don Pasquale Giordano – Commento al Vangelo del 9 Maggio 2020

La fede vera si traduce in opere che sporcano le mani

Sabato della IV settimana di Pasqua

«Signore, mostraci il Padre e ci basta» è la richiesta di Filippo, uno dei Dodici. Questo apostolo era già apparso sulla scena perché aveva raccolto la richiesta dei Greci che chiedevano di «vedere Gesù» (Gv 12,21). In quella occasione Gesù parla per la prima volta dell’ora che è giunta, quella nella quale il Figlio dell’uomo sarà manifestato nella sua gloria. Si tratta del primo annuncio esplicito della passione intesa come la manifestazione della gloria di Dio. La piccola parabola del seme chiarisce il senso dell’evento annunciato: il seme caduto nella terra deve morire per portare frutto. Così la morte non è più uno strumento del principe di questo mondo attraverso il quale egli vorrebbe tenere per sé i morti, ma con il sacrificio di Gesù, diventa la via di passaggio dal dominio del maligno alla signoria di Dio. Morire non significa annullarsi, ma donarsi per generare nuova vita. Gesù aggiunge: «Se uno vuole servire me, mi segua e dove sono io là sarà anche il mio servitore. Se uno serve me, il Padre lo onorerà» (Gv 12, 26). Per vedere Gesù e conoscerlo bisogna andare dietro a lui fino alla croce, essere sepolti con lui nella morte ed essere risuscitati dal Padre. In altri termini Gesù richiama alla necessità di vivere ogni giorno il nostro battesimo che ci fa figli di Dio. Concretamente questo che significa? Significa vivere la fede non come una semplice formulazione di concetti astratti, ma renderla visibile attraverso le opere. Come il chicco di frumento caduto in terra se non muore rimane solo, così la fede se non è partecipazione al sacrificio di Gesù sulla croce rimane sterile e inutile. Dunque, non basta professare la fede ma bisogna renderla visibile attraverso le opere. Attraverso di esse mostriamo il volto di Gesù, amico e salvatore degli uomini, come nel Crocifisso Risorto si manifesta lo splendore del Padre. 

A ragione san Giacomo ci ricorda: «A che serve, fratelli miei, se uno dice di avere fede, ma non ha le opere? Quella fede può forse salvarlo?» (Giac 2,14). Qualcuno può illudersi che dicendo qualche parola buona espleta il suo servizio di buon cristiano! La fede sporca le mani, ferisce, fa perdere «peso», cioè può compromettere la nostra immagine. Una fede che ci lascia integri è una falsa fede, oltre che dannosa, a noi e agli altri. La fede deve portarci a farla seguire da opere di servizio così come la fede di Gesù, intesa come adesione alla volontà del Padre per cui i due diventano uno, lo porta al sacrificio estremo della sua vita, lo conduce ad amare i suoi che sono nel mondo fino alla fine. 

All’uomo, mendicante di amore, non bastano le catechesi, gli incontri, le prediche, ma egli necessita dell’essenziale, che non appare quasi mai come qualcosa di piacevole per chi lo deve offrire.

Davanti alla prospettiva del sacrificio anche Gesù è spaventato: «Adesso l’anima mia è turbata; cosa dirò? Padre, salvami da quest’ora? Ma proprio per questo sono giunto a quest’ora! Padre, glorifica il tuo nome» (Gv 12,27-28). Gesù ci insegna a pregare il Padre nella prova e nel turbamento che suscita l’ora del servizio estremo, del sacrificio per amore, dell’opera della fede: sia santificato il tuo nome. Con questa espressione, che tante volte affiora sulle nostre labbra, noi chiediamo al Padre di mostrarsi attraverso le nostre opere di carità soprattutto quelle che non ci piacciono oppure il cui effetto è la solitudine, l’isolamento, l’incomprensione, l’ingratitudine, la calunnia. Quando le nostre opere di carità hanno come conseguenza la perdita di qualcosa, vuol dire che sono quelle in cui Dio sta operando. Dal nostro corpo segnato dalle ferite della fatica non apprezzata, dal lavoro non riconosciuto, dal servizio non accettato, fluisce la grazia di Dio che sana e che salva.

Auguro a tutti una serena giornata e vi benedico di cuore! 


Commento a cura di don Pasquale Giordano
FonteMater Ecclesiae Bernalda
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