d. Giampaolo Centofanti – Commento al Vangelo del 8 Maggio 2020

La “pastorale” di Gesù è una continua scoperta per chi ritorna sempre con la vita al vangelo. Gesù non parla continuamente di vizi capitali da estirpare in un perfezionismo formale. Ma tende a far scoprire ad ogni persona di essere compresa, amata, perdonata. Di poter respirare libertà a pieni polmoni. Fin dai suoi 40 giorni nel deserto si vede che la chiave della vita di Gesù è il rapporto con il Padre, nello Spirito. La fiducia nell’amore del Padre è la grazia che lo aiuta a non cadere nelle fasulle consolazioni materiali, affettive ed egocentrate. Sensualità, possesso, superbia? Vi è questa possibilità, il demonio è superbo. Ma nell’uomo spesso si può trattare di ferite, di oscurità involontarie. Gesù come uomo è una creatura che riposa nell’amore del Padre non su una propria perfezione da energumeno. Vediamo la stessa cosa quando parla della preghiera, della elemosina e del digiuno. Non sono cose da fare, in fondo scollegate tra loro. Ma quando si è portati nel segreto del proprio cuore attirati dal Padre nella preghiera si tende a ritrovare la giusta importanza di ogni cosa e a viverla nell’amore per il fratello. È tutto un comprenderci di Dio che viene a mettere, se lo vogliamo, olio sulle nostre ferite invece di giudizio, vino di grazia e di vita invece che moralismi. E questo sciogliersi del cuore avviene non attraverso una comprensione intellettualistica ma lungo il cammino della vita, condivisa, anche in discussione, con i fratelli nella fede e con gli altri. Per questo Gesù non si manifesta subito, come un concetto, ai discepoli di Emmaus. È il cuore concreto che lungo il percorso, nelle concrete domande, nei concreti bisogni, si può scoprire amato, compreso e portato nella grazia verso risposte serene, liberanti, vivificanti, con ogni bene. Per questo è importante trovare le risposte col padre spirituale nella vita concreta non in astratto.

La fiducia che ogni bene, anche materiale, è una grazia che viene dal Padre. Torniamo al discorso della montagna, nei capitoli 5, 6, 7, di Matteo. Parte dalle Beatitudini. Dal riaprirsi del cuore, per grazia, alla fiducia, alla gioia immensa, di essere amati dal Padre. Il pensare di cavarsela da soli nei vangeli appare spesso come un bisogno dell’uomo di non dover fare i conti con regole astratte o al contrario nel viverle formalisticamente con proprie inesistenti forze. È la parabola del figliol prodigo. Uno scoprire che l’amore può essere solo nella libertà, nella gratuità: una grazia. E grazia vuol dire leggerezza, bellezza, gratuità, carità, vita, ogni bene… Le ferite, le distorsioni, di una vita vissuta senza essere amati, condizionati a fare, o non fare, qualcosa, in cerca di ingannevoli consolazioni, possono comportare la contrazione di abitudini, di piegature del cuore, che poi nel suddetto percorso di riscoperta di una vita semplice e autentica possono richiedere anch’esse una serena vigilanza, un sereno impegno, per il loro riconoscimento e per il loro superamento. La pace che viene non è una quiete stagnante è anche una serena veglia sul nuovo venire di Dio che sempre, con delicato amore, mi porta fuori dal vecchio me stesso. Ma ogni cosa se e quando è nella sapienza del Padre, per la vita, non per un meccanico efficientismo. Trovando la via della gioia gradualmente sono disposto a passare per la sana porta stretta, talora, del mettermi davvero in discussione, di mettere in gioco il mio cuore profondo, alla ricerca delle vere motivazioni che mi muovono e delle risposte. Risposte libere, dunque non cercate per fare contento qualcuno ma per trovare vita, gioia, pace e ogni bene. Ciò può comportare anche un impegno a misura per staccarsi da vecchie abitudini. Spesso, con l’aiuto della preghiera, con la motivazione della carità, un digiuno, anche aiutato da sostegni pratici. Quel “tagliare” ciò che è di scandalo di cui parla Gesù nel discorso della montagna. Se vuoi staccarti dall’abitudine di usare male il computer non metterlo in soffitta ma in sala da pranzo, dove passano tutti. È solo un esempio. Il vero peccato di Giuda è stato allora l’essere ladro, l’essere attaccato al denaro? Forse, ognuno ha il suo cammino, le risposte si trovano nella vita concreta. Magari si possono dare pregressi attaccamenti fasulli talora difficili da sciogliersi in un istante. Una liberazione prima di tutto da radicate prospettive ingannevoli, squilibrate. Ma come superare tali visuali se non trovo qualcosa di più bello, vitale, pacificante? Forse in quel possibile porgere Gesù stesso l’eucaristia a Giuda vediamo che Egli vedeva le ferite profonde dell’apostolo. E quella vita che l’Iscariota gli voleva strappare gliela donava prima Lui stesso. E non vedeva l’ora di farlo.

A cura di don Giampaolo Centofanti su il suo blog


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