Commento al Vangelo del 10 febbraio 2019 – Figlie della Chiesa

In questa V Domenica del tempo ordinario emerge la missione profetica dell’uomo di ogni tempo e di ogni condizione, con i suoi limiti e le sue contraddizioni. Incrociamo così la figura di Isaia, profeta dell’VIII secolo a.C., di Simone, da pescatore come mestiere a pescatore di uomini, per concludere con Paolo, accanito persecutore dei cristiani prima e poi “apostolo delle genti”, apostolo per le genti. Proprio San Paolo nella prima lettera ai Corinzi riconosce la sua piccolezza: “Non sono degno di essere chiamato apostolo perché ho perseguitato la Chiesa di Dio. Per grazia di Dio, però, sono quello che sono, e la sua grazia in me non è stata vana” (15, 9-10). Colui che li chiama è il primo a guardarli con occhi di misericordia e a renderli capaci di condividerne con lui la missione.

Il giovane Isaia matura la sua vocazione nel Tempio di Gerusalemme, nell’anno in cui morì il re Ozìa, probabilmente il 740 a.C. Lo scenario è solenne, magnifico, è tutto da contemplare. Il Signore è assiso su un trono alto ed elevato, l’idea della sua grandezza è data dal mantello, capace di riempire il tempio. È circondato dalla corte celeste, immagine ripresa dalle antiche religioni, dai serafini che esaltavano Dio, tutto santo, “Santo, Santo, Santo” e Signore degli eserciti, Yahweh ṣĕbā’ōt, acclamazioni con cui anche noi, nella Preghiera Eucaristica durante la Messa, celebriamo la bellezza di Colui della cui gloria è piena la terra.

Il fumo, elemento simbolico che indica la presenza di Dio (lo ritroviamo anche in Es 40, 34, durante il soggiorno del popolo d’Israele nel deserto), completa il quadro di questa gloriosa teofanìa, cedendo poi la scena alla purificazione di Isaia e alla sua chiamata.

Isaia si riconosce uomo dalle labbra impure, che vive in un popolo dalle labbra impure. Eppure, Dio utilizza proprio quelle labbra per fare di Isaia un profeta e uno strumento di salvezza (Isaia in ebraico è ysha’ihàu, il Signore salva). La misericordia di Dio non ha confini, è eterna nel tempo, nello spazio e nella potenza.

In questo scenario in cui umano e divino si toccano, avviene una delle esperienze più belle che l’uomo possa fare: l’incontro della creatura con il suo Creatore. È il luogo dell’ascolto, della tenerezza, dell’intimità, in cui il Dio trascendente s’incarna nell’uomo, fecondandone il cuore e rendendolo capace, nella libertà, di rispondere ad un bisogno da Dio solo enunciato: “Chi manderò e chi andrà per noi?”. “Eccomi, Signore, manda me!”. È un “Eccomi” pronunciato con l’audacia di chi, pur non conoscendo a quale missione sia destinato, si mette in cammino perché sa che Colui che chiama è l’hesed, l’amore fedele.

Così possiamo accordare il nostro cuore al canto del salmista, nel salmo 137/138 che sant’Atanasio ha definito “il canto della chiamata universale”, dove per universale intendiamo non grandezza dispersiva ma amore senza limiti: “Rendo grazie al tuo nome per il tuo amore e la tua fedeltà: hai reso la tua promessa più grande del tuo nome”.

Lasciamoci condurre adesso dentro la Parola narrata da Luca (5,1-11)

v.1 – Il Vangelo ci contestualizza subito presso il mare di Galilea o lago di Kinneret, nome che si era corrotto nel periodo ellenistico in Genesaret o Gennesar. Era detto anche lago di Tiberiade dalla vicina città omonima eretta da Erode Antipa sulle sue sponde. Gesù è attorniato dalla folla, una massa indistinta di gente bisognosa di una parola, di un miracolo, di un conforto e anche della soddisfazione di un bisogno prettamente umano, che possa dare una svolta e dignità alla propria vita.

v.2 – Gesù passa ed entra nella quotidianità di chi desidera incontrare e chiamare. I pescatori, non curanti della folla e di quell’uomo che camminando diceva parole di Dio, continuano i loro affari, piuttosto amareggiati perché la notte di lavoro non aveva portato alcun guadagno. Col volto segnato dal fallimento, sistemano le barche, lavano le reti.

