebbero potuto accusare di essere un sovversivo, fece ricorso a un linguaggio criptato, impiegò immagini che solo i figli del suo popolo erano in grado di com­prendere. Annunciò l’imminente liberazione dalla schiavitù babilonese richiamando i miracoli accaduti durante l’esodo dall’Egitto e promettendo prodigi ancora maggiori.

Pochi, fra i deportati, coltivavano questa sua sensibilità spirituale. La maggioranza, sedotta dalle lusinghe della vita pagana, si era ormai integrata pienamente nella nuova realtà sociale e religiosa, aveva dimenticato il glorioso passato e considerava i richiami alle promesse fatte ad Abramo poco più che fiabe destituite di ogni valore.

Questi esuli, svigoriti nella fede, incapaci di cogliere i richiami di Dio, non ebbero né il coraggio né la forza di iniziare una vita nuova e si dispersero fra i pagani. La storia della salvezza continuò senza di loro. Il peri­colo maggiore dell’esilio non fu la sua durezza, ma le sue seduzioni e le sue attrattive.

L’esperienza di questi deportati è un ammonimento per chi, come loro, si adatta a una vita banale e senza prospettive, anche se comoda, e rifiuta i pressanti inviti del Signore a lasciarsi liberare, a guardare al futuro con gli occhi di Dio.

Il messaggio di questo profeta è dunque rivolto anche a noi.

Inizia con un invito pressante: “Consolate, consolate il mio popolo, gridate a Gerusalemme che è finita la sua schia­vitù… perché ha ricevuto il doppio castigo per tutti i suoi peccati” (vv. 1-2).

Come i ladri che dovevano pagare il doppio di ciò che avevano rubato (Es 22,3), Israele aveva scontato i suoi errori, li aveva pagati duramente, oltremisura, proprio come sempre accade a chi si discosta dai cammini di Dio. Il peccato castiga sempre l’uomo molto più di quanto meriti.

Nel linguaggio corrente consolare equivale, il più delle volte, a pronunciare parole di conforto, comunicare un po’ di serenità a chi è afflitto, ma non modifica la situazione penosa che causa dolore. La consolazione di Dio non si riduce a una tenera carezza che rincuora; Dio consola soccorrendo chi si trova in condizioni disperate, consola il misero sollevandolo dalla polvere (1 Sam 2,8), mutando il suo lamento in danza e il suo grido in canto di gioia (Sal 30,12).

Lo Spirito santo è chiamato da Gesù Consolatore (Gv 14,15) perché, con la sua venuta, rinnova la faccia della terra (Sal 104,30).

Dio consola, cioè libera gli uomini da tutte le loro schiavitù, attraverso la sua parola, che non è fragile come l’erba che secca o caduca come il fiore che appassisce, ma è viva ed eterna (Is 40,6-8) e non ritorna mai a Dio senza aver operato ciò che egli desidera, senza aver compiuto ciò per cui è stata mandata (Is 55,10-11).

Nella seconda parte della lettura (vv. 3-5) una voce anonima grida: “Nel deserto preparate la via al Signore… ogni valle sia colmata, ogni monte e colle siano abbassati”.

La costruzione di una strada è la condizione perché Dio possa venire a consolare il suo popolo.

Un immenso deserto separa la Palestina dalla Mesopotamia e la strada che, nell’antichità, univa Babilonia alle città della costa mediterranea non lo attraversava, ma, risalendo verso nord, lo costeggiava per quasi mille chilometri. La voce misteriosa invita gli esuli a tracciare una via nuova, spaziosa e diritta, che permetta di giungere, in modo agevole e spedito, alla meta dove il Signore li vuole condurre.

Il profeta accumula una serie di immagini per evidenziare gli impegni che chi vuole fare spazio a Dio nella propria vita si deve assumere. Chiede di preparare la via al Signore, non una via che conduca l’uomo a Dio, ma una che permetta a Dio di giungere all’uomo.

