p. Giovanni Nicoli – Commento al Vangelo del 22 Giugno 2020

Se vogliamo essere beati abbiamo un comandamento a cui porre attenzione: non giudicate. Un comandamento da rivolgere verso noi stessi prima e verso il prossimo poi. La non attenzione a questo comandamento diventa, presto o tardi, un comandamento che noi rivolgiamo verso Dio stesso.

Il potere che noi vogliamo mettere in campo con le opere religiose prima e con l’uso dei beni poi (capitolo sesto di Matteo), noi lo mettiamo in campo come volontà di potere sull’altro nel vangelo odierno.

Spontaneamente, dentro di noi, noi giudichiamo e nel giudizio misuriamo l’altro col nostro metro. Quando parliamo con lui, invece di ascoltarlo, filtriamo ciò che dice con i nostri pregiudizi. Se poi parliamo di lui con altri il nostro sport preferito è il tiro al bersaglio.

Quanto del nostro conversare è un giudicare! Giudicare o discernere? Questo è il problema.

Quale è il punto di partenza, è l’altro problema. Giudicare significa separare, setacciando o vagliando. Noi giudichiamo e separiamo utilizzando il setaccio. Il setaccio trattiene ciò che è da buttare e lascia cadere ciò che è da trattenere. Così lasciamo perdere il bene e ricordiamo il male, crocifiggendo al palo dei suoi errori l’altro.

Il giudizio di Dio è un giudizio che utilizza il vaglio, il vaglio della croce. Il vaglio trattiene il bene e lascia perdere il resto. Questo è possibile solo se, con la croce, noi portiamo con Lui su di noi il male restituendo il bene.

Questo modo di giudicare, di vagliare, mi permette di vedere ciò che vede Dio. L’uomo vive o muore del giudizio altrui. Uno è come è visto: l’occhio buono è una porta di luce che accoglie e fa vivere. L’occhio cattivo è una lama di ferro che penetra e uccide.

Il mio giudizio sul fratello, giudizio che parte da me: il limite è provocato ad uscire allo scoperto da ciò che vedo nell’altro come un richiamo che usa il cacciatore per richiamare gli uccelli da cacciare, è sempre un mio male: con esso condanno Dio che ha detto di non giudicare.

Dio vede l’uomo molto buono fin dalla creazione perché nell’uomo rispecchia la sua bontà. Solo rispecchiando la nostra bontà in Lui noi possiamo vedere l’altro come buono.

In tale relazione di giudizio ciò che viene messo in campo è la mia relazione col Padre in quanto figlio e con l’altro in quanto fratello. Se mi interessa l’essere figlio e l’essere fratello non posso giudicare. Il problema non è solo sbagliare, ma è anche annullare la nostra natura. Chi non giudica salva l’altro come fratello e se stesso come figlio: è questione di priorità.

Non giudicare significa partire dalla stima anziché dalla disistima. La stima è incarnazione della paternità di Dio e della nostra figliolanza. La stima è fare all’altro ciò che voglio sia fatto a me. La stima come punto di partenza è mettere il dono della croce come vaglio per amare il prossimo facendo forza sulle sue fondamenta buone. La disistima è mettere la pagliuzza dell’occhio dell’altro come trave che blocca ogni capacità di vedere e di cogliere al di là delle apparenze ciò che realmente c’è.

Dunque il mio giudizio sull’altro condiziona negativamente l’altro. Il giudizio sull’altro inoltre si rivolge contro di me. Il mio giudizio pre-giudica l’altro e giudica me stesso: l’altro tende a diventare come io lo vedo e io sono come vedo l’altro.

Non giudicare significa essere come il Padre che accetta incondizionatamente il figlio. Non giudicare significa mettersi nella condizione di vedere il volto del Padre dentro di noi e sul volto del fratello. Col giudizio ci neghiamo questa beatitudine.


AUTORE: p. Giovanni Nicoli 
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