don Antonello Iapicca – Commento al Vangelo del 4 Aprile 2020

IL DOLORE DELL’INNOCENTE ACCOGLIE OGNI NOSTRO DOLORE PER TRASFORMARLO IN UN SEGNO DI VITTORIA

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La sofferenza degli innocenti, perché? “Non esiste nessun interrogativo più incalzante per gli uomini” (Hans Urs Von Balthasar, Incontrare Cristo). La Quaresima ci ha accompagnato alle soglie di questo mistero, nel quale anche la nostra vita è immersa; come un tesoro che brilla all’aprirsi dello scrigno, il Vangelo di oggi ci annuncia che esiste un perché anche per gli aspetti più bui della nostra esistenza. La profezia con cui Caifa decreta la sua morte, infatti, illuminando il senso della vita e della missione di Gesù ci raggiunge con la stessa luce. Proprio chi insidia la nostra vita e ha deciso di ucciderci, chi ci fa del male gratuitamente, proprio il nemico, è il profeta che illumina di giustizia l’ingiustizia. Le sue parole piene di rancore, invidia, gelosia e odio, l’oltraggio al nostro onore, quelle che ci umiliano nell’insignificanza, proprio quelle parole svelano il senso nascosto nel male che si abbatte su di noi. Il mistero di un amore che si carica del peccato altrui, del male e della morte, per salvare, redimere, risuscitare. “Il mistero, nessun mistero quand’è tale, ossia quando procede dalla trascendenza di Dio che s’incontra con la finitezza dell’intelletto umano, «divarica» la coscienza: o la ragione si rifiuta e cade nell’ateismo cioè nel buio dell’apparente evidenza, e perciò contraddittoria, delle apparenze oppure sale con la fede nell’apertura della Verità incommutabile” (Cornelio Fabro). 
Le labbra di Caifa dischiudono quest’apertura alla Verità incommutabile. Egli sussurra a Gesù il dovere da cui è afferrata la sua missione. Le parole del Sommo Sacerdote cercano e trovano quell’Uno solo che può salvare il Popolo e i Popoli di ogni tempo. La sua profezia incontra l’ardente desiderio, la “santa concupiscenza” di Gesù di celebrare e compiere la sua Pasqua. L’astuzia politica, mondana, mista a gelosia, rancore, invidia del Sommo Sacerdote secondo la carne, intercettano la mitezza, la misericordia, l’amore dell’unico e autentico Sommo Sacerdote secondo lo Spirito: “A noi occorreva un tale Sommo Sacerdote: santo, innocente, senza macchia, separato dai peccatori, elevato sopra i cieli… Cristo, apparso come Sommo Sacerdote dei beni futuri… non mediante il sangue di capri e vitelli, ma in virtù del proprio sangue entrò nel santuario una volta per tutte, ottenendo un riscatto eterno… e purificherà la vostra coscienza dalle opere morte per servire il Dio vivo!” (Eb. 7,26. 9,11-14). Il sangue di Gesù era proprio quello che occorreva per riunire i dispersi, perché il Popolo potesse tornare a vivere la propria vocazione, quella per la quale era stato liberato dal giogo del Faraone: servire il Dio vivo! Il sangue di Gesù profetizzato da Caifa, voluto e ottenuto da Caifa. E’ il male stesso infatti che grida al bene di distruggerlo! E’ il nemico che, uccidendo, implora inconsciamente alla sua vittima la grazia del perdono. Il male può solo lanciarsi verso la propria distruzione. Ma ha come bisogno di una roccia, di una barriera su cui infrangersi. 
E la trova in Cristo. Lo descrive magistralmente Peguy: “Ha ben saputo quel che faceva quel giorno, mio figlio che li ama tanto. Quando ha messo questa barriera fra loro e me. Padre nostro che sei nei cieli, queste tre o quattro parole. Questa barriera che la mia collera e forse la mia giustizia non supereranno mai. Beato chi s’addormenta sotto la protezione dei bastioni di queste tre o quattro parole” (C. Peguy, Il mistero dei santi innocenti). Un solo Figlio perché tutti tornino ad essere figli. Per questo, nelle parole di Caifa risplende l’ultima profezia, che riannoda il filo di tutte le altre e annuncia il compimento della Storia della Salvezza. Ma i farisei e i sommi sacerdoti non avevano capito nulla, non avevano considerato bene i fatti: «Voi non capite nulla e non considerate come sia meglio che muoia un solo uomo per il popolo e non perisca la nazione intera». Il testo originale greco ci aiuta a comprendere: “non conoscevano e non calcolavano” che proprio i segni compiuti da Gesù lo stavano consegnando alle loro mani per salvare la Nazione. Non entravano in relazione (conoscevano) con quegli accadimenti al punto di tradurli in una volontà che si facesse azione concreta (considerare). “Conoscere”, così come “considerare”, “stimare”, per un ebreo non è mai qualcosa di semplicemente intellettuale; ogni attività del pensiero è strettamente legata all’agire.