L’apertura di questa nuova strada indica la disposizione interiore ad abbandonare i cammini antichi, quelli che Dio ha sempre rifiutato: “I miei pensieri non sono i vostri pensieri e le vostre vie non sono le mie vie” (Is 56,7-8). I monti da abbassare e le valli da colmare rappresentano gli impedimenti all’incontro, alla comunicazione, alla reciproca stima fra i popoli di diversa cultura, razza, religione. Solo rimuovendo questi ostacoli è possibile preparare la via al Signore, via dell’intesa, del perdono, della riconciliazione.

In una visione grandiosa, nella terza parte della lettura (vv. 9-11) il profeta descrive il ritorno degli esuli nella città santa. Non li guida un uomo, com’era accaduto durante l’esodo dall’Egitto, ma è il Signore stesso che li precede e, come un pastore, conduce le sue pecore, “portando in braccio gli agnellini e conducendo pian piano le pecore madri” (v. 11).

L’immagine è commovente, mostra la tenerezza di Dio nei confronti dei più deboli. Tenero, dolce, paziente, egli rispetta i tempi e i ritmi spirituali di ognuno: apprezza chi cammina spedito, ma rivolge le sue attenzioni e premure a chi avanza con fatica, a chi si attarda lungo il cammino.

Quando il gruppo degli esuli è ormai vicino alla città, ecco alcuni staccarsi dal gruppo e correre avanti per annunciare la “lieta notizia” della liberazione. Sion è invitata dal profeta a divenire annunciatrice di “liete notizie”. Il suo messaggio di gioia, il “vangelo” da lei proclamato è: Dio non abbandonerà mai l’uomo, lo andrà sempre a cercare in ogni terra di schiavitù, lo prenderà fra le braccia e lo accompagnerà lungo il cammino che conduce alla libertà.

Seconda Lettura (Tt 2,11-14; 3,4-7)

11 È apparsa la grazia di Dio, apportatrice di salvezza per tutti gli uomini, 12 che ci insegna a rinnegare l’empietà e i desideri mondani e a vivere con sobrietà, giustizia e pietà in questo mondo, 13 nell’attesa della beata speranza e della manifestazione della gloria del nostro grande Dio e salvatore Gesù Cristo; 14 il quale ha dato se stesso per noi, per riscattarci da ogni iniquità e formarsi un popolo puro che gli appartenga, zelante nelle opere buone.
3, 4 Quando però si sono manifestati la bontà di Dio, salvatore nostro, e il suo amore per gli uomini, 5 egli ci ha salvati non in virtù di opere di giustizia da noi compiute, ma per sua misericordia mediante un lavacro di rigenerazione e di rinnovamento nello Spirito Santo, 6 effuso da lui su di noi abbondantemente per mezzo di Gesù Cristo, salvatore nostro, 7 perché giustificati dalla sua grazia diventassimo eredi, secondo la speranza, della vita eterna.

“ È apparsa la grazia di Dio!”. È il canto lieto della comunità cristiana riunita per la messa di mezzanotte di Natale.

Chi prende coscienza dell’amore infinito che Dio ha rivelato inviando a noi il proprio Figlio non può che gridare a tutti la propria gioia.

Per grazia non si intende – come nel linguaggio comune – un aiuto, un favore che Dio concede a chi lo invoca in un momento difficoltà, ma è un termine biblico denso di significato: indica la tenerezza, l’amore, la benignità incondizionata e senza limiti di Dio.

Questa benevolenza divina – ci dice la lettura – si è resa visibile, si è manifestata in Gesù, annuncio di salvezza per tutti gli uomini (Tt 2,11).

Per tutti! Se il Figlio di Dio fosse venuto dal cielo per annunciale la salvezza dei buoni, di coloro che osservano fedelmente i precetti del Signore, non avremmo motivo per esultare, non si tratterebbe di un messaggio nuovo. Avremmo solo udito qualcuno che ribadiva ciò che le guide spirituali d’Israele hanno ripetuto per secoli: chi rispetta la legge di Mosè e i comandamenti è amato da Dio, gli altri sono da lui considerati spregevoli e abietti.

