don Antonello Iapicca – Commento al Vangelo del 19 Aprile 2019 – Gv 18, 1-19, 42

OGGI LO SPOSO SCRIVE E FIRMA CON IL SUO SANGUE IL DOCUMENTO CON CUI UNISCE A SE’ LA SUA SPOSA

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L’angoscia di Gesù che si innalza al Padre come una preghiera sulla quale cola il sangue che solo l’amore autentico può versare. Gesù, lo Sposo che ama la sposa sino alla fine, e la sposa addormentata, incapace di sostenere il peso che suppone l’amore. Tutta la Passione del Signore si compie nel Getsemani, dove la sua natura umana è consegnata alla volontà del Padre. Prostrato sulla terra della quale tutti siamo fatti Gesù firma anche oggi la sua Ketubah con cui, accogliendo la volontà del Padre che ci ha creati per Lui, si impegna a fare di noi la sua sposa. Nel matrimonio ebraico la Ketubah era infatti un documento (Ketab – scritto) nel quale erano riportate le condizioni fondamentali imposte al marito dalla Torah. Esse erano parte integrante del matrimonio perché, accettandole, il marito si impegnava a proteggere la sua sposa. Come il “mohar” biblico, la Ketubah stabiliva il cosiddetto “prezzo della sposa”, pagato il quale il futuro sposo accoglieva nella sua casa la promessa sposa impegnandosi a provvedere alla sua vita e a quella della prole. Si comprendono allora le parole di San Paolo: “non sapete che… non appartenete a voi stessi? Infatti siete stati comprati a caro prezzo” (1 Cor. 6,19-20) e “Cristo ha amato la Chiesa e ha dato se stesso per lei, per renderla santa, purificandola per mezzo del lavacro dell’acqua accompagnato dalla parola, al fine di farsi comparire davanti la sua Chiesa tutta gloriosa, senza macchia né ruga o alcunché di simile, ma santa e immacolata (Ef 5, 24-26). Con il suo sangue versato per lavare ogni nostro adulterio Gesù ci ha rigenerati come vergini caste scelte dal Padre per un unico Sposo. Con lo stesso sangue ha vergato il documento con il quale ci ha accolto nella sua intimità impegnandosi a proteggerci e a provvedere per la nostra vita. Il racconto della sua Passione schiude dinanzi alla sua sposa la Ketubah scritta e firmata dallo Sposo. Ogni istante, ogni parola, ogni gesto costituisce una lettera insanguinata che testimonia l’autenticità e il valore infinito del suo amore per ciascuno di noi. Perché l’amore non è un sentimento, ma l’impegno duro e spesso cruento della fedeltà. Ogni colpo di flagello, ogni insulto, ogni sputo, e poi i chiodi, le spine, la Croce, l’aceto, l’asfissia, la solitudine e l’estremo abbandono, sono alcune tra le condizioni che Gesù ha onorato per pagare il prezzo del nostro riscatto. Gesù ci è stato fedele provvedendo alla nostra salvezza caricandosi di ogni nostra infedeltà. Non ci ha giudicato né ripudiato. Ci ha amato, sempre, passo dopo passo, dolore dopo dolore, sino alla fine, sino alla tomba che ha decretato il nostro fallimento. Gesù ha amato una sposa adultera, infervorata per gli amanti, narcisisticamente ripiegata a contemplare il proprio io divenuto dio. Gesù ha sposato ogni centimetro della nostra storia registrata, attimo dopo attimo, peccato dopo peccato, negli eventi, nelle parole e nei personaggi della sua Passione. Ma questa è stata il parto doloroso delle nozze decise nel grembo del Gestemani. In esso Gesù ci aveva liberamente accolti sperimentando in anticipo il sudore freddo dell’agonia; in quel giardino aveva pregustato il dolore che suppone amare una sposa adultera sin dentro il suo tradimento più grave, quello che l’ha condotta a uccidere il suo Sposo. Nel Getsemani dello Shemà compiuto, Gesù ha sperimentato nel suo cuore, nella sua mente e nella sua carne il sacrificio che avrebbe significato pagare il prezzo per onorare la Ketubah con cui legarci a Lui. Gesù sapeva, ha