In Dio parlare significa compiere. Caifa rimprovera i farisei e gli altri sacerdoti di non saper leggere gli avvenimenti per tradurli in un progetto e compierlo. Non sanno interpretare i segni per escogitare un piano di salvezza per la Nazione. Può sembrare scandaloso, ma Caifa ha parlato in nome di Dio, ha reso presente la verità divina e ha indicato il cammino da seguire. Ed è esattamente quello che i due verbi greci che compaiono nel testo significano. Nella profezia di Isaia “il Servo di Dio fu considerato (annoverato) fra i malfattori” (Is. 53,12), dove, nella traduzione greca dei LXX è usato lo stesso verbo pronunciato da Caifa. In questo passivo vi è la volontà di Dio, il “disegno”, il “calcolo” di Dio che colpiva il Servo al posto nostro, per i nostri peccati! Dio aveva considerato bene di far ricadere su uno solo il peccato di molti: “Noi tutti eravamo sperduti come un gregge, ognuno di noi seguiva la sua strada; il Signore fece ricadere su di lui l’iniquità di noi tutti… ha consegnato se stesso alla morte ed è stato annoverato fra gli empi, mentre egli portava il peccato di molti e intercedeva per i peccatori. (Is. 53). Ed è quanto, nel vangelo di Luca, Gesù annuncia circa la sua missione: “Perché vi dico: deve compiersi in me questa parola della Scrittura: E fu annoverato tra i malfattori” (Lc. 22,37). Così, quando appare Caifa nella nostra vita, occorre prestare ascolto alle sue parole. Sono la profezia che ci indica la verità divina e ci indica il cammino da seguire. Quando sull’orizzonte della nostra storia si profila l’ingiustizia e il nemico si muove contro di noi, è il momento di ascoltare la Parola di Dio racchiusa in questi avvenimenti, pur rimanendo parola umana nell’assurdo di un nemico che la incarna. Ma è una Parola che si appoggia alla nostra fede e ci invita a guardare a quello che ci attende: nell’onda che ci viene incontro per travolgerci è sigillato il tesoro più prezioso, l’amore infinito di Dio che attende di farsi carne in noi per la salvezza di ogni uomo. Dobbiamo ammettere di non aver capito nulla e di non aver considerato la nostra esistenza. Non conosciamo e non accogliamo la storia che Dio ci dona, non calcoliamo le occasioni che essa ci offre. Ma deve compiersi in noi la stessa parola che ha dovuto compiersi in Gesù. Siamo frutto del suo riscatto, ogni nostra cellula, ogni nostro istante, tutto di noi è stato ed è bagnato dal suo sangue benedetto. Dispersi nei peccati, dissipati nei vizi, con le vite prive di senso, siamo stati riscattati dal suo amore, dalla sua vita offerta per tutti noi. 
Morire per – hypér, è questo il senso primo ed ultimo della nostra vita, il valore che la sostiene e la rende feconda; calcolare, considerare, riconoscere negli eventi che ci contrastano, nelle ingiustizie, nel volto del nemico, nel male che ci coinvolge, la volontà di Dio preparata perché la nostra vita dia frutto. Il dolore innocente che scaturisce dalla banalità del male, trova nelle parole del Sommo Sacerdote il senso nascosto che solo la fede è capace di decifrare. La fede che nasce dall’esperienza, nella propria vita, del senso che ha avuto il sacrificio di Gesù, l’innocente che ha attirato su di sé il castigo diretto a noi colpevoli: “Ecco cosa ha raccontato loro mio figlio. Mio figlio ha svelato loro il segreto del giudizio stesso. E adesso ecco come mi sembrano; ecco come li vedo; Ecco come sono obbligato a vederli… E davanti allo sguardo della mia collera e davanti allo sguardo della mia giustizia. Si sono tutti nascosti dietro di lui (C. Peguy, Il mistero dei santi innocenti). Ci siamo nascosti dietro le braccia distese del Figlio crocifisso, e da lì dietro, abbiamo incontrato lo sguardo misericordioso del Padre. Questa esperienza ci conduce a conoscere e a calcolare secondo Dio, con il suo stesso sguardo ogni evento, e a diventare, uniti a Cristo, un segno del suo amore infinito: “È una grazia per chi conosce Dio subire afflizioni, soffrendo ingiustamente; che gloria sarebbe infatti sopportare il castigo se avete mancato? Ma se facendo il bene sopporterete con pazienza la sofferenza, ciò sarà gradito davanti a Dio. A questo infatti siete stati chiamati, poiché anche Cristo patì per voi, lasciandovi un esempio, perché ne seguiate le orme… dalle sue piaghe siete stati guariti.
Eravate erranti come pecore ma ora siete tornati al pastore, e guardiano delle vostre anime” (1 Pt. 2, 21-25). Nell’offerta di Cristo, nella sua consegna per tutti gli uomini, nel compimento misterioso di questo amore attraverso i secoli nei martiri noti e sconosciuti, nelle piaghe della Chiesa Corpo di Cristo che si carica con il peccato del mondo, nell’interminabile teoria dei piccoli fratelli e discepoli di Gesù che, silenziosamente, recano impresse le stigmate del Servo di Yahwè, ogni dolore innocente ritrova il suo senso. Nell’innocenza del Figlio consegnato alla morte, ogni sangue innocente diviene il tesoro più prezioso che vi sia su questa terra. In esso è racchiuso il sangue di Cristo, che, con ogni innocente, porta sulle spalle e nella carne il peccato delle generazioni, per condurre ogni uomo al Cielo. “Che mistero la sofferenza di tanti innocenti che portano su di sé il peccato di altri, l’incesto, una violenza inaudita; quella fila di donne e bambini nudi verso la camera a gas, e quel dolore profondo di uno dei guardiani che dentro al suo cuore sentiva una voce: mettiti nella fila, e va con loro alla morte; e non sapeva da dove gli veniva… Dicono che dopo l’orrore di Auschwitz non si può più credere in Dio. No! Non è vero, Dio si è fatto uomo per prendersi Lui la sofferenza di tutti gli innocenti. È Lui l’innocente totale, l’agnello condotto al macello senza aprire bocca, colui che porta su di sé i peccati di tutti” (Kiko Arguello).

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