La gioia diviene incontenibile solo quando ci si rende conto che il Figlio di Dio è venuto a portare la salvezza per tutti.

Abbiamo capito bene: per tutti, perché è grazia, è dono gratuito, non dipende dalla nostra fedeltà, ma dalla sua.

La lettura continua traendo dalla manifestazione della benevolenza di Dio le conseguenze morali (vv. 12-14). La vita nuova del cristiano non è la condizione per meritarsi l’amore di Dio, ma è la risposta a questo amore.

Per molto tempo si è pensato che il miglior deterrente per contrastare il male e il miglior stimolo al bene fosse la paura dei castighi di Dio.

Fu una pessima scelta pedagogica. La paura di Dio non ha mai prodotto nulla di buono, anzi ha provocato patologie e causato abbandoni della fede.

Solo chi scopre con quale immenso amore è amato da Dio impara “a rinnegare l’empietà e i desideri mondani e a vivere con sobrietà, giustizia e pietà in questo mondo” (v. 12). Solo chi si sente amato è indotto ad amare.

 La grazia poi infonde speranza. Alimenta la certezza che “il nostro grande Dio e salvatore Gesù Cristo” si manifesterà (v. 13) e farà sì che la sua salvezza raggiunga ogni uomo. Il grande pericolo è quello di perdere momenti preziosi di intimità con lui dilazionando l’adesione alla sua proposta di amore.

Nell’ultima parte della lettura (Tt 3,4-7) l’autore riprende il tema della manifestazione della grazia di Dio. Lo fa contrapponendo la condizione precedente al battesimo alla realtà nuova in cui è introdotto chi è raggiunto dalla benevolenza di Dio.

La descrizione della corruzione e dell’alienazione dell’umanità peccatrice è molto viva: Anche noi un tempo eravamo insensati, disobbedienti, traviati, schiavi di ogni sorta di passioni e di piaceri, vivendo nella malvagità e nell’invidia, odiosi e odiandoci a vicenda (Tt 3,3). È un drammatico elenco di vizi che toccano la vita religiosa, personale e sociale.

La situazione pare davvero disperata e all’umanità non rimane – secondo i nostri criteri di giudizio – che attendere la punizione.

Invece ecco la sorpresa: Quando però si sono manifestati la bontà di Dio, salvatore nostro, e il suo amore per gli uomini, egli ci ha salvati non in virtù di opere di giustizia da noi compiute, ma per sua misericordia.

L’amore è l’unica risposta che il Signore sa dare.

Vangelo (Lc 3,15-16.21-22)

15 Poiché il popolo era in attesa e tutti si domandavano in cuor loro, riguardo a Giovanni, se non fosse lui il Cristo, 16 Giovanni rispose a tutti dicendo: “Io vi battezzo con acqua; ma viene uno che è più forte di me, al quale io non sono degno di sciogliere neppure il legaccio dei sandali: costui vi battezzerà in Spirito Santo e fuoco”.
21 Quando tutto il popolo fu battezzato e mentre Gesù, ricevuto anche lui il battesimo, stava in preghiera, il cielo si aprì 22 e scese su di lui lo Spirito Santo in apparenza corporea, come di colomba, e vi fu una voce dal cielo: “Tu sei il mio figlio prediletto, in te mi sono compiaciuto”.

Il Vangelo di oggi si apre con una constatazione significativa: “il popolo era in attesa”.

È facile da immaginare di che cosa: lo schiavo si aspettava la libertà, il povero una nuova condizione di vita, il bracciante sfruttato si attendeva giustizia, il malato la guarigione, la donna umiliata e violentata il recupero della dignità. Tutti aspiravano a un mondo nuovo, speravano che fra gli uomini sparissero gli abusi, le prevaricazioni, i soprusi e si instaurassero rapporti di pace.

Era soprattutto nel campo religioso che il popolo coltivava l’attesa, forse nemmeno del tutto cosciente, di un cambiamento.

