don Antonio Savone – Commento al Vangelo del 8 Ottobre 2020

Chissà cosa avranno visto i discepoli per ritrovarsi a chiedere a Gesù: Signore, insegnaci a pregare? Intanto – cosa non scontata – hanno visto che anche il Figlio di Dio pregava: si alzava presto al mattino, passava le notti in preghiera, sentiva il bisogno di rimanere da solo. Non lo sentivano pregare ma lo vedevano pregare. Qualcosa di diverso illuminava il suo volto e, probabilmente, con quella loro richiesta, avrebbero voluto scrutare ciò che dava uno spessore altro al vissuto del loro maestro. Era come se quei momenti custodissero un segreto che essi avrebbero voluto carpire.

E, in realtà, Gesù non tiene per sé quel segreto cominciando col dire anzitutto che pregare non è frequentare un luogo, rispettare un orario, usare una tecnica piuttosto che un’altra: pregare non è legato allo stare in ginocchio o allo stare in piedi, a mani giunte o a braccia allargate. Nulla di tutto questo, anzitutto. Pregare è, invece, varcare una soglia, quell’unica soglia senza la quale non si ha accesso all’esperienza della preghiera: la soglia dell’immensa fiducia in Dio dal quale sappiamo di essere sempre accolti. Varcare la porta del sentirsi a casa, quella casa di cui condividi sogni, progetti, desideri, necessità, difficoltà. Puoi chiedere perché senz’altro egli dona; puoi cercare perché certo egli si fa trovare; puoi bussare perché senz’altro egli apre; puoi andare sempre da lui perché egli non si spazientisce mai.

Se accetti di varcare quella soglia basta chiamarlo per nome: Padre. Come a ricordare a Dio il vincolo di tutela che un giorno si è assunto nel volerci alla vita. Un vincolo che non viene mai meno – almeno da parte sua – neppure quando l’angoscia dovesse fare capolino e il tormento della croce scatenare in noi la paura dell’abbandono.

Varcata quella soglia – dice Gesù – scoprire che il volto di quel padre è un volto amico. Capisce la preghiera chi capisce l’amicizia. All’amico chiedi di starti vicino quando le tue ruote girano lente, quando hai bisogno di un supplemento di vita, quando l’olio della tua lampada si sta per spegnere. All’amico, generalmente, non chiedi delle cose; chiedi invece il tempo, il sognare insieme, lo scambio di gioia, il conforto dell’affetto. Incontrare l’amico significa redimere anche le giornate più tristi. L’amico ti fa più umano. Dio ti fa più umano, dice Gesù.
Se qualcuno di voi ha un amico, e va da lui, e gli dice…

Tre verbi ci danno la struttura della preghiera: avere, andare, dire. Si tratta di tre verbi che indicano tre movimenti precisi: una relazione, uno spostamento, che significa uscire da sé per andare verso l’altro, una comunicazione. Quando hai un amico e vai da lui cosa gli dici?
Amico, dammi tre pani, perché mi è arrivato un amico…

L’amico che cammina nella notte e bussa non chiede per sé ma per un amico che ha camminato nella notte. Nella notte c’è un’unica bussola: quella dell’amicizia. La preghiera crea relazioni di fiducia, in cui al sospetto subentra l’accoglienza e perfino la notte è popolata non da paure ma da voci di amici. Un mondo non fatto di passi perduti o di strade che si smarriscono perché senza recapito, ma un mondo fatto a partire da una geografia del cuore. La preghiera è mettere in relazione presenze amicali. Di fronte all’amico non ti vergogni della tua povertà: non ho nulla da offrirgli. Anche se non hai nulla sai di essere ricco di una amicizia che ti fa muovere i passi nella notte.
La preghiera è andare ad aprire le porte di Dio per riceverne il pane dell’amicizia e spezzarlo a coloro che bussano alla nostra casa e fare festa insieme. Il pane serve per vivere, l’amicizia per avere un motivo per vivere.

Se non gli darà il pane per amicizia, glielo darà per la sua sfrontatezza…, cioè per la sua mancanza di paura, di timore, di vergogna. Glielo darà perché il suo amico si è liberato dal timore di importunare, perché l’amore scaccia il timore (1Gv 4,18). Glielo darà non perché è scocciato, ma perché ammira l’amico, perché è fiero di essere amico di un uomo capace di quelle piccole pazzie che solo l’amore ispira.
Ecco perché la preghiera non è mai un rimanere sempre a casa compiaciuti del fatto di avere un Padre come amico. Da essa bisogna uscire attraverso la porta dello sguardo nuovo su quanti ti stanno attorno. Aver chiamato Dio col nome di Padre ti rende responsabile di relazioni di fraternità con quanti incontri. In quella casa, se l’incontro col Padre è stato vero, si apprende che è possibile stare nella vita solo se si è in grado di coniugare i verbi al plurale: donaci il pane, perdona i nostri peccati, non ci indurre in tentazione. Verbi al plurale perché in quella casa si apprende anzitutto che pregare vuol dire condividere. Pregare è avere il senso della premura. È il senso della premura e della cura che misura la nostra capacità di pregare o meno, non anzitutto l’osservanza di una tecnica di preghiera.


AUTORE: don Antonio Savone
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