don Antonio Savone – Commento al Vangelo del 2 Aprile 2021

Ci avevano provato. Più volte. Più volte, infatti, i discepoli – Pietro in testa – avevano provato a dissuaderlo da una prospettiva che potesse anche solo lontanamente includere l’eventualità di una fine ignominiosa. Ma Gesù non si è tirato indietro. Fino all’ultimo. Non poteva accadere diversamente, e non già per chissà quale cieco destino ma per il solo fatto che aveva scelto di lasciarsi abitare da una passione che ostinatamente – anche di fronte alla più solenne smentita, quella dell’abbandono e del rifiuto proprio da parte dei suoi e di coloro per i quali si trovava a vivere quello che stava soffrendo – rimetteva al centro l’uomo, rimetteva al centro me, te, ognuno di noi.
A vincere non è il mio abbandono di lui ma la sua passione per me. E non che non abbia sentito il turbamento per ciò che stava per accadere: ora l’anima mia è turbata… ma non ha indietreggiato. Le grandi acque (le acque della morte) – canta il Cantico il Cantici – non possono spegnere l’amore.

Stasera, certo, i nostri sono solo balbettamenti: come dire l’indicibile di un Dio che muore per chi lo ripudia e lo configge ad un palo? Per questo ho chiesto a due figure il cui ruolo molto ha giocato nella vicenda del Maestro di accompagnarci nella contemplazione di quanto stiamo celebrando. Rileggere con i loro occhi ma ancor più con i loro gesti la passione del Signore.
In quel quadro notturno che caratterizza la passione di Gesù, due figure emergono con più evidenza rispetto ad altre: Giuda e Pietro. Sono gli unici due ad essere chiamati per nome esplicitamente durante la passione. Certo, la loro vicenda si conclude diversamente, eppure è molto simile. Una vicenda di paura, di rifiuto, di rinnegamento dell’amico e di se stessi, della propria dignità. Due poveri uomini incapaci di vincere il male e perciò soccombono sotto il peso della loro fragilità. È una vicenda di amici che al contempo amano e tradiscono, proprio come accade a ciascuno di noi quando il buio fa capolino sulla nostra esistenza.

Ben poco separa Pietro da Giuda, un’ombra appena o, meglio, li separa solo una lacrima. Pietro è la roccia, ma una roccia porosa, non impermeabile, la roccia che si lascia lavare dal pianto dopo aver peccato e dopo essere stato raggiunto dallo sguardo di misericordia del Maestro. Non così Giuda, indurito fino in fondo anche nei confronti di se stesso e del proprio male. Non vede un perdono possibile per lui ma solo un albero cui appendersi.

Gesù non fonderà la Chiesa sulla durezza implacabile di Giuda ma su Pietro, cioè sull’uomo che ha dolorosamente compreso sulla sua pelle il valore della misericordia. Ciò che rende possibile una comunità cristiana non è il giudizio inappellabile e tantomeno il segnare puntigliosamente i confini del bene e del male, ma la consapevolezza del proprio limite, quella di chi si lascia vincere da gesti di misericordia, si lascia ridestare dal canto del gallo e accetta di lavare col pianto la macchia della propria umiliazione.
Chi è Giuda? È uno dei Dodici, non certo un estraneo e tantomeno un infiltrato. È uno scelto da Gesù, chiamato da lui. Era stato anch’egli mandato dal maestro per annunciare la buona notizia del Regno, era stato mandato a guarire, a scacciare i demoni. Ma in questo momento non è più Gesù all’origine del suo cammino nella notte. Giuda ha cambiato riferimento, ha cambiato Maestro e Signore, e si ritrova sì mandato ma mandato con una gran folla dai sommi sacerdoti e dagli anziani del popolo. Quando Gesù lo aveva mandato era partito senza bastone, ora ha ribaltato la situazione della sua vita: si ritrova in compagnia di una folla armata di spade e bastoni. Era stato mandato come agnello in mezzo ai lupi: ora si ritrova dalla parte dei lupi, dalla parte cioè di chi attacca, colpisce, ferisce, uccide. Eppure anche nel momento in cui tradisce Gesù lo chiamerà amico.

Chi è Pietro? Non lo sa neppure lui chi egli sia. Sarà necessario il canto di un gallo perché Pietro possa ridestarsi e sperimentare una liberazione, lui che si trova sempre più lontano da se stesso proprio mentre si affanna a negare di conoscere quell’uomo. Solo al canto del gallo sarà in grado di capire chi è lui e chi è il suo Signore. Pietro scoprirà di non essere quello che credeva di essere: la paura avrà la meglio su di lui tanto da portarlo a mentire, a se stesso anzitutto e poi agli altri. Avrà bisogno di imprecare e giurare: la sua è una parola debole, per questo dovrà assumere un tono gridato, come se il volume della voce potesse dare spessore di verità a parole terribilmente vuote. Pietro dovrà scoprire che le parole vere nascono dal pianto, non quello di chi ha la lacrima facile ma quello di chi scopre di avere un cuore ferito per aver sbagliato.

Giuda è colui che bacia, Pietro colui che piange. Il bacio attesta tenerezza, amore, desiderio di intimità. Ma per Giuda si trasforma in desiderio di possesso e di dominio: per questo Giuda finisce per esprimere con un gesto quello che poi la vita sta per smentire: Giuda, con un bacio tradisci il figlio dell’uomo? Come a dire: attento alla verità dei gesti che poni, poni gesti veri.
Avrebbe potuto dare un altro segnale per indicare che ci si trovava di fronte al Maestro: perché non un fischio o un grido o il dito puntato? Sceglie il bacio, ultimo disperato segnale d’amore prima che entrambi muoiano, entrambi appesi ad un legno. E il Maestro lo riconosce: riconosce quel gesto d’amore. Tant’è che risponde con: amico! Porterà senz’altro con sé sulle labbra il sapore di quel bacio e negli orecchi l’ultima parola regalatagli dal Maestro: amico!

Il pianto di Pietro è un pianto di liberazione. Finalmente è un pianto sincero dopo tanta menzogna. Il rude Pietro, l’uomo tutto d’un pezzo, non si vergogna più, consegnandosi al pianto come all’unica possibilità di esprimere il suo amore: non ha altro da offrire se non il suo fallimento e la sua fuga. È il pianto che lo prepara a ricevere il perdono. Credo sia il dono da chiedere in questo venerdì santo, il dono del dispiacere, il dono di un cuore trafitto, il dispiacere per il male compiuto. Il non passare attraverso questa consapevolezza dolorosa fa rimanere ai margini della profondità dell’amore. Se domenica scorsa dicevamo che per capire il come e quanto sono amato devo guardare a quanto l’altro ha sofferto per me, credo sia altrettanto vero che è necessario diventare consapevoli di quanto io possa aver fatto soffrire.
Lo sappiamo: la tenerezza e la commozione viaggiano tra gli occhi e le labbra: Pietro ha avuto il coraggio di permettere che ciò che due labbra avrebbero potuto esprimere fosse racchiuso in un rivolo di lacrime.


AUTORE: don Antonio SavoneFONTE CANALE YOUTUBETELEGRAM

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