Monastero di Bose – Commento al Vangelo del giorno – 21 Ottobre 2020

“Tenetevi pronti!”, o come traduce qualcuno: “Diventate preparati!”. Già, perché forse pienamente pronti non lo saremo mai. È un cammino. Eppure dal Vangelo ci arriva il richiamo forte e ripetuto alla vigilanza, al divenire giorno per giorno più attenti e aderenti all’oggi. 

Ma a che cosa ci chiede di essere pronti? Ad accogliere la venuta del Figlio dell’uomo, sembra ripeterci anche oggi. Ebbene, come posso accogliere io oggi la venuta del Signore?

Gesù parla di servi e di amministratori che attendono il ritorno del loro signore. Di come vivono questo tempo di attesa. Di come si spendono nel loro esserci, nel loro essere a servizio. O di come possono abbassare il livello di attenzione, lasciandosi andare e lasciandosi vivere. Loro come ciascuno di noi.

La buona notizia oggi comincia con un’immagine spiazzante: l’arrivo di un ladro in casa. Come paragonare l’arrivo del Figlio dell’uomo a quello invasivo, spaventoso, stravolgente di qualcuno che viene a portarci via quel che conserviamo di più prezioso nelle stanze della nostra casa? Forse non è tanto sul ladro in sé che dobbiamo soffermarci, quanto sul suo arrivo improvviso, e inatteso, nel buio della notte – di ogni nostra notte. Un arrivo che scuote le nostre vite. Che ci riporta a quel che siamo più che a quel che possediamo.

Ma allora potremmo tornare a domandarci: Che cosa attendo? Attendo qualcuno? Attendo un qualche compimento, una qualche pienezza? Attendo di poter amare e lasciarmi amare? E, ancora più in radice, io attendo? Non nel senso passivo, statico, immobile di chi sta a guardare che cosa accade intorno a sé. È un’attesa molto attiva e dinamica quella di cui parla Gesù. E infatti parla di un amministratore che dà “la razione di cibo a tempo debito”, quindi che è attento e sollecito alle necessità di ciascuno, non a se stesso o a un qualche compimento slegato dalla realtà. È un’attesa gravida di speranza e anche di coraggio, perché l’attesa pone davanti alla difficoltà della nostra solitudine, proprio per trovare il senso, la ragione, la sostanza nell’essere-con gli altri e a servizio degli altri che mi sono affidati, a cui io sono affidata.

“Attendere è l’infinito del verbo amare”, diceva don Tonino Bello. Ad-tendere è essere protesi in avanti, essere in qualche modo sospesi perché sempre in movimento, è “rivolgere l’animo a” qualcuno, a qualcosa, ad Altro. E allo stesso tempo è essere disponibili ad accogliere quel che verrà dagli altri, un gesto o un saluto nel modo che magari non avremmo immaginato, o sperato. È lasciarsi sorprendere, lasciarsi amare. Con la consapevolezza che è questa la volontà del Signore dei servi.

Il servo, o meglio chi si riconosce tale, sa che ha ricevuto tutto. Il suo essere è un dono. “Gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date” (Mt 10,8). È un dono esigente, certo, ma nel momento in cui ci viene “richiesto molto di più” avremo modo di scoprire, per grazia, la sovrabbondanza che ci è stata affidata, le possibilità che mai avremmo immaginato potessero essere state seminate in noi.

sorella Silvia


Fonte

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