don Antonio Savone – Commento al Vangelo del 27 Settembre 2020

La faccia o il cuore? La forma o il contenuto? E noi in mezzo, a decidere se fidarci di ciò che ci viene chiesto o, piuttosto, recalcitrare risentiti. Accade per quanto riguarda le cose di Dio come accade nelle cose che riguardano le nostre amicizie, le nostre relazioni, i nostri affetti. Salvare la faccia o rimetterci la faccia?

L’immagine è ancora quella della vigna e del padrone che dopo aver assoldato operai a tutte le ore – come ci veniva ricordato domenica scorsa – alla fine decide di coinvolgere anche i figli. Se al mondo si viene senza averlo deciso, non ci si rimane se non decidendo come. Un modo non vale l’altro. Quel gran sognatore che è il Padre desidererebbe  che avessimo a cuore quello che Egli ci affida, perché quella che noi chiamiamo “realizzazione” passa attraverso il fare nostro ciò che sta a cuore al Padre.

Ci sono momenti in cui senza l’apporto di tutti è a rischio la buona riuscita di ciò che c’è in gioco: il vino, in questo caso. E il vino evoca gioia, allegria, felicità, spensieratezza, pienezza, compimento. Vorrai mica tirarti indietro? Vorrai far mancare il tuo contributo senza il quale si rischia di pregiudicare la serenità di tanti?

Eppure, di fronte alla proposta di un coinvolgimento personale, c’è chi pur di salvare la faccia, con atteggiamento sussiegoso, dà il suo assenso nozionale (per dirla con Newman) ma poi finisce per ritirare il suo assenso reale. Della serie: dice sì e fa no. Da non dimenticare che la parabola è rivolta a destinatari ben precisi: capi dei sacerdoti e anziani del popolo. È rivolta, cioè, a chi quasi per un diritto-dovere di primogenitura, spetterebbe avere a cuore le sorti di quella vendemmia e, invece, a fronte di una religiosità di facciata, finisce per non accogliere un reale coinvolgimento, finisce, parafrasando Paolo, per non “avere gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù”. Altre sono le logiche che li animano, altre le priorità rivendicate. Quel modo di rivelarsi di Dio, proprio non va giù: salvata la facciata, il cuore rimugina altri pensieri. Si diventa compiacenti ma incapaci di condividere qualsiasi cosa con questo Dio: tutto, semmai, è letto in chiave di un eventuale profitto personale. Non ci è capitato, talvolta, di “fare i bravi” verso i nostri genitori o educatori per poi estorcere qualcosa che ci stava a cuore? Di quello che ci veniva chiesto non ci interessava affatto, però, come si dice, “Parigi val bene una messa”. Eppure c’è una bella differenza, infatti, tra “fare i bravi” ed “essere bravi”.

Per contro, invece, c’è chi in modo affatto velato – anzi, a volte in modo pure violento e scontroso, comunque irriverente e capriccioso – preferisce percorrere altri sentieri, battere altre strade, perseguire logiche diametralmente opposte sbattendosi ben presto la porta di casa dietro senza troppe storie e, tuttavia, non ha mai spento il desiderio di qualcosa di vero, di bello, di unico. Tanto è vero che nonostante le amare esperienze annoverate, come d’incanto si ritrova ad accogliere quello che il Signore suggerisce. Era proprio quello che il Signore registrava: il rifiuto di chi avrebbe dovuto riconoscerlo e accoglierlo, l’accoglienza, invece, di chi sembrava essere lontano anni luce da quella sua proposta. Per questo la conclusione non tarda ad arrivare: “i pubblicani e le prostitute vi passano avanti nel regno di Dio”. La precedenza, cioè, non è data da quel diritto di primogenitura che ci ostiniamo a vantare perché fa parte del nostro pedigree religioso; diritto di sorpasso ce l’ha non chi ha salvato l’immagine ma chi non ha lasciato spegnere il cuore. “L’uomo guarda l’apparenza, il Signore guarda il cuore” (1Sam 16,7): sa che, talvolta, dietro certa ritrosia, dietro una disobbedienza consapevole, c’è ancora tanta disponibilità, mentre dietro tanta rigidità c’è doppiezza, malanimo, disaffezione, incapacità a lasciarsi coinvolgere fino in fondo.

La differenza la fa un verbo: pentirsi, ossia, iniziare a pensare le cose in un modo diverso, ritornare sui propri passi, non sentirsi arrivati.

Tutto era partito da un invito a riflettere e a esporsi: “Che ve ne pare?”, ossia, “siete capaci di mutare opinione?”.

Il rischio è dietro l’angolo: c’è una ipocrisia che finisce per ergersi a giudice dei peccati altrui e una rigidità che è indisponibilità a guardare se stessi. Certa nostra voglia di fare gli epuratori non radica, forse, in una inconfessata incapacità a chiamare per nome le nostre fragilità? Il culto della propria persona e di ciò che ruota attorno ad essa finisce per diventare l’unico criterio di discernimento. E ciò che viene a minare un tale sistema è letto solo come una minaccia: per questo, gli interlocutori di Gesù finiranno per scagliarsi contro tanto da volerlo eliminare.

Nel regno di Dio si entra per conversione, non già per diritto acquisito, non per meriti sul campo (che se ci sono restano comunque un buon corredo) ma per grazia. Sono degni di farne parte tutti coloro che non sono sordi alla chiamata che Dio continua a rivolgere a noi.

 “Se non hai un amico che ti corregga, paga un nemico perché ti renda questo servizio” (Pitagora). Non ci accada quello che accadde alla generazione di Gesù: di vedere la salvezza senza riconoscerla, di aver di fronte le proprie mancanze e non comprenderle, di essere redarguiti e non accorgersi che Gesù parlava proprio di loro.


AUTORE: don Antonio Savone
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