Monastero di Bose – Commento al Vangelo del giorno – 20 Ottobre 2020

Gesù oggi ci rivolge una parola di incitamento e sorprendente promessa, che dà l’identikit del discepolo: un servo che, intento al proprio compito, attende il ritorno del suo padrone (in greco: “kyrios”, signore), per scoprire poi di essere lui stesso destinatario di cura e attenzione da parte del suo signore.

I pochi versetti sono densi di richiami scritturistici: “le vesti strette ai fianchi” – così era solito averle il lavoratore per non esserne impedito nello svolgimento dei propri compiti o chi si metteva in viaggio per camminare più speditamente –, rinviano alla cena pasquale dell’Esodo (Es 12,11); “le lampade accese” rimandano alla parabola delle vergini che attendono nella notte il ritorno dello sposo (Mt 25,1-12). 

Servi, dunque, semplici servi (cf. Lc 17,7-10), a immagine di colui che è stato in mezzo ai suoi nella disposizione del servo – “Io sto in mezzo a voi come colui che serve” (Lc 22,27) –, chiamati ad aspettare il Signore, il cui ritorno è dato per certo. 

Responsabilità del servo è di essere trovato pronto per aprire subito la porta di casa e mettersi a disposizione del padrone. È un’attesa operosa, che implica azioni concrete e coinvolge tutto il nostro essere, mani, cuore, mente, perché si tratta di intuire e prevedere le necessità del padrone. L’attesa non ci proietta solo in un tempo futuro, ma ci radica nella realtà.

Sembrano atti dovuti quelli del servo, obbligati dalla sua condizione sociale, ma la prontezza delle sue azioni lascia intravedere una relazione che va al di là del rapporto specifico di lavoro.

L’attesa può prolungarsi nel tempo – forse il padrone arriverà nel mezzo della notte, quando i nostri occhi stanchi lottano per restare aperti –, e pertanto richiede da parte del servo la capacità di resistere, di rimanere, di attraversare la notte: la “nostra” notte, quelle situazioni che ci paiono difficili e senza via di uscita in cui a volte capita di trovarci. “Restare” è l’invito che Gesù aveva rivolto ai suoi discepoli durante la notte del Getsemani: “Restate qui e vegliate con me” (Mt 26,38). 

Il Signore continua a bussare alla nostra porta e allora attendiamolo “cingendo i fianchi della mente, ponendo tutta la speranza in quella grazia che ci sarà data quando Gesù Cristo si manifesterà” (1Pt 1,13), cioè tenendo desta la nostra intelligenza per cogliere i tenaci segnali di futuro. Se si manca di lucidità, corriamo il rischio di adagiarci nell’illusione di sentirci già appagati e non afferriamo le occasioni che egli ci offre nel nostro oggi.

Beati quei servi che il Signore troverà ancora svegli, “vigilanti”: pronti, lì al loro posto. Beati perché sono stati capaci di perseverare, di non venire meno nel cammino e di continuare a credere nella fedeltà del Signore che sostiene la nostra attesa. Beati perché sono loro stessi destinatari delle cure di un padrone che si fa loro servo, cingendosi le vesti, mettendoli a tavola e passando a servirli. 

Il Signore prende tempo per noi e questo può sembrarci inaudito. Ogni frammento del nostro tempo è custodito dalla fedeltà del suo amore. Il tempo dell’attesa si dilata nel tempo dell’amicizia e della comunione vissute attorno a un banchetto destinato a durare per sempre. 

fratel Salvatore


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