v.3 – Ogni azione di Dio è preceduta da un insegnamento. Dio prima di chiedere un abbandono totale prega di scostarsi un po‘ (il verbo greco ἐρωτάω, dalle sfumature molto delicate, significa proprio pregare, avere il desiderio di), di modo che, nella solitudine, lontano dalla folla, l’anima possa gradualmente diventare grembo accogliente della sua Parola.

v.4 – Dalla lettura in chiave sinottica si evince che il racconto della pesca miracolosa e l’invito a prendere il largo, sono assenti nei Vangeli di Matteo e Marco. Perché Luca ha interesse a sottolineare il gesto dell’allontanarsi, dell’andare verso il largo? Possiamo ricavarne un’interpretazione facendo riferimento a chi sono i destinatari cui Luca si rivolge. Infatti, Luca non parla solo agli ebrei, ma il suo annuncio è allargato anche ai pagani.

In sottofondo ecco la gradualità dell’amore che segue la logica dei piccoli passi. Gesù prima prega Simone di scostarsi un poco da terra. Adesso, con due imperativi esortativi, prendi il largo e gettate, lo invita ad estendere i propri orizzonti. L’amore dà il coraggio e chiede di andare oltre.

v.5 – Qui c’è il realismo della gente semplice. Abbiamo faticato tutta la notte: perché insistere, perché forzare ancora la realtà? Eppure Simone scommette su quell’uomo perché quell’uomo lo ha invitato a guardare oltre i propri limiti e fallimenti. Il suo è un atteggiamento di fiducia, aperto a quello che l’altro dice, fosse pure uno sconosciuto che gli chiede di tentare l’impossibile. Simone ancora non sa che, a breve, lui, semplice pescatore di Galilea, diventerà pietra, guida e sostegno della Chiesa universale.

vv.6-7 – In questi due versetti emerge tutta la potenza della fede. Solo fidandosi di Dio si prende parte ai prodigi che Egli compie. Tutto si amplia, s’ingigantisce come i verbi e gli aggettivi utilizzati: la quantità di pesci è enorme, le reti si rompevano, c’è bisogno di un’altra barca ed entrambe si riempiono fino a quasi affondare. Se non abbiamo sperimentato ciò, è perché non ci siamo fidati abbastanza, perché ancora abbiamo lasciato le nostre reti e tutto ciò che ci imbriglia sulla barca (paure, ansie, antipatie, rancori …).

v.8 – è stupendo quest’atteggiamento di Simone! In lui convivono lo stupore di chi non crede ai suoi occhi e il timore di chi sta di fronte ad uno che, guardandoti, fa verità su chi sei, spogliandoti di ogni orgoglio e autosufficienza. In ogni Celebrazione Eucaristica noi riviviamo questo umile gesto nell’invito del sacerdote: “Per celebrare degnamente i santi misteri riconosciamo i nostri peccati”. Immaginiamoci anche noi, così, umilmente gettàti alle ginocchia di Gesù. Facciamolo soprattutto in quest’anno santo della misericordia.

v.9 – La parola greca θάμβος significa stupore, meraviglia, ma anche timore, paura. I pescatori e tutti coloro che erano con lui vivono un tripudio di emozioni, come quando ci si trova innanzi ad un mistero che la ragione non riesce a spiegare.

v.10 – Ecco il salto di qualità che Gesù propone. La fede non può fermarsi alla concretezza delle cose. La fede non è credere alle reti che si spezzano per l’enorme quantità del pescato. Fede è credere che si può essere anche pescatori di uomini. È interessante guardare alla traduzione del termine pescatori, che nell’originale è espresso con il participio ζωγρών letteralmente prendente vivi. Significa, appunto, prendere vivo, rianimare. Significa che d’ora in poi non si è più pescatori per auto sostentamento ma per rispondere all’invito più grande di gettare le reti nel mare della storia, per salvare gli uomini dalle profondità in cui essi sono affondati.

v.11 – Non una parola tra la missione data da Gesù e la risposta dei discepoli, piuttosto troviamo tre azioni, tre verbi forti, decisi: tirare, lasciare, seguire. Questi sono proprio gli atteggiamenti che chi segue il Maestro deve far propri. Senza ripensamenti. Anche se questo non preserva da futuri sbagli e rinnegamenti, come successe anche a Pietro. Eppure, Dio si fida di noi, ci invita a non temere, perché lui cammina con e dentro la nostra debolezza. Per questo tutti possiamo dire di averlo visto passare lungo le spiagge della nostra Galilea e di esserci sentiti dire anche noi: “Non temere; d’ora in poi sarai pescatore di uomini”.