Da trecento anni si era spenta la voce dei profeti, il Cielo si era chiuso e il silenzio di Dio era considerato una meritata punizione per i peccati commessi. Poste da parte le immagini del Dio alleato fedele, padre affettuoso, tenero sposo, le guide spirituali, da secoli, avevano cominciato a presentare il Signore soprattutto come legislatore severo e intransigente. La religione non comunicava gioia, ma inquietudine, paura, angoscia. Una vita così era insostenibile, qualcosa doveva cambiare! Ecco le ragioni dell’attesa alla quale il Battista doveva dare una risposta.

Quando si vive in situazioni insopportabili e si desidera ardentemente che qualcosa cambi ci si affida a chiunque susciti qualche speranza e ci si può anche ingannare nell’identificazione del liberatore. Il popolo d’Israele che – come dirà un giorno Gesù – era un gregge senza pastore (Mc 6,34) si attende dal Signore una guida e pensa che il Battista sia il Messia. Giovanni li corregge: non sono io – dice – sta per venire uno più forte di me. Egli vi battezzerà con “Spirito Santo e fuoco”. Ha in mano il “ventilabro” e separerà il grano dalla pula; questa verrà bruciata, senza pietà, in un “fuoco inestinguibile” (Lc 3,17). Poco prima ha detto che la scure è già posta alla radice degli alberi (Lc 3,9). Il giudizio di Dio è dunque imminente e sarà severo.

Il linguaggio del Battista è duro e minaccioso, in sintonia con quello impiegato da alcuni profeti. Malachia ha parlato di un “giorno rovente come un forno. Allora tutti i superbi e tutti coloro che commettono ingiustizia saranno come paglia; quel giorno venendo li incendierà” (Ml 3,19). Anche Isaia ha minacciato: “Profondo e largo è il rogo, fuoco e legna abbondano, lo accenderà, come torrente di zolfo, il soffio del Signore” (Is 30,33).

Non si può non notare il contrasto stridente fra queste immagini terrificanti e le espressioni dolci e delicate con cui, nella prima lettura, è stata presentata la figura del “servo del Signore”. Là non si parlava di violenza, di intolleranza, di aggressione, di fuoco distruttore, ma di pazienza, di rispetto nei confronti di tutti, di aiuto a chi è in difficoltà, di recupero della canna spezzata, di speranza per chi è come un lucignolo fumigante.

Le parole del Battista riflettono la mentalità di un popolo che le guide spirituali hanno educato alla paura di Dio. Come tutti, anch’egli riteneva che l’ingiustizia e il peccato avessero raggiunto il colmo e che fosse imminente l’intervento risolutore di Dio contro i malvagi.

Aveva ragione: con la venuta di Cristo per il male non ci sarebbe stato più scampo. Ma su come Dio avrebbe purificato il mondo dal peccato, sul tipo di fuoco che egli avrebbe usato… forse il Battista si ingannava. Non sappiamo cosa egli esattamente avesse in mente, conosciamo invece molto bene come Gesù ha agito: non ha aggredito i peccatori, si è seduto a cena con loro; non si è allontanato dai lebbrosi, li ha toccati; non ha condannato l’adultera, l’ha difesa contro chi la giudicava e disprezzava; non ha scacciato la peccatrice, si è lasciato accarezzare e baciare da lei.

Con Gesù si è chiusa definitivamente l’epoca in cui Dio è stato immaginato come un sovrano severo, giustiziere, intransigente. Egli ha rivelato il vero volto di Dio, il Dio che salva soltanto. Con la sua vita ha proiettato una luce anche sulle immagini impressionanti usate dal Battista e dai profeti e ne ha dato la chiave di lettura. Era vero quanto essi avevano affermato: Dio avrebbe inviato il suo fuoco sulla terra, ma non per distruggere i suoi figli (anche se malvagi), bensì per bruciare, per far scomparire dal cuore di ognuno ogni forma di malvagità.

Questo pensiero ci introduce nella seconda parte del Vangelo di oggi (vv. 21-22).

A prima vista il racconto del battesimo di Gesù sembra identico a quello degli altri evangelisti, in realtà presenta alcuni particolari diversi e significativi.