tremato assediato dall’angoscia, ha sudato il sangue che avrebbe versato dopo poco, e ha accettato con amore infinito la Ketubah che il Padre gli consegnava: “Abbà, Papà, tutto è possibile a te… Ma credimi, è duro il calice di queste nozze. E’ amaro come il fiele e aspro come l’aceto, come la sposa con cui mi chiami a berlo. Se fosse possibile passerei oltre ma… ma l’amore non è seguire la carne e i suoi desideri; non è fare secondo la mia volontà umana. L’amore è accogliere la sposa che tu hai preparato per me, senza riserve, gettando la mia carne nell’obbedienza che mi fa Dio con te”. E Gesù ha preso dalle mani del Padre il Calice dell’Alleanza per colmarlo con il suo sangue, nel quale avrebbe celebrato e benedetto le nozze con noi sua sposa. Perché, come dicono i rabbini, “Non si celebrano i Kiddushin (matrimoni) altro che sul vino”. Secondo la Legge ebraica gli sposi non potevano vivere insieme sino a che lo sposo non avesse consegnato la Ketubah alla sposa mentre venivano recitate le benedizioni del fidanzamento. Per consegnarla a ciascuno di noi Gesù ha dovuto camminare nella Passione, salire sulla Croce e scendere nel sonno della nostra stessa morte. E’ lì che ci viene a destare anche in questa Pasqua, per consegnarci il suo amore incorruttibile nel quale ci sposa eternamente. E’ vero che nel Gestemani delle scelte ci siamo tutti addormentati. La paura di amare sino in fondo ci ha appesantito il cuore. Questa è la sposa di Cristo, tu ed io, sopraffatti dall’angoscia perché ancora schiavi nell’Egitto della menzogna (“Egitto” in ebraico significa proprio “angoscia”). Ma Gesù scende anche oggi nel giardino a cercare la sua sposa, si immerge nel suo stesso sonno di morte per lottare al suo posto, vincere e così destarla alla vita che non muore. Accade nel Mistero Pasquale ciò che avvenne durante la Creazione di Eva plasmata dalla costola di Adamo dormiente; come accade durante l’alleanza tra Dio e Abramo caduto in un sonno profondo mentre il fuoco divino passava sotto le carcasse degli animali squarciati. La Ketubah, infatti, è un contratto unilaterale nel quale sono registrati i doveri dello sposo verso la sposa. In questa Pasqua dobbiamo solo essere noi stessi: addormentati nei tanti nostri pensieri e atteggiamenti, ma con lo stesso cuore della sposa del Cantico dei Cantici, desto come la brace scoppietta sotto la cenere del sonno, nell’attesa dello Sposo per il quale siamo stati creati. Sì, non siamo nati per buttare la vita nella tomba dei fallimenti! Siamo nati per incontrare l’Amato del nostro cuore, l’unico che ha scritto e firmato la Ketubah capace di dare senso e compimento alla nostra vita. E lo Sposo verrà, come già sul Sinai “la Shekhinah di Dio è uscita incontro al popolo come uno sposo che esce incontro alla sposa” (Mekhilta al libro dell’Esodo) per consegnarle la Torah, la Ketubah celeste con la quale Dio si impegnava condurre nella vita il suo Popolo. E tutti, come Israele, l’abbiamo stracciata nell’infedeltà all’Alleanza. Per questo viene di nuovo lo Sposo per consegnarci la Ketubah compiuta nella sua carne. Essa certifica che il matrimonio ha avuto davvero luogo tra due sposi ben identificati, tu e Lui, la Chiesa e il suo Signore; su di essa sono registrati la data e il luogo della celebrazione, questa Pasqua nella tua storia. Coraggio fratelli, perché la Passione con cui Gesù ha compiuto la Ketubah che ci fa sua sposa sarà la nostra proprietà più preziosa, il pegno e il memoriale a cui la sposa si appoggerà ogni giorno per camminare nella vita nuova sotto la protezione dello Sposo. L’ha compiuta per noi e la compirà in noi scrivendo nei nostri cuori la Legge, per renderci spose simili a Lui, nella fedeltà e nell’amore crocifisso che giunge anche al nemico.

