p. Giovanni Nicoli – Commento al Vangelo del 24 Gennaio 2021

Finalmente Gesù giunge a noi. Tutto è compiuto vale a dire che la chiamata al nostro futuro è chiara. Tutto è finito ad affidarci a Gesù: questo significa l’invito a convertirci e a credere al vangelo!

“Il tempo è compiuto” semplicemente perché è giunto il tempo decisivo per la storia umana che si incarna nel disegno del Padre di potere salvare il mondo. La presenza di Gesù è la svolta decisiva per tutto questo movimento storico.

Per questo accogliere che il “Regno di Dio è compiuto” è imparare a vedere che il Regno è a servizio di tutti gli aspetti della nostra esistenza: nulla escluso. Il Regno è il desiderio del Padre che noi possiamo cercare, ricevendolo come dono. Il Regno del Padre è l’amore di Dio che, grazie a Gesù, diventa l’intuizione e l’ispirazione della nostra vita.

Gesù inizia il suo servizio al Regno nel luogo di quotidianità dove era sempre vissuto, la Galilea. Cogliere ciò che Gesù ci trasmette con la sua vita è cogliere, non il nucleo di una dottrina, quanto invece, il percorso di cammino da Lui fatto, il cammino di liberazione dalla schiavitù a cui Gesù ci chiama.

Per vivere tutto questo possiamo cogliere il fatto che è volontà del Padre che si realizza grazie a Gesù: il tempo è compiuto! Il tempo dell’attesa, grazie a Gesù, è finito. È nato il Figlio del Padre e grazie al dono di questa incarnazione possiamo cogliere come è giunto il momento in cui l’uomo può raggiungere la sua verità. Cosa è questa verità? È il Volto come luogo da contemplare, come la vetta del desiderio: potere contemplare il volto dell’amato/a. Gesù ci dice che ormai qui è il futuro, è cosa di ora, di ogni ora della nostra vita, della nostra giornata. Lui è la perla preziosa incarnata, non c’è necessità di affannarsi in vane ricerche.

Questa presenza vitale ci mostra come “il Regno di Dio è vicino”. Regno di Dio che rompe i nostri schemi, rompe le nostre certezze, rompe le nostre convinzioni, rompe il regno dell’uomo. Gesù rompe, rompe come Regno del Padre che è regno di amore gratuito, dove non ci si aspetta indietro nulla.

A questo siamo chiamati a convertirci. Al Regno del Padre siamo chiamati mediante la conversione sapendo che chi non curva si sfracella. Convertirsi non è roba da fare in chiesa o in qualche blocco sociale religioso. Convertirsi significa volgersi alla Luce che viene nel mondo come dono, Luce apparsa a noi grazie a Gesù. A questa Luce siamo chiamati ad orientare la nostra vita. Convertirsi, orientarsi a questa Luce, significa semplicemente riscoprire la bellezza e la vitalità dell’innamorarsi e del re-innamorarsi dell’Amore del Padre.

Accogliere questo dono facendoci avvolgere da Lui significa rispondere al “credete al vangelo”. Questo è il lieto annunzio: tutto di umano creato da Dio, tutto di umano, nulla di teologico come movimento teorico sull’amore. Questo non è un atto intellettuale, non è un impegno moralistico. Questo è semplicemente un aderire totalmente al Regno. Noi che tendiamo a chiuderci e a diffidare siamo chiamati a credere aprendoci e fidandoci, rischiando e lasciandoci coinvolgere dall’Altro. Credere significa essere coinvolti nell’avventura di Dio. Affidandoci all’abbraccio amorevole del Padre noi crediamo, noi ci convertiamo dalle nostre sicurezze mancanti di respiro, noi ci sentiamo familiari della casa del Padre.

La realtà, per noi, non è un ordine eterno e fisso, quanto invece una storia. Non è religione di coloro che sono sazi e soddisfatti, ma vita di coloro che tendono a qualcosa di più bello e vero sia a livello individuale che sociale. L’essere cristiani è questo: è fermento ed è una non potenza. Una storia cristiana bloccata è morte dello stesso cristianesimo. Il cristianesimo è fermento, è lievito. Il bene è via futura del bene dove chi vive per essere dalla parte del vincitore, diventa schiavo di quell’apparenza che è retroguardia di un esercito sempre in fuga.

Noi cristiani siamo spesso dei pessimisti nostalgici più pronti a ricordare il passato vincente, quando magari eravamo in tanti, piuttosto che essere per il futuro in cui diciamo di credere. Siamo costretti, così vivendo, a non trovare più concreti segni di speranza. Ci copriamo gli occhi con un gioco malvagio dove ci imbuchiamo in una pigrizia che è il nostro peccato. Neghiamo che la notte sia passata. Parliamo più della notte passata per non agire nel giorno che viene evitando di sperare e di credere con le nostre mani, con la nostra esistenza. Convertirsi significa smettere un passato per accettare l’oggi, l’oggi dove vive una possibilità.

La conversione è cosa che avvolge il nostro accogliere l’invito grazie all’apertura alla Parola. È lasciare la religione finalizzata alla propria autoaffermazione per accogliere la fede come risposta all’invito di Dio. È tempo di smettere di dire che “poiché ci siamo pentiti allora Dio viene a noi”, perché il vangelo è ben altro. Il vangelo ci porta a dire e a vivere il fatto che “il Padre è venuto a noi, per questo ci convertiamo, perché amati”.

Noi viviamo uno strano rapporto col male. Il nostro è un amore-odio che noi non vogliamo ammettere come nostra tendenza. Siamo spaventati da questa realtà per questo ricorriamo a mille stratagemmi per togliere da noi l’impressione di avere sbagliato. Ciò che a volte ci inganna è il fatto che tutto questo avviene e si manifesta come desiderio autentico di perfezione.

Per questo noi o pretendiamo di eliminare il male dalla nostra vita oppure tentiamo di ignorarlo oppure viviamo una colpa ossessiva e soffocante oppure cediamo alla tentazione di infallibilità oppure viviamo come sindrome della trave da cogliere nell’occhio del fratello. La nostra colpa che non vogliamo accettare come tale diventa via per trasferire la propria colpa e la propria penna sull’altro.

La paura del proprio peccato, spesso semplicemente negato come errore della nostra esistenza e scusato come bene quando bene non è, ci spinge a demonizzare l’altro, a divenire gente schiava della sindrome del fariseo per potersi sentire in modo scontento superiori agli altri potendoli, grazie a dio, disprezzare e condannare. Non avere il coraggio di cogliere il proprio male è dipendenza dal dovere limitarsi alla zona positiva uccidendo ogni possibilità di relazione buona sia con Dio come con l’altro.

Abbiamo bisogno di convincerci di essere migliore degli altri. Per questo usiamo la preghiera in modo falso perché non libera di riconoscere la distanza che ci separa da Dio, cosa che il giusto non accetta di fare.


AUTORE: p. Giovanni Nicoli FONTE SITO WEB CANALE YOUTUBE FACEBOOKINSTAGRAM

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