Appendice

[…] Oggi, dunque, partecipano della grazia del Signore senza distinzione nobili e plebei, dotti e ignoranti, poveri e ricchi. Quando si tratta di ricevere questa grazia non avanza diritti di precedenza la superbia rispetto all’umiltà di chi nulla sa e nulla possiede e nulla può.

Ma cosa disse loro il Signore? Seguitemi, vi farò pescatori di uomini. Se non ci avessero preceduto quei pescatori, chi sarebbe venuto a pescarci?

Per farci disprezzare l’amicizia dei potenti a vantaggio della nostra salvezza, il Signore non volle prima scegliere i nobili, ma i pescatori. Grande misericordia del Creatore! Poiché sapeva che, se avesse scelto un senatore, questi avrebbe potuto dire: “È stata scelta la mia dignità”. Se prima avesse scelto un ricco, questi avrebbe potuto dire: “È stata scelta la mia ricchezza”. Se prima avesse scelto un generale, questi avrebbe potuto dire: “È stata scelta la mia autorità”. Se prima avesse scelto un oratore, questi avrebbe potuto dire: “È stata scelta la mia eloquenza”. Se prima avesse scelto un filosofo, questi avrebbe potuto dire: “È stata scelta la mia sapienza”.

Frattanto — dice il Signore — siano rinviati a più tardi questi superbi, sono molto gonfi. C’è una differenza tra la grandezza e l’alterigia; tutt’e due sono cose di grandi dimensioni, ma non sono tutt’e due sane. Perciò siano rinviati a più tardi questi superbi, devono essere guariti mediante qualcosa di solido.

Dammi prima questo pescatore — dice il Signore. Vieni tu, o povero, seguimi; non hai nulla, non sai nulla, seguimi. Tu che sei ignorante e povero, seguimi! Tu non hai nulla che spaventi, ma hai molto che si può riempire. Bisogna avvicinare a una sorgente così abbondante il recipiente vuoto. Ha abbandonato le reti il pescatore, ha ricevuto la grazia il peccatore ed è diventato divino oratore. Ecco che cosa ha fatto il Signore, di cui l’Apostolo dice: Dio ha scelto ciò che nel mondo è debole per confondere i forti, Dio ha scelto ciò che nel mondo è ignobile disprezzato e ciò che è nulla per ridurre a nulla le cose che sono. (Sant’Agostino, Serm.87)

L`umiltà e la dote del predicatore del Vangelo

Quando lo stupore e l`ammirazione si impadronirono di Simon Pietro e dei suoi compagni e l`animo tutto si raccolse su quei fatti straordinari, Pietro, comprendendo che ciò non poteva essere opera dell`umana forza, umilmente si gettò ai piedi di Cristo riconoscendo in lui il suo Signore, dicendogli: “Signore, allontanati da me che sono un peccatore” (Lc 5,8s) e non sono degno di stare in tua compagnia. Allontanati da me, poiché sono un comune mortale, mentre tu sei il Dio-uomo; io peccatore, tu santo; io il servo, tu il Padrone. Quante cose mi dividono da te: la debolezza della mia natura, l`abiezione della colpa, il peccato. Si considerò indegno di trovarsi in presenza di una persona così santa. Questo dimostra quanto si debba temere di toccare le cose sante, di stare attorno all`altare e di accostarsi all`Eucaristia.