Fonte e approfondimenti

MEDITAZIONE SUL VENERDI’ SANTO

Dalla Passione di Gesù

“Giuseppe d’Arimatea… chiese a Pilato di prendere il corpo di Gesù. Pilato lo concesse… Vi andò anche Nicodemo… e portò una mistura di mirra e di aloe di circa cento libbre. Essi presero allora il corpo di Gesù e lo avvolsero in bende insieme con oli aromatici, com’è usanza seppellire per i giudei” (Gv 19,38-40). “Giuseppe, preso il corpo di Gesù, lo avvolse in un candido lenzuolo e lo depose nella sua tomba nuova che si era fatta scavare nella roccia: rotolata poi una gran pietra sulla porta del sepolcro se ne andò… Il giorno dopo, che era Parasceve (venerdì, giorno in cui si facevano i preparativi per il sabato), si riunirono presso Pilato i sommi sacerdoti e i farisei dicendo: “Signore, ci siamo ricordati che quell’impostore disse, mentre era vivo: dopo tre giorni risorgerò. Ordina dunque che sia vigilato il sepolcro fino al terzo giorno, perché non vengano i suoi discepoli, lo rubino e poi dicano al popolo: È risuscitato dai morti. Così quest’ultima impostura sarebbe peggiore della prima! Pilato disse loro: Avete la vostra guardia, andate e assicuratevi come credete. Ed essi andarono e assicurarono il sepolcro, sigillando la pietra e mettendovi la guardia” (Mt 27,59-66).
 
 
Meditazione
 
Immaginiamo per un momento che cosa sia accaduto quel giorno. Un tumulto si impossessa di quel mattino di festa, quel Galileo che parla bene da commuovere, che fa miracoli da far pensare al Messia, ora è trascinato fuori della città come un impostore e un provocatore, lì dove si giustiziano i delinquenti. Una morte atroce e poi un rantolo della terra nel rantolo delle carni, segni sconvolgenti, e poi più nulla, il silenzio, e un corpo deposto in una tomba.
 
E’ qui che oggi desideriamo fermarci, nell’ultimo capitolo della Passione di Gesù. Ci siamo genuflessi all’estremo sospiro di Gesù, abbiamo seguito la traiettoria della lancia vergare il suo fianco, abbiamo desiderato quell’acqua e quel sangue, abbiamo pianto con Maria abbracciando il suo corpo esanime, ed è stata l’ultima emozione.
 
Ora tutto tace. Gesù è disteso sul marmo gelido del sepolcro, riposa nell’oscurità, non vede nessuno, nessuno lo vede; una pietra lo separa dalla vita, da questa vita nostra, dai sogni e dalle speranze, dai pensieri, dalle famiglie, dal lavoro, anche dai nostri mal di denti. Sino a qualche istante prima si era appassionato per le vicende della nostra storia, e tutti noi, come seguendo il filo di un racconto incalzante, ci eravamo appassionati a Lui, afferrati da quell’amore così sconvolgente; sino a un istante fa ci eravamo sentiti amati, avevamo provato dolore per Lui e per i nostri peccati, la sua lancia aveva dilaniato anche le nostre coscienze; abbiamo pianto, commossi da tanto dolore e tanto male.
 
E ci eravamo visti, protagonisti negativi, nel fluire esagitato di quegli eventi malvagi, come nella nostra storia di tutti i giorni, disseminata degli stessi frammenti raccolti nelle ore di Passione di Gesù. Abbiamo accettato la nostra dura realtà di peccato, ci è sorto dentro il desiderio d’esser perdonati, una fitta nel petto, la compunzione madre della conversione.
 
Però ora abbiamo fretta che sia domenica, che sia resurrezione. Gli eroi vincono sempre, anche quando perdono. E vogliamo che sia vittoria, vittoria subito. E scivoliamo, veloci e distratti, sul sabato santo. In fondo sappiamo che dietro l’angolo di quella passione c’è il lieto fine. E’ un film che abbiamo visto migliaia di volte, e ogni volta ci ha rapito, scuotendoci il cuore e rigandoci il volto di lacrime e commozione; ma l’aver visto l’epilogo, ci priva di qualcosa, ci protegge dallo scendere davvero in fondo al baratro del non essere.
 
Sembra paradossale, ma sapere che tanto poi Lui risorgerà ci immunizza dal sabato santo. Conoscere il risultato finale della partita, anche se in bilico sino all’ultimo secondo, ci anestetizza inconsapevolmente, e fa della tomba una sala d’aspetto d’aeroporto, tappa anonima e obbligata di ogni viaggio: sappiamo che cosa abbiamo lasciato, conosciamo la meta, quella sala è nient’altro che un istante da sfogliare riviste o da approfittare per dormire un pochino.
 
