Monastero di Bose – Commento al Vangelo del giorno – 13 Ottobre 2021

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Oggi il vangelo ci viene incontro scuotendoci: ci ritroviamo nel bel mezzo di parole severe scagliate da Gesù. A chi? Perché? E perché sono state riportate nei vangeli? 

Il tono delle parole di Gesù ricorda quello dei profeti, quei profeti che cercano disperatamente di svegliare il popolo dall’infedeltà, di farlo ritornare dal suo essersi allontanato dal Signore Dio; quei profeti che cercano di riportare il popolo a riconoscersi appunto come popolo, persone legate tra loro e legate a Dio da un vincolo di alleanza.

I detti che qui Gesù pronuncia pare vengano da contesti diversi ma vengono raccolti dall’evangelista Luca e posti nel contesto di un pasto a casa di un fariseo. Questo il contesto.

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L’espressione “guai”, che rimanda al genere letterario di tradizione profetica, viene tradotta da alcuni con “infelici”, da altri con “ahimè”. In ogni caso qui Gesù ha parole forti per un “voi”: i farisei di allora, o il dottore della Legge, ma è un “voi” che interpella ciascuno, chiunque abbia il coraggio di lasciarsi raggiungere da una parola che smaschera, che rende manifesta la mera ricercatezza esteriore, riportando l’attenzione all’interiorità, al senso profondo. Al cuore del senso originario di ogni precetto della Legge ci sono “la giustizia e l’amore di Dio” (v. 42). Perché all’origine del senso c’è il desiderio di Dio. E il desiderio di Dio è sempre desiderio di bene per noi. Anche attraverso la Legge, donata a custodia del bene degli uomini, non per la loro schiavitù.

Il primo rimprovero è rivolto ai farisei e riguarda l’ipocrisia. Gesù aveva appena additato la ricerca dell’esteriorità (“purificare l’esterno del bicchiere e del piatto”) che tradisce un cuore malato, “pieno di rapacità e malvagità” (Lc 11,39). Il rapporto tra intenzioni profonde e visibilità ostentata diviene visibile non solo in se stessi ma anche nel rapporto con gli altri e con Dio. Ora Gesù rivendica l’atteggiamento minuzioso di chi pesa il milligrammo di cui privarsi, non più come dono per una buona condivisione ma, pare, per sentirsi legittimato a consumare indisturbati tutto quel che resta. Non sono le erbette a determinare la vita bensì “la giustizia e l’amore di Dio”, da cui può derivare ogni comportamento. Se apparteniamo a Dio, se orientiamo il nostro cuore a Dio, il nostro sguardo cambia.

Arriva poi il rimprovero sulla vanità, sulla brama di farsi vedere, di farsi riconoscersi giusti, e buoni.

È allora il momento dello studioso della Legge che si sente ferito nell’orgoglio e interviene: così “insulti anche noi” (v. 45). Gesù non indietreggia, anzi rincara la dose. Chi è troppo attaccato alla Legge si lascia possedere da un rigorismo vuoto, da una ricerca di perfezionismo… richiesto comunque solo agli altri. Sono gli altri, non i (presunti) detentori degli insegnamenti del Signore, a dover imparare, a dover portare i “pesi” (v. 46) che la Legge esige. Gli studiosi di ogni tempo, nessuno escluso, neanche noi, rischiano di mettere sulle spalle degli altri il “cosa si deve fare”.

E noi da cosa ci lasciamo sfiorare? Che cosa prendiamo in mano responsabilmente? Ci lasciamo raggiungere dalla lucidità di Gesù?

sorella Silvia


Fonte

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