Cristo, però, confortò Pietro spiegandogli che pescare voleva dire essere pescatori di uomini e questo avrebbe dovuto fare. Gli disse dunque: Non aver paura, non meravigliarti, ma piuttosto rallegrati e credi che sei destinato ad una pesca più grande: avrai un`altra barca e altre reti. Finora hai preso i pesci con le reti, d`ora in poi – cioè in un prossimo futuro – prenderai gli uomini con la parola, e con la dottrina salutifera li condurrai sulla via della salvezza, poiché tu sei chiamato al servizio della Parola.

La Parola di Dio è stata paragonata all`amo, poiché come l`amo non prende il pesce se non viene ingoiato, così anche l`uomo per la vita eterna prende la Parola di Dio solo se custodisce nell`anima la Parola di Dio. “D`ora in poi sarai pescatore di uomini, vuol dire che, dopo quanto è accaduto, prenderai gli uomini; cioè, dato che ti sei umiliato, a te spetterà d`ufficio di pescare gli uomini; l`umiltà infatti ha il potere di attirare ed è cosa buona e giusta che coloro i quali, pur avendo autorità, sanno non esaltarsi nell`essere a capo degli altri…

In Pietro – che per tutta la notte nulla aveva preso, ma dopo aver gettato le reti alle parole di Cristo fece una pesca abbondante, eppure nelle parole: “Signore, allontanati da me che sono un peccatore, non si attribuisce altro che la colpa – abbiamo l`immagine di colui che predica il Vangelo. Quando fa assegnamento soltanto sulla propria forza, non ricava alcun utile, sostenuto però dalla potenza divina ottiene grandi frutti.

Pietro si gettò ai piedi di Gesù dopo aver catturato una enorme quantità di pesci. Questo ci insegna che il predicatore, catturando con la sua eloquenza un gran numero di uomini, deve umiliarsi interamente davanti a Dio e a lui deve riconoscere ogni cosa, a sé invece nulla se non gli errori. Allora troverà forza nel Signore che gli dirà: Non aver paura, avrai in futuro un successo ancora piú grande: d`ora in poi catturerai un maggior numero di uomini. (Ludolfo il Certosino, Vita Dom. Christi, 1, 29)

Perché Gesù sceglie dei pescatori

La scelta dei pescatori (cf. Mt 4,18-22) illustra l`attività del loro futuro incarico derivante dal loro mestiere umano: gli uomini, alla stregua dei pesci tirati su dal mare, debbono emergere dal secolo verso un luogo superiore, ossia verso la luce del soggiorno dei cieli.

Abbandonando mestiere, patria, casa, ci insegnano, se vogliamo seguire Cristo, a non essere trattenuti né dall`inquietudine della vita nel mondo, né dall’attaccamento alla casa paterna.

La scelta di quattro apostoli all`inizio, insieme alla veracità dei fatti, dal momento che questi sono effettivamente avvenuti, prefigura il numero futuro degli evangelisti. (Ilario di Poitiers, In Matth., 3, 6) […] “Duc in altum!” Il comando di Cristo è particolarmente attuale nel nostro tempo, in cui una certa mentalità diffusa favorisce il disimpegno personale davanti alle difficoltà. La prima condizione per “prendere il largo” è coltivare un profondo spirito di preghiera alimentato dal quotidiano ascolto della Parola di Dio. L’autenticità della vita cristiana si misura dalla profondità della preghiera, arte che va appresa umilmente “dalle labbra stesse del Maestro divino”, quasi implorando, “come i primi discepoli: ‘Signore, insegnaci a pregare!’ (Lc 11, 1). Nella preghiera si sviluppa quel dialogo con Cristo che ci rende suoi intimi: ‘Rimanete in me e io in voi’ (Gv 15, 4)” (Novo millennio ineunte, 32).

L’orante legame con Cristo ci fa avvertire la sua presenza anche nei momenti d’apparente fallimento, quando la fatica sembra inutile, come avvenne per gli stessi Apostoli che dopo aver faticato tutta la notte esclamarono: “Maestro, non abbiamo preso nulla” (Lc 5, 5). È particolarmente in tali momenti che occorre aprire il cuore all’onda della grazia e consentire alla parola del Redentore di agire con tutta la sua potenza: “Duc in altum!” (cfr. Novo millennio ineunte, 38).