Ma, tra il dolore crocifisso e la gioia risorta, c’è il nulla del sabato santo. E’ vero che le chiese in questo giorno sono disadorne; è vero che è l’unico giorno dell’anno in cui non si celebrano messe. E’ vero che il tabernacolo è desolatamente vuoto. E se Lui non c’è neanche la chiesa ha senso – dove pregare, a chi pregare se tutto è spoglio e vuoto? – e infatti, al passare rapido delle ore mattutine, preti, sacrestani e fedeli sono di nuovo indaffarati a farla bella e splendente per accogliere il colpo di scena che ci ridia presto quello che abbiamo perso, che ci rassicuri e ci tolga da questo impaccio da sabato santo.
 
Il nulla ci disturba, è ciò che più ci inquieta; il silenzio vero, l’oscura notte che soffoca lo sguardo ci dilania. Proviamo un istante a chiudere gli occhi, e sprofondare nel silenzio di parole e sentimenti. E’ la morte! Tutto il resto della Passione di Gesù ci è familiare, lo catturiamo con i sensi, possiamo gestirlo tra pensieri, sentimenti, risposte; anche il male, in fondo, si muove e ci muove, la Via Crucis è pur sempre un cammino e ci sembra d’essere vivi nonostante tutto, ma alla XIV stazione siamo stanchi di tanto dolore, e, mentre vi giungiamo, abbiamo già in mano le chiavi della macchina per tornare a casa.
 
Quel corpo esanime, il freddo emaciato di quel volto, e quel buio senz’aria, è la claustrofobia del cuore e dell’anima, ed è insopportabile. Eludere la tomba, sgusciarvi frettolosamente per riemergere quanto prima alla luce di Pasqua sarebbe tradire Cristo, e tradire irrimediabilmente noi stessi.
 
Questo giorno fatto di sepolcro, questi tre giorni secondo il cuore della fede, sono essenziali, decisivi quanto asfissianti, e non vi resistiamo, l’apnea della tomba ci spacca i polmoni, cerchiamo la luce e l’aria per vedere e respirare: la morte non ci può appartenere, sembra fatta solo per essere sfuggita. Ma la morte esiste. Esiste oggi, perché è il capolinea di ogni cosa, relazione, giornata. Non può essere diversamente, rigettarla significherebbe fare di Cristo e ella sua vicenda una caricatura, peggio, un’impostura.
 
Nulla è stato creato per la morte, nelle creature non c’è veleno di morte ci insegna la Sapienza della Scrittura; ma a causa di satana il nemico, la morte ha preso il suo posto nel mondo, e ne fanno esperienza coloro che gli appartengono. E non appartengono a lui tante, tantissime cose di noi? Non portiamo le sue tossine sin dal seno materno? Non le porta il mondo a lui sottomesso, e la natura che geme in attesa di liberazione?
 
Senza ipocrisie e illusioni a buon mercato, la morte è l’amaro in cui è immersa la vita; si muore soli, esattamente come si nasce, quando ti tagliano quel cordone e devi vedertela da te. Non vi sono biberon per dissetare l’anima, non esistono flebo per nutrire lo spirito: la porta della vita è identica a quella della morte, stretta, un abito su misura, e chissà quando il sarto ha preso le tue misure, quelle di oggi, e di ieri e di domani, e nessun altro che te può varcare quella soglia.
 
Nel Mistero Pasquale non c’è fretta. La morte scende realmente a prendere possesso di Gesù, non si è trattato di una visita lampo, di un raid aereo. No, Gesù è stato tre lunghi giorni in quell’anfratto di solitudine. Tre giorni, spazio ricorrente nella Scrittura, anello misterioso che lega il tempo della sofferenza alla manifestazione prodigiosa di Dio, preludio necessario al suo intervento salvifico. Tre giorni in compagnia della morte. I tre giorni più importanti. Quei miracoli, quelle parole, quelle torture, quella Croce, senza il sepolcro dal quale destarsi vittorioso, non ci avrebbero salvato. Sarebbe stato un amore sino al limite, non un amore sino alla fine.
 
Invece Gesù, sin dalla nascita è stato come risucchiato da quella fenditura nella Roccia, dal sepolcro di Giuseppe. Lì doveva scendere, lì era la fine del suo amore sino alla fine; quell’ultimo respiro infondeva a tutto il compimento. Un alito debole, impercettibile, e dentro tutta la vita di Dio, come una benedizione che scendeva, si adagiava umile, invisibile: quel “Tutto è compiuto!” apriva il cammino al suo corpo senza vita, pervadeva quella tomba preparandola ad accogliere quella morte unica e santa. Un refolo divino interdetto all’occhio furbo dell’uomo; un mistero di vita che esplode nella morte, nessuna scienza potrà mai spingere quel bottone ad innescarlo. E’ sceso lì, in quel sepolcro, il gamete di Dio, come nel seno di una donna, e ogni tomba, da quell’istante, s’è fatta Sposa dell’Altissimo.
 
Il Figlio di Dio, uguale a Dio, Dio in Persona, doveva donarsi senza riserve a colei che tutti ci imprigiona; doveva passare da lei, la morte, per giungere a noi, suoi schiavi. Doveva immergersi nella nostra realtà perché ci accorgessimo di Lui accorgendoci della morte che portiamo dentro; doveva sposarci in quel sepolcro per riportarci nel Paradiso.
 
Il sepolcro che oggi contempliamo, riflesso della nostra vita, donata per essere giardino e vissuta come un deserto. Ma è proprio lì, come il chicco caduto in terra di cui nessuno si accorge, che è deposta la vita. La sterilità diviene fecondità, l’impotenza è trasformata in potere senza barriere, la morte si volge in seno benedetto di vita. Il sepolcro nello scrigno della letizia che non ha fine. Quei tre giorni, lunghi, amari, oscuri e dolorosi, quei tre giorni nei quali la vita è sottratta e sembra non esservi più speranza, quei tre giorni sono i più fecondi.
 
Nessuno sapeva quello che stava accadendo dietro quella pietra, nessuno, forse neanche noi stessi, sa quale mistero inaudito si stia compiendo in noi. Ora, esattamente in questa situazione concreta, che forse durerà ancora molto, il tempo necessario e perfetto, forse sino all’ultimo nostro respiro. Nessuno poteva immaginare che in quel sepolcro nella sperduta terra di Giudea, in un giorno come tutti gli altri, per il contadino egiziano, per la prostituta romana, per il navigatore fenicio di molti secoli prima, per il derelitto che vaga nella metropoli del terzo millennio, per ciascuno di noi, in quel sepolcro si giocava la salvezza, la felicità eterna.
 
L’evento decisivo della storia si consumava nel chiuso di un sepolcro, lontano anni luce dai riflettori dei media, dalla gloria mondana, come lontano dalla frenesia quotidiana in cui scorre la vita di tutti. Mentre il mondo prima, durante e dopo quei tre giorni di sepolcro, ha continuato a fare le stesse identiche cose, in quella gola di morte, Lui vinceva proprio la morte e ogni peccato. Mentre gli occhi vedevano un sepolcro e una pietra a sigillarlo, Lui ci ridava la vita.
 
E’ questo il cuore di questi giorni, è qui che è seminata la Pasqua. Nel suo sepolcro, che è il nostro. La vita che oggi ci è data, quest’apnea priva d’aria e pace e felicità, questi tre giorni che sembrano non passare mai, sono già la Pasqua, indispensabile passaggio alla pienezza della vita. Santa solitudine, benedetta angoscia, beata sofferenza del tempo fecondo che prepara la vita eterna. Assorbiti oggi nel fallimento di Gesù, uniti alla sua morte, soli con Lui e invisibili per il mondo, si compie in noi pienamente la vita che ci è donata. Non manca nulla alla nostra Pasqua, a quest’oggi che è già Pasqua.
 
Occorre solo restare, pazienti, nel sepolcro. Abbandonati all’abbandono di Dio, il paradosso che ci ha redenti. Con Cristo consegnare tutto, senza riserve, lasciare che il Padre si prenda tutto, ma proprio tutto, che ci faccia morire su una Croce, che ci deponga in un sepolcro, che ci chiuda nel buio del suo abbandono, della sua assenza, alla solitudine totale. Come ha fatto con suo Figlio. 
E lì, in quel nulla che ti crolla addosso come una pietra, scoprire il volto sconosciuto di Dio, quello sguardo che nessuno ha mai potuto vedere scolpito sul volto di quel suo Figlio crocifisso: lo sguardo di Gesù rivolto al Padre nell’ultimo, decisivo abbandono, consegna ciascuno di noi al perdono che è l’amore più grande, che fa di ogni lontananza la prossimità più intima, come la luce della Pasqua che si fa strada nel duro spessore della roccia.
 
Sieda costui solitario e resti in silenzio,
poiché egli glielo ha imposto;
cacci nella polvere la bocca,
forse c’è ancora speranza;
porga a chi lo percuote la sua guancia,
si sazi di umiliazioni.
Poiché il Signore non rigetta mai…
Ma, se affligge, avrà anche pietà
secondo la sua grande misericordia.
 
(Lam. 3,28-32)

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