p. Giovanni Nicoli – Commento al Vangelo del 18 Aprile 2021

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I due discepoli che tornavano da Emmaus, narrano! Che cosa narrano? Ciò che era avvenuto: loro lo avevano riconosciuto. Avevano riconosciuto Gesù, il pane spezzato a loro donato per essere mangiato. Loro lo hanno visto e hanno ascoltato le sue parole non dimenticando da dove partivano: dalla loro convinzione che tutto era finito male e che nulla si era avverato. Loro camminavano allontanandosi da Gerusalemme, sicuri che ciò che stavano facendo era l’unica eventualità per loro possibile: abbandonare ciò che era avvenuto perché Gesù era morto. Il loro movimento era dato da un fuoco interiore che li spingeva a fare quanto stavano facendo, lo stesso fuoco che ha iniziato in loro a bruciare in modo diverso. Vi ricordate quanto era avvenuto quando Gesù era vivo? Vi ricordate quanto è avvenuto che ha scatenato la sua morte? Fate memoria di quanto ancora avviene oggi per noi. Un fuoco che continua a bruciare anche se cambia ciò che viviamo e ciò che avviene.

Un fuoco che abbiamo dentro che è Lui vivo, non più solo il ricordo di quanto accaduto ma la memoria di quanto ora ancora avviene. Non possiamo cedere alla tentazione di una nostalgia. Ricordiamo che Lui respirava in noi, un respiro che non uccideva il dubbio ma lo valorizzava come dono di vita. Lui aveva parlato, Lui aveva spezzato il pane e tutto questo aveva messo in movimento Lui nelle nostre vene: sangue donato, sangue bevuto, sangue interiorizzato, fatto nostro.

Loro, i due discepoli raccontano e gli Undici sono presi da paura. Quando anche loro vedono Gesù credono di vedere un fantasma. Lui, che era lì con noi, dopo la sua morte ora era lì di nuovo? Ora sembra più vivo che mai: come è possibile? E la paura, la paura ci sconvolge. Siamo sconvolti dalla possibilità di poterci volere ancora bene: ma come è possibile? Questo bene ci chiede di rileggere tutto quanto avvenuto, per ritrovarci a credere in un amore che per noi era cosa morta, un amore che avevamo dato per morto.

La paura sembra più chiara ancora: abbiamo paura di ricominciare. Questo amore che ci provoca e stimola ci sconvolge di paura e la paura ci porta a credere che la vita che riparte può essere ancora più dolorosa.

Forse è vero che noi crediamo che Lui è risorto, ma non vogliamo esagerare, non vorremmo esagerare, saremmo costretti, temiamo, di tradire. Eppure può essere utile credere, eppure può sembrare cosa esagerata, cosa che non si può provare. Eppure il fare i conti con la morte di un amore ci porta a temere, ad avere paura di tornare a vivere. Ci vorremmo credere, ma temiamo questo nostro eventuale credere.

Sarebbe più facile ed accoglibile il ricordare. Saremmo più credibili ai nostri occhi e allo sguardo degli altri, se ci limitassimo a ricordare un amico, magari un profeta, magari uno in gamba. Ma se Lui fosse veramente un fantasma, tutto sarebbe più semplice. Invece? Invece siamo chiamati a farci risorgere e per fare questo ci vuole del sano coraggio. Un coraggio che non dipende dal riconoscimento e dalla accoglienza degli altri. Il coraggio ci fa risorgere o meglio, ci rende disponibili a vivere la risurrezione come dono di vita. Fare questo non è cosa con grandi risonanze e grandi successi, ma è un esporsi un’altra volta alla vita senza necessità di riscontro, senza ingenuità, senza successo, semplicemente partendo da una realtà che può essere di fallimento.

Per questo con gli Undici guardiamo i piedi e le mani di Gesù, semplicemente perché le ferite non sono cose da dimenticare, quanto invece esperienza di Lui che abbiamo sentito e possiamo sentire in quelle ferite aperte. Ferite che non cedono alla tentazione della soluzione disumana che spesso pretendiamo. Le ferite tramite anche il dolore sono come il parto di una donna: doloroso e bellissimo allo stesso tempo. Le mie ferite, come le Sue, sono cosa da vivi. I tagli come il sangue come la carne massacrata è cosa da vivi, è cosa di Lui vivo e che danza ora con me nelle mie ferite: roba da chiamati a risorgere. Non siamo chiamati ad illuderci per mostrare che siamo gente non ferita dalla vita. La nostra ferita è luogo dove trovare Lui che si lascia toccare e che parla a me con la sua carne e con la sua vita.

Così, spezzare il pane e respirare con Lui, Lui che sente il nostro profumo, noi che riconosciamo il suo modo di fare cantare il pane spezzandolo, Lui che riconosco al profumo del vino, suo sangue dono di Lui a noi.


AUTORE: p. Giovanni Nicoli FONTE SITO WEB CANALE YOUTUBE FACEBOOKINSTAGRAM