Anzitutto, a differenza degli altri, Luca non descrive il battesimo di Gesù, ma ne parla come di un fatto già avvenuto (v. 21). Chiaramente, per lui il centro del racconto non è il battesimo in sé, ma quanto accade subito dopo: l’apertura dei cieli, la discesa dello Spirito e, soprattutto, la voce dal cielo.

Siamo all’inizio della vita pubblica e l’evangelista vuole che i cristiani delle sue comunità – che sono già stati battezzati – leggano il Vangelo come rivolto direttamente a loro. Li invita a iniziare il percorso, a muovere i loro passi ancora incerti dietro il Maestro che è stato battezzato come loro e che cammina al loro fianco.

Poi, solo Luca nota che Gesù è stato immerso nell’acqua del Giordano assieme a tutto il popolo. Egli si è confuso in mezzo alla gente. Questo particolare viene sottolineato perché, fin dall’inizio della sua missione, Gesù si presenta come colui che si mette a fianco dei peccatori: non li giudica, non li sgrida, non li condanna, non li disprezza. Ne condivide la condizione di schiavitù e con loro percorre il cammino che porta alla libertà.

Il terzo particolare che compare solo in Luca è il richiamo alla preghiera. Gesù riceve lo Spirito mentre è in preghiera. L’insistenza sulla preghiera è una delle caratteristiche di Luca. È la prima volta che egli ci presenta Gesù in dialogo con il Padre, in seguito lo farà un’altra decina di volte.

Gesù non prega per darci il buon esempio. Egli ha bisogno, come noi, di scoprire qual è la volontà del Padre, ha bisogno di ricevere la sua luce e la sua forza per compiere in ogni momento ciò che a lui è gradito. Ha bisogno di pregare ora che è agli inizi della sua missione, pregherà prima della scelta degli apostoli (Lc 6,12), pregherà prima della sua passione (Lc 22,41) e pregherà, soprattutto, sulla croce (Lc 23,34.46) nel momento della prova più difficile. Per mantenersi fedele al Padre, ha avuto bisogno di pregare.

Dopo questa introduzione originale, anche Luca, come Matteo e Marco, descrive la scena successiva con tre immagini: l’apertura dei cieli, la colomba, la voce dal cielo. Non sta raccontando fatti prodigiosi realmente accaduti, ma impiega immagini ben comprensibili ai suoi lettori. Il loro significato non è difficile da cogliere anche per noi oggi.

Cominciamo dall’apertura del cielo.

Non si tratta di un’informazione meteorologica (fra le nubi dense e cupe sarebbe filtrato un luminoso e insperato raggio di sole). Se così fosse Luca ci avrebbe riferito un dettaglio davvero banale e di nessun interesse per la nostra fede. E’ ben altro ciò che egli vuole dire ai suoi lettori. Egli sta alludendo in modo chiaro a un testo dell’AT a loro ben noto.

Negli ultimi secoli prima di Cristo, il popolo d’Israele ebbe la sensazione che il cielo si fosse chiuso. Dio, sdegnato a causa dei peccati e delle infedeltà del suo popolo, si era ritirato nel suo mondo, aveva smesso di inviare i profeti e sembrava avesse rotto ogni dialogo con l’uomo. I pii israeliti si chiedevano: quando finirà questo silenzio che tanto ci angoscia? Il Signore non tornerà a parlarci, non ci mostrerà più il suo volto sereno, come nei tempi antichi? E lo invocavano così: “Signore, tu sei nostro Padre; noi siamo l’argilla e tu colui che ci dà forma, tutti noi siamo opera delle tue mani. Non adirarti troppo, non ricordarti per sempre delle nostre iniquità… Ah, se tu squarciassi i cieli e scendessi!” (Is 64,7-8; 63,19).

