Monastero di Bose – Commento al Vangelo del giorno – 18 Novembre 2020

Il testo del vangelo presenta l’incrocio di due narrazioni che si intersecano, di cui una è una parabola, l’altra probabilmente, fa riferimento a un fatto storico accaduto a quel tempo.

Ci soffermiamo sull’urgenza: Gesù è vicino a Gerusalemme e vi è l’attesa del Regno come imminente. In questo tempo che precede l’Avvento, più che mai ci appare necessario ritornare a ciò che è essenziale per la nostra vita.

Un uomo nobile, in procinto di essere incoronato re, distribuisce ai suoi servi una quantità di denaro uguale per ciascuno. Al ritorno chiede conto a ognuno.

A ognuno è data una somma di denaro, non c’è nessuno escluso, né ci sono privilegi. A ognuno è fatta fiducia. L’urgenza nella narrazione sottolinea tale azione con poche parole, tutto accade in sequenza rapida.

Al ritorno, incoronato re, egli chiama i servi; solo di tre è narrato l’esito della mina data.

I primi due hanno messo a frutto il denaro e ora ne presentano i risultati: la mina ha fruttato in varia misura.

Il terzo restituisce: “Ecco la tua mina” (v. 20); è rimasta a lui estranea, la definisce “tua”, tenuta chiusa in un fazzoletto, come cosa da non toccare, con cui non coinvolgersi, che non tocca la sua vita in alcun modo nonostante la fiducia ricevuta.

L’idea che il terzo servo ha del suo Signore è buia e imperiosa, non solo esigente ma anche fuori misura: “Mieti dove non hai seminato” (v. 21). È un’immagine segnata dalla paura che può attanagliare e soffocare la vita e la possibilità di futuro.

Idea che nulla ha a che vedere con lo sguardo di fiducia che il Signore ha posato su ognuno, affidando a ciascun servo una mina e accogliendo i frutti da ognuno secondo una misura diversa, dettata dalla storia di ogni persona.

È l’effetto di un’idea di fedeltà distorta e priva di libertà, della libertà che è data a ogni uomo e ogni donna. 

Il passaggio cruciale è la scoperta che la fedeltà è percepire la mina affidata non come un impegno obbligante e soffocante, ma come una possibilità di esprimere in libertà il proprio coraggio e la propria intraprendenza, senza paure, senza temere giudizi gravosi, consapevoli dei tempi di ognuno e quindi senza paragoni, mai portatori di senso.

Percepire che il “mio” e il “tuo” sono devianti dal senso della vita, tanto in una vita comune quanto in una vita familiare. Possono scavare fossati che dividono, che pongono una barriera insormontabile che impedisce di giungere insieme a gioire per i risultati ottenuti da ognuno, grandi o piccoli che siano, ma tutti preziosi agli occhi di Dio.

Certo vi è la parola finale del re: “Toglietegli la mina e datela a colui che ne ha dieci” (v. 24). Ma se riflettiamo, di fatto non gli è tolto niente, perché il servo già non la considerava sua.

La mina è data a chi ha deciso di accoglierla, di percepirla come bene per la sua vita, come possibilità per la sua esistenza e non come costrizione e peso gravoso.

Il testo finisce con Gesù che prosegue davanti agli altri verso Gerusalemme.

E’ ormai vicino e l’urgenza rende duro il suo volto, a tratti anche le sue parole e le sue azioni.

La misericordia è fatica, non è a basso prezzo, chiede perseveranza e coraggio, è frutto della fiducia ed è, comunque e sempre, un dono.

fratel Michele


Fonte

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