Chi apre il cuore a Cristo non soltanto comprende il mistero della propria esistenza, ma anche quello della propria vocazione, e matura splendidi frutti di grazia. Di questi il primo è la crescita nella santità in un cammino spirituale che, iniziato con il dono del Battesimo, prosegue sino al pieno raggiungimento della perfetta carità (cfr. ivi, 30). Vivendo il Vangelo “sine glossa“, il cristiano diventa sempre più capace di amare al modo stesso di Cristo, di cui accoglie l’esortazione: “Siate perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste” (Mt 5, 48). Egli si impegna a perseverare nell’unità con i fratelli entro la comunione della Chiesa, e si pone al servizio della nuova evangelizzazione per proclamare e testimoniare la stupenda verità dell’amore salvifico di Dio. […] (Giovanni Paolo II, dal Messaggio per la XLII giornata mondiale di preghiera per le vocazioni)

 

Cari fratelli e sorelle!

Nella liturgia odierna, il Vangelo secondo Luca presenta il racconto della chiamata dei primi discepoli, con una versione originale rispetto agli altri due Sinottici, Matteo e Marco (cfr Mt 4,18-22; Mc 1,16-20;). La chiamata, infatti, è preceduta dall’insegnamento di Gesù alla folla e da una pesca miracolosa, compiuta per volontà del Signore (Lc 5,1-6). Mentre infatti la folla si accalca sulla riva del lago di Gennèsaret per ascoltare Gesù, Egli vede Simone sfiduciato per non aver pescato nulla tutta la notte. Dapprima gli chiede di poter salire sulla sua barca per predicare alla gente stando a poca distanza dalla riva; poi, finita la predicazione, gli comanda di uscire al largo con i suoi compagni e di gettare le reti (cfr v. 5). Simone obbedisce, ed essi pescano una quantità incredibile di pesci. In questo modo, l’evangelista fa vedere come i primi discepoli seguirono Gesù fidandosi di Lui, fondandosi sulla sua Parola, accompagnata anche da segni prodigiosi. Osserviamo che, prima di questo segno, Simone si rivolge a Gesù chiamandolo «Maestro» (v. 5), mentre dopo lo chiama «Signore» (v. 7). E’ la pedagogia della chiamata di Dio, che non guarda tanto alle qualità degli eletti, ma alla loro fede, come quella di Simone che dice: «Sulla tua parola getterò le reti» (v. 5).

L’immagine della pesca rimanda alla missione della Chiesa. Commenta al riguardo sant’Agostino: «Due volte i discepoli si misero a pescare dietro comando del Signore: una volta prima della passione e un’altra dopo la risurrezione. Nelle due pesche è raffigurata l’intera Chiesa: la Chiesa come è adesso e come sarà dopo la risurrezione dei morti. Adesso accoglie una moltitudine impossibile a enumerarsi, comprendente i buoni e i cattivi; dopo la risurrezione comprenderà solo i buoni» (Discorso 248,1). L’esperienza di Pietro, certamente singolare, è anche rappresentativa della chiamata di ogni apostolo del Vangelo, che non deve mai scoraggiarsi nell’annunciare Cristo a tutti gli uomini, fino ai confini del mondo. Tuttavia, il testo odierno fa riflettere sulla vocazione al sacerdozio e alla vita consacrata. Essa è opera di Dio. L’uomo non è autore della propria vocazione, ma dà risposta alla proposta divina; e la debolezza umana non deve far paura se Dio chiama. Bisogna avere fiducia nella sua forza che agisce proprio nella nostra povertà; bisogna confidare sempre più nella potenza della sua misericordia, che trasforma e rinnova.

Cari fratelli e sorelle, questa Parola di Dio ravvivi anche in noi e nelle nostre comunità cristiane il coraggio, la fiducia e lo slancio nell’annunciare e testimoniare il Vangelo. Gli insuccessi e le difficoltà non inducano allo scoraggiamento: a noi spetta gettare le reti con fede, il Signore fa il resto. Confidiamo anche nell’intercessione della Vergine Maria, Regina degli Apostoli. Alla chiamata del Signore, Ella, ben consapevole della sua piccolezza, rispose con totale affidamento: «Eccomi». Col suo materno aiuto, rinnoviamo la nostra disponibilità a seguire Gesù, Maestro e Signore.