Dicendo che, con l’inizio della vita pubblica di Gesù, i cieli si sono squarciati, Luca dà ai suoi lettori una grande, lieta notizia: Dio ha esaudito la supplica del suo popolo, ha spalancato il Cielo e non lo richiuderà mai più. E’ finita per sempre l’inimicizia fra il Cielo e la terra. La porta della casa del Padre rimarrà eternamente aperta per accogliere ogni figlio che desideri entrare. Qualcuno forse arriverà molto tardi, ma nessuno sarà escluso.

La seconda immagine è quella della colomba.

Luca non dice che una colomba scese dal cielo (sarebbe anche questo un dettaglio banale e superfluo), ma che lo Spirito santo scese “come una colomba”.

Il Battista ricorda certamente che dal cielo non è scesa solo la manna, ma anche l’acqua distruttrice del diluvio (Gen 7,12) e il fuoco e lo zolfo che hanno incenerito Sodoma e Gomorra (Gen 19,24). Egli probabilmente si aspetta la venuta dello Spirito come un “fuoco” divoratore dei malvagi. Su Gesù lo Spirito si posa invece come una “colomba”. E’ tutto tenerezza, affetto, bontà. Mosso dallo Spirito, Gesù si accosterà ai peccatori sempre con la dolcezza e l’amabilità della colomba.

La colomba era anche il simbolo dell’attaccamento al proprio nido. Se l’evangelista ha in mente anche questo richiamo, allora vuole dirci che lo Spirito cerca Gesù come la colomba cerca il suo nido. Gesù è il tempio dove lo Spirito trova la sua stabile dimora.

La terza immagine, la voce dal cielo.

E’ un’espressione usata frequentemente dai rabbini quando vogliono introdurre un’affermazione da attribuire a Dio. Nel nostro racconto ha lo scopo di presentare pubblicamente, in nome di Dio, chi è Gesù.

Per comprendere l’importanza del messaggio di questa voce si deve tenere presente che il brano è stato composto dopo gli avvenimenti della Pasqua e vuole rispondere all’enigma suscitato nei discepoli dalla morte ignominiosa del Maestro. Ai loro occhi egli è apparso come lo sconfitto, come colui che Dio ha rifiutato ed abbandonato. I nemici – custodi e garanti della purezza della fede del loro popolo – lo hanno giudicato un bestemmiatore. Dio ha condiviso questa condanna?

Ai cristiani delle sue comunità l’evangelista presenta il giudizio del Signore con una frase che fa riferimento a tre testi dell’AT.

– “Tu sei il mio figlio”. E’ una citazione del Sal 2,7. Nella cultura semitica il termine figlio non indica solo la generazione biologica, ma significa anche che una persona si comporta come suo padre. Presentando Gesù come “suo figlio”, Dio garantisce di riconoscersi in lui, nelle sue parole, nei suoi gesti, nelle sue opere, nel gesto supremo del suo amore, nel dono della vita. Per conoscere il Padre gli uomini non devono far altro che guardare a questo figlio.

– Il “prediletto”. Il riferimento è al racconto di Abramo, disposto ad offrire per amore il suo figlio unico, Isacco (Gen 22,2.12.16). Gesù non è un re o un profeta come gli altri, è l’unico.

– “In te mi sono compiaciuto”. Conosciamo già quest’espressione perché si trova nel primo versetto della lettura di oggi (Is 42,1). Dio dichiara che è Gesù il “servo” di cui ha parlato il profeta, è lui il “servo” inviato a “instaurare il diritto e la giustizia” nel mondo intero. Per portare a compimento questa missione offrirà la vita.

La “voce dal cielo” ribalta dunque il giudizio pronunciato dagli uomini e smentisce le attese messianiche del popolo d’Israele. Un Messia umiliato, sconfitto, giustiziato era inconcepibile per la cultura giudaica del tempo. Quando Pietro, nella casa del sommo sacerdote, giurerà di non conoscere quell’uomo, in fondo dirà la verità: non poteva riconoscere in lui il Messia, non assomigliava in nulla al salvatore d’Israele che gli era stato narrato nella catechesi dei rabbini.

L’adempimento delle profezie da parte di Dio è stato troppo sorprendente, per tutti, anche per il Battista.

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