Gesuiti – Commento al Vangelo del giorno, 14 Aprile 2020

Che cosa resta, quando arriva la parola fine? Possiamo quasi vederla, Maria di Màgdala, raggomitolata, covare il dolore dell’assenza, perdere pezzi uno dopo l’altro: a quest’uomo morto lei deve la vita, ma ecco che questa vita le sfugge di nuovo. Ha degli oli profumati, ma è se stessa che versa, tutto quello che prova, sulla soglia di quell’abisso, di questo vuoto: lui non c’è più, d’un tratto lo realizza… lui non c’è più.

Ma ecco un uomo che la chiama donna. Tutta la vita di Maria è stata un “chi cerchi?” e Gesù la spinge, sì, a continuare a cercare, ma aprendo gli occhi: non si è accorta che quel sepolcro è diventato intorno a lei un giardino, sta continuando a cercarlo nel posto sbagliato. E non lo riconosce finché non la chiama per nome.

Dare un nome è chiamare all’esistenza. Nel vuoto il Signore parla, sussurra il nostro nome, ci insegna a pronunciarlo di nuovo sillaba per sillaba, come lo pronuncia chi ti ama profondamente. Ecco, Maria si volta una seconda volta, questa è la sua vera conversione: non ha più bisogno di trattenerlo a sé, lascia finalmente andare anche la sua ferita, non ha più paura dell’assenza, non ha più paura di vivere. Lo riconosce, è il suo Maestro, si riconoscono, si ritrovano.

Maria non è più lì al sepolcro, è fuori, a cercare i suoi fratelli per consegnare la sola cosa che le resta: il nome del Signore, di colui che sta al centro del suo cuore, che le ha insegnato il dono di sé. Questa fine è un inizio: Cristo risorto è la gioia incontenibile che ora anima i passi svelti di Maria, prima apostola.

Caterina Bruno


Fonte

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