(Papa Benedetto XVI, Angelus del 10 febbraio 2013).

Solo chi è umile e sa riconoscere la sua condizione di peccatore è capace di lasciarsi incontrare veramente dal Signore. Le caratteristiche dell’incontro personale con Gesù sono state al centro della riflessione di Papa Francesco durante la messa celebrata giovedì 3 settembre a Santa Marta.

Il Pontefice ha preso spunto per la sua omelia dal Vangelo del giorno, quello di Luca (5, 1-11) in cui Pietro viene invitato a gettare le reti nonostante una nottata di pesca inconcludente. «È la prima volta che accade questo fatto, questa pesca miracolosa. Ma dopo la risurrezione ce ne sarà un’altra, con caratteristiche che si assomigliano» ha fatto notare. E di fronte al gesto di Simon Pietro che si getta alle ginocchia di Gesù dicendo: «Signore, allontanati da me, perché sono un peccatore», Francesco ha iniziato una meditazione sul come «Gesù incontrava la gente e come la gente incontrava Gesù».

Innanzitutto, Gesù andava sulle strade, «il più del suo tempo lo passava sulle strade, con la gente; poi in tarda serata se ne andava da solo a pregare». Egli, dunque, «incontrava la gente», la cercava. Ma la gente, si è chiesto il Papa, come incontrava Gesù? Sostanzialmente in «due maniere». Una è proprio quella che si ritrova in Pietro e che è poi la stessa «che aveva il popolo». Il Vangelo, ha sottolineato il Pontefice, «usa la stessa parola per questa gente, per il popolo, per gli apostoli, per Pietro»: ovvero che costoro, nell’incontrare Gesù, «sono rimasti “stupiti”». Pietro, gli apostoli, il popolo, manifestano «questo sentimento di stupore» e dicono: «Ma, questo parla con autorità».

Al contrario, nei vangeli si legge di «un altro gruppo che incontrava Gesù» ma che «non lasciava che entrasse nel loro cuore lo stupore». Sono i dottori della legge, i quali sentivano Gesù e facevano i loro calcoli: «È intelligente, è un uomo che dice le cose vere, ma a noi non convengono queste cose». In pratica, «prendevano distanza». C’erano poi anche altri «che ascoltavano Gesù», ed erano i «demoni», come si evince anche dal brano evangelico della liturgia di mercoledì 2, dove è scritto che Gesù «imponendo su ciascuno le mani li guariva, da molti uscivano anche demoni, gridando: “Tu sei il Figlio di Dio”». Ha spiegato il Papa: «Siano i demoni, siano i dottori della legge, i cattivi farisei, non avevano la capacità dello stupore, erano chiusi nella loro sufficienza, nella loro superbia».

Invece il popolo e Pietro ne avevano di stupore. «Qual è la differenza?» si è chiesto Francesco. Di fatto, ha argomentato, Pietro «confessa» ciò che confessano i demoni. «Quando Gesù a Cesarea di Filippo domanda: “Chi sono io?”» ed egli risponde «Tu sei il figlio di Dio, tu sei il Messia», Pietro «fa la confessione, dice chi è lui». E anche i demoni fanno lo stesso, riconoscono che Gesù è il figlio di Dio. Ma Pietro aggiunge «un’altra cosa che non dicono i demoni». Parla, cioè, di se stesso e dice: «Allontanati da me, Signore, perché sono un peccatore». Né i farisei, né i dottori della legge, né i demoni, «possono dire questo», non ci riescono. «I demoni — ha spiegato Francesco — arrivano a dire la verità su di lui, ma su di loro non dicono nulla», perché «la superbia è tanto grande che gli impedisce di dirlo».

Anche i dottori della legge riconoscono: «Ma questo è intelligente, è un rabbino capace, fa dei miracoli». Ma non sono capaci di aggiungere: «Noi siamo superbi, non siamo sufficienti, noi siamo peccatori».

Ecco allora l’insegnamento che vale per ognuno: «L’incapacità di riconoscerci peccatori ci allontana dalla vera confessione di Gesù Cristo». Proprio questa «è la differenza». Lo fa intendere lo stesso Gesù «in quella bella parabola del pubblicano e del fariseo nel tempio», in cui si incontra «la superbia del fariseo davanti all’altare». L’uomo parla bene di se stesso, ma non dice mai: «Io sono peccatore, io ho sbagliato». Di fronte a lui si contrappone «l’umiltà del pubblicano che non osa levare gli occhi», e soltanto dice: «Pietà, Signore, sono peccatore». Ed è proprio «questa capacità di dire che siamo peccatori» ad aprirci «allo stupore dell’incontro di Gesù Cristo, il vero incontro».

A questo punto il Papa ha rivolto lo sguardo alla realtà attuale: «Anche nelle nostre parrocchie, nelle nostre società, anche tra le persone consacrate: quante persone sono capaci di dire che Gesù è il Signore? Tante!». Ma è difficile sentir «dire sinceramente: “Sono un peccatore, sono una peccatrice”». Probabilmente, ha precisato, «è più facile dirlo degli altri, quando si chiacchiera» e si addita: «Questo, quello, questo sì…». In ciò, ha sottolineato Francesco, «tutti siamo dottori».

Invece, «per arrivare a un vero incontro con Gesù è necessaria la doppia confessione: “Tu sei il Figlio di Dio e io sono un peccatore”». Ma «non in teoria»: dobbiamo essere onesti con noi stessi, capaci di individuare i nostri errori e ammettere: sono peccatore «per questo, per questo, per questo e per questo…».

Tornando alla vicenda evangelica, il Pontefice ha ricordato come Pietro in seguito forse abbia «dimenticato questo stupore dell’incontro», quello stupore che aveva avuto quando Gesù gli disse: «Tu sei Simone, figlio di Giona, ma ti chiamerai Pietro». Tanto che un giorno lo stesso Pietro «che fa questa doppia confessione» rinnegherà il Signore. Però, essendo «umile», si lascia anche «incontrare dal Signore e quando i loro sguardi si incontrano, lui piange, torna alla confessione: “Sono peccatore”».

Alla luce di tutto questo l’auspicio finale di Papa Francesco: «Il Signore ci dia la grazia di incontrarlo ma anche di lasciarci incontrare da lui». La grazia, «tanto bella», dello «stupore dell’incontro», ma anche «la grazia di avere la doppia confessione nella nostra vita: “Tu sei il Cristo, il Figlio di Dio vivo, credo. E io sono un peccatore, credo”». (Papa Francesco, meditazione mattutina nella cappella della domus Sanctae Marthae, Giovedì, 3 settembre 2015)

Fonte: Figlie della Chiesa

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LEGGI IL BRANO DEL VANGELO

QUINTA SETTIMANA DEL TEMPO ORDINARIO

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Lc 5,1-11 Lasciarono tutto e lo seguirono.

In quel tempo, mentre la folla gli faceva ressa attorno per ascoltare la parola di Dio, Gesù, stando presso il lago di Gennèsaret, vide due barche accostate alla sponda. I pescatori erano scesi e lavavano le reti. Salì in una barca, che era di Simone, e lo pregò di scostarsi un poco da terra. Sedette e insegnava alle folle dalla barca.

Quando ebbe finito di parlare, disse a Simone: «Prendi il largo e gettate le vostre reti per la pesca». Simone rispose: «Maestro, abbiamo faticato tutta la notte e non abbiamo preso nulla; ma sulla tua parola getterò le reti». Fecero così e presero una quantità enorme di pesci e le loro reti quasi si rompevano. Allora fecero cenno ai compagni dell’altra barca, che venissero ad aiutarli. Essi vennero e riempirono tutte e due le barche fino a farle quasi affondare. Al vedere questo, Simon Pietro si gettò alle ginocchia di Gesù, dicendo: «Signore, allontànati da me, perché sono un peccatore». Lo stupore infatti aveva invaso lui e tutti quelli che erano con lui, per la pesca che avevano fatto; così pure Giacomo e Giovanni, figli di Zebedèo, che erano soci di Simone. Gesù disse a Simone: «Non temere; d’ora in poi sarai pescatore di uomini». E, tirate le barche a terra, lasciarono tutto e lo seguirono.

C: Parola del Signore. A: Lode a Te o Cristo.

Fonte: La Sacra Bibbia

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