d. Giampaolo Centofanti – Commento al Vangelo del 1 Aprile 2020 – Gv 8, 31-42

Dio ci guarda con amore e gradualmente ci libera dal bisogno di difendere il nostro io. Possiamo fare i bravi senza che il nostro cuore profondo, le nostre ferite, paure, siano messe in gioco. È il moralismo del figlio maggiore della parabola.

Il figliol prodigo cerca il vero se stesso, anche per vie sbagliate. E gradualmente l’esperienza umana dei fallimenti e la luce del cielo lo portano ad aprire con semplicita il cuore profondo alla luce amorevole che davvero pacifica il profondo del nostro cuore. In una parola: veniamo portati dalla paura della legge, fuggita come il figliol prodigo o rispettata formalmente come il figlio maggiore a scoprirci amati e dunque gradualmente a desiderare che il nostro cuore intimo, delicato, sia messo nella luce amorevole di Dio.

Non temendo di lasciare illuminare i nostri punti deboli. Che prima sotto il peso della legge difendevamo accanitamente, colorando le nostre azioni di motivazioni non vere: in varia misura fughe dai valori oppure ossequio di essi formalistico e perciò anche giudicante gli altri dall’alto della propria inattaccabilita. I discepoli di Gesù facevano scoperte vivevano una vita bella e quando sbagliavano con l’aiuto di Gesù aggiustavano il tiro senza fustigarsi.

Quando la fragilità e stata un rinnegamento Pietro ha pianto ma anche qui in una serena accettazione della propria fragilità perché si e sentito compreso e amato profondamente da Gesù. In quel momento anzi ha compreso più pienamente che non era lui ad essere bravo (se anche tutti ti rinnegassero io non ti rinneghero mai) ma che senza la grazia non poteva fare nulla. Da quel momento e divenuto serenamente un piccolo tra le braccia di Dio e non ha più giudicato il cuore profondo (non parlo dei limiti comportamentali esterni) degli altri.

Ricordi di un prete

I poveri palazzi di periferia
non mi hanno mai messo tristezza,
ciò che fa male sono gli agglomerati
indifferenti, pare, al passo del vicino.
Lì dove la città digradava in campagna
le case si facevano basse, vedevo prati
di pecore, di mucche, di cavalli… come
un miracolo proprio sperato tutto
davvero era piu semplice e buono.
La domenica dopo la siesta il prete
anziano s’incamminava forse da un amico
alle case della quercia, sul colle.
E tornava al tramonto col suo basco nero
calcato sulla fronte e la tonaca tonda,
ormai lo sapevo, che odorava di vino.
La gente scendeva al paese a folate
di famiglie, di amici, così modesta, essenziale,
da consolare il cuore nella sua povertà.
Ed io dal terrazzino vedevo nel campo cavalli
pezzati come fosse il Minnesota d’inverno
al tempo dei cheyenne e recitavo,
spiazzato dalla prima missione,
sereno il salmo della sera.

Poesiola tratta da Piccolo magnificat, un canto di tanti canti (poesie che un prete ha sentito cantare, inavvertitamente, dalla vita, dalla sua gente).

A cura di don Giampaolo Centofanti